Il Giappone sposta la produzione fuori dalla Cina stanziando 2,2 miliardi di dollari per aiutare le proprie imprese. Favorevoli gli Stati Uniti
Lo scorso aprile il Giappone ha stanziato 2,2 miliardi di dollari per aiutare le proprie aziende a spostare la produzione fuori dalla Cina. Il motivo – o il pretesto, secondo alcuni analisti – è la crisi del coronavirus, che ha causato un blocco alla catena di approvvigionamento. Le industrie giapponesi sono infatti fortemente dipendenti dalla Cina per l’importazione di componenti e materie prime necessarie alla produzione. Più in generale, Pechino è il principale partner commerciale di Tokyo.
Con questa mossa, insomma, il Giappone punta a “sganciarsi” dalla Cina per rafforzare – diversificandola – la propria filiera manifatturiera, riportando parte della produzione in patria e trasferendo il resto in Paesi del sud-est asiatico. Non è un progetto semplice da realizzare, considerata l’importanza della Cina e del suo mercato, ma che – secondo un’analisi di The Diplomat – potrebbe avere successo, anche per ragioni geografiche.
La dipendenza del Giappone dalla Cina si è fatta sentire anche sul versante sanitario: il Giappone ha avuto difficoltà ad aumentare la produzione di mascherine e materiale medico per far fronte alla maggiore richiesta causata dall’epidemia. La settimana scorsa il Presidente americano Donald Trump ha telefonato al Primo Ministro giapponese Shinzo Abe proprio per rassicurarlo sul fatto che gli Stati Uniti sono pronti a inviare respiratori “in qualsiasi momento”.
La guerra tecnologica
La decisione di Abe di “allontanarsi” dalla Cina è stata accolta molto bene negli Stati Uniti, dove Trump ha peraltro dichiarato che potrebbe tagliare del tutto le relazioni con Pechino. Va specificato, a proposito, che il distacco giapponese dalla Cina potrebbe riguardare anche un aspetto centrale dello scontro tra Washington e Pechino: la tecnologia.
Venerdì l’amministrazione Trump ha imposto nuove restrizioni nei confronti di Huawei – la grossa azienda di telecomunicazioni cinese da tempo nel mirino nella Casa Bianca – con l’intento di bloccarne l’accesso ai semiconduttori: l’industria cinese dei semiconduttori non è molto sviluppata e la Cina ha bisogno di importarli dall’estero. Visto che il coordinamento tra Stati Uniti e Giappone è piuttosto stretto, è possibile che anche Tokyo possa limitare l’esportazione di chip verso la Cina.
I rapporti tra Giappone e Cina
La mossa di Tokyo è giunta però in un momento molto delicato per i rapporti con la Cina. A simboleggiare la nuova amicizia tra le due nazioni, ad aprile il Presidente cinese Xi Jinping avrebbe dovuto compiere la sua prima visita in Giappone.
Negli ultimi anni Shinzo Abe ha portato avanti un tentativo di riavvicinamento diplomatico con la Cina, senza per questo rinunciare all’alleanza storica con gli Stati Uniti. Tra Tokyo e Pechino ci sono comunque delle tensioni, soprattutto marittime: ad esempio, è ancora viva la disputa territoriale sulle isole Senkaku (o Diaoyu, per i cinesi) nel Mar cinese orientale, un’area ricca di risorse naturali. Proprio pochi giorni fa il Giappone ha protestato contro la Cina per un “incidente” tra un peschereccio giapponese e una nave della Guardia costiera cinese nelle acque intorno alle isole in questione.
Lo scorso aprile il Giappone ha stanziato 2,2 miliardi di dollari per aiutare le proprie aziende a spostare la produzione fuori dalla Cina. Il motivo – o il pretesto, secondo alcuni analisti – è la crisi del coronavirus, che ha causato un blocco alla catena di approvvigionamento. Le industrie giapponesi sono infatti fortemente dipendenti dalla Cina per l’importazione di componenti e materie prime necessarie alla produzione. Più in generale, Pechino è il principale partner commerciale di Tokyo.
Con questa mossa, insomma, il Giappone punta a “sganciarsi” dalla Cina per rafforzare – diversificandola – la propria filiera manifatturiera, riportando parte della produzione in patria e trasferendo il resto in Paesi del sud-est asiatico. Non è un progetto semplice da realizzare, considerata l’importanza della Cina e del suo mercato, ma che – secondo un’analisi di The Diplomat – potrebbe avere successo, anche per ragioni geografiche.
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