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Editoriale


Lo scorso 1° maggio, i confini ad Est dell’Europa si sono modificati e, insieme ad essi, le prospettive di sviluppo dell’Unione. Nel senso più ampio del termine. Realizzato l’obiettivo dell’allargamento, uno dei rischi è che questo venga percepito più come un traguardo che come una tappa intermedia di un processo ancora ricco di sfide.

Lo scorso 1° maggio, i confini ad Est dell’Europa si sono modificati e, insieme ad essi, le prospettive di sviluppo dell’Unione. Nel senso più ampio del termine. Realizzato l’obiettivo dell’allargamento, uno dei rischi è che questo venga percepito più come un traguardo che come una tappa intermedia di un processo ancora ricco di sfide.

Quando si considerano gli effetti economici dell’allargamento, i cittadini della “vecchia” Unione a 15 sono infatti istintivamente portati a percepirli in maniera “statica”, prestando attenzione ai dati di stock attuali (evidenziando ad esempio che i nuovi membri arricchiscono il Pil comunitario soltanto dell’8%, a fronte di un incremento del 47% nella popolazione) piuttosto che agli effetti “dinamici” di tale processo. Se è vero che la capienza della domanda del mercato europeo si modifica solo marginalmente, è tuttavia difficilmente contestabile che l’offerta produttiva della nuova Unione a 25 si arricchisce di una base industriale diversificata, in grado di rendere maggiormente competitivo il nostro settore manifatturiero in una fase di crescente internazionalizzazione delle produzioni. La presunzione che i “vantaggi” dell’allargamento ricadano esclusivamente a beneficio dei nuovi entranti, mentre la “vecchia” Europa si troverebbe a sostenere soltanto i costi derivanti dall’ampliamento del budget dell’Unione, appare troppo incentrata su un antistorico confronto “bipolare” fra vecchi e nuovi Membri, ignorando più o meno volutamente che alcuni dei nuovi entrati – in particolare quelli di minore dimensione – presentano già condizioni di reddito reale prossime alla media comunitaria. Non solo: nella mia esperienza “sul campo” ho potuto verificare che anche la qualità e la professionalità delle risorse umane, in quei Paesi, è già perfettamente allineata con i nostri standard.

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