L’attacco alle Torri Gemelle segna il passaggio tra un prima e un dopo, tra un’America forte dove ogni sogno poteva trasformarsi in realtà e un’America dove la paura porta alla necessità di difendersi, magari collezionando errori
È stato scritto tutto, e anche di più. Non c’è persona che non si ricordi dove era e cosa stava facendo in quel dannato 11 settembre di venti anni fa. Chi non era nato ha visto solo le immagini televisive. Scioccanti ancora oggi dopo tanti anni, nella loro tragica spettacolarità. Ma per chi c’era quello segna il passaggio tra un prima e un dopo. Tra un’America forte e ingenua vissuta come approdo felice, dove ogni sogno poteva trasformarsi in realtà. Dove i “buoni” alla fine vincevano sempre. E il dopo, la paura che era entrata in casa a scompaginare le carte. E la necessità di difendersi, magari collezionando errori. Come l’ultimo, la scomposta fuga da Kabul.
Chi scrive ha visto in diretta le immagini del primo attacco alla torre su una televisione della saletta vip dell’aeroporto di Lubiana insieme al Ministro degli Esteri di allora, Renato Ruggiero. Le prime telefonate dei colleghi della Reuters parlavano di grave incidente aereo a Manhattan. Ma eravamo già in volo per Zagabria quando anche la seconda torre era stata attaccata. Giusto il tempo di trovare un altro televisore e lo scempio si stava compiendo sotto i nostri occhi con il crollo delle due torri. Ruggiero scosse la testa e ripeteva: “Qui cambierà tutto, la storia da oggi sarà diversa”.
Un rapido passaggio al Ministero degli Esteri croato e poi il rientro a Roma per capire, informarsi, prendere le prime decisioni. Nei giorni successivi Berlusconi tardava a far sentire la sua voce insieme a quella di Chirac o di Schroeder. Di lì a pochi giorni l’Assemblea generale delle Nazioni Unite si stava trasformando in un vertice mondiale sul terrorismo. Ruggiero su invito di Colin Powell volò a New York (suscitando, pare, alcune gelosie dello stesso Berlusconi).
Dai piani alti dell’Hotel Millenium Plaza si vedevano a Downtown le rovine ancora fumanti delle Torri mentre un odore acre impestava ancora tutta Manhattan. Insieme al console italiano Radicati e a Ludovico Ortona salimmo con il sindaco Rudolph Giuliani su un piccolo elicottero che ci portò proprio sulle Torri. Era una scena di guerra e di dolore infinito. In diretta per la CNN Ruggiero commosso annunciò il sostegno dell’Italia, anche economico. Un primo immediato aiuto di alcune centinaia di migliaia di dollari per la ricostruzione della Chiesa ortodossa di San Nicola, patrono di Bari, distrutta anch’essa dal crollo e alla quale era molto affezionato il sindaco Giuliani, che vi passava accanto quando aveva lì vicino il suo ufficio di Attorney del Southern District di New York.
Poi subito dopo a Bruxelles per attivare, prima volta nella storia, l’articolo 5 del Trattato Atlantico sulla mutua difesa. Si capì solo dopo che gli Stati Uniti con Enduring Freedom volevano fare da soli. Lo ricorda bene l’ambasciatore Sergio Vento che in quel momento reggeva l’ambasciata italiana presso le Nazioni Unite.
“L’esperienza del ’99 per il Kosovo – spiega Vento – e i condizionamenti del comando congiunto con gli europei erano stati vissuti negativamente dagli Stati maggiori americani. Dopo le Torri, gli Usa avevano messo in chiaro subito che non volevano mettere i loro militari sotto il controllo né dell’Onu e tantomeno della Nato. Volevano fare da soli con gli alleati che si fossero resi disponibili. Così partì Enduring Freedom. Poi nel 2003 il coordinamento tedesco delle operazioni in Afghanistan convinse anche gli Usa ad accettare un passaggio al coordinamento Nato con Isaf”.
“A tanti anni di distanza – osserva sempre Sergio Vento – dobbiamo riconoscere che ci siamo trovati a fare i conti con un vero fallimento dell’intelligence politica e militare in Afghanistan. È mancata una vera mission politica perché l’azione poggiava su ambienti politici locali poco rappresentativi e corrotti. Non è stata poi considerata l’importanza di una exit strategy. E gli accordi di Doha del 2020 hanno di fatto legittimato i Talebani come interlocutori politici anche se non formalmente riconosciuti. Ma l’11 settembre ha cambiato anche il modo di fare politica e intelligence negli Stati Uniti. Quella che una volta era la Foreign Policy oggi è National Security. È una rivoluzione copernicana che non può non avere riflessi su tutto l’Occidente”.
È stato scritto tutto, e anche di più. Non c’è persona che non si ricordi dove era e cosa stava facendo in quel dannato 11 settembre di venti anni fa. Chi non era nato ha visto solo le immagini televisive. Scioccanti ancora oggi dopo tanti anni, nella loro tragica spettacolarità. Ma per chi c’era quello segna il passaggio tra un prima e un dopo. Tra un’America forte e ingenua vissuta come approdo felice, dove ogni sogno poteva trasformarsi in realtà. Dove i “buoni” alla fine vincevano sempre. E il dopo, la paura che era entrata in casa a scompaginare le carte. E la necessità di difendersi, magari collezionando errori. Come l’ultimo, la scomposta fuga da Kabul.
Chi scrive ha visto in diretta le immagini del primo attacco alla torre su una televisione della saletta vip dell’aeroporto di Lubiana insieme al Ministro degli Esteri di allora, Renato Ruggiero. Le prime telefonate dei colleghi della Reuters parlavano di grave incidente aereo a Manhattan. Ma eravamo già in volo per Zagabria quando anche la seconda torre era stata attaccata. Giusto il tempo di trovare un altro televisore e lo scempio si stava compiendo sotto i nostri occhi con il crollo delle due torri. Ruggiero scosse la testa e ripeteva: “Qui cambierà tutto, la storia da oggi sarà diversa”.