Oggi ricorre l’anniversario dell’assassinio del Mahatma Gandhi, freddato da tre colpi di pistola sparati a distanza ravvicinata da Nathuram Godse, ultranazionalista indiano ed ex membro della Rashtriya Swayamsevak Sangh (Rss), gruppo paramilitare ultrainduista, tra i più fervidi sostenitori del Bjp e di Narendra Modi.

A 66 anni dalla morte di una delle figure più celebri del secolo scorso trovo che non ci sia nulla da aggiungere per quanto riguarda l’influenza che il pensiero di Gandhi – nelle sue multiformi versioni e adattamenti – ha avuto per i movimenti dei diritti mondiali. Della non violenza e affini avevamo già parlato in passato, sia in relazione con Mandela, sia discutendo sul Gandhi uomo in contrapposizione col Gandhi santo.
È interessante notare come, inevitabilmente, la figura di Gandhi sia stata adottata come biglietto da visita imperituro di un’India pacifica e spirituale, l’idea dell’India che il paese ha saputo proiettare magnificamente all’estero adombrando tutto il resto delle contraddizioni che popolano il subcontinente, delle quali spesso si è parlato in questo spazio.
Oggi, sbirciando su Wikipedia, ho notato questo passaggio nella pagina dedicata all’assassinio del Mahatma; si parla delle ultime parole che avrebbe pronunciato in punto di morte.
Le ultime parole sussurrate da Mohandas Gandhi sono state tema di dibattito. Venkita Kalyanam, ex assistente personale di Gandhi, disse di aver sentito in persona Gandhi dire “Oh God”. Il suo segretario, Pyarelal, sostiene le ultime parole siano state “Rama Rama”. Lo stesso Gandhi, in un discorso tenuto nove mesi prima della sua morte, disse “Anche se sarò ucciso non smetterò mai di ripetere i nomi di Rama e Rahim, che per me indicano lo stesso Dio”. Secondo Nathuram Godse, Gandhi disse semplicemente “uhhh”.
Il tira e molla sulle parole di Gandhi è l’esempio perfetto della manipolazione della memoria, toccando anche delle note tragicomiche: un uomo di 79 anni che muore dice “uhhh”, ma Gandhi non può che rimarcare, anche in punto di morte, tutta la propria santità.
L’urgenza di fare di Gandhi un brand era emersa immediatamente dopo l’annuncio della morte. Un bell’articolo pubblicato dal Times of India riprende alcune notizie apparse sui giornali dell’epoca. C’è stato chi, in Orissa, ha proposto di rinominare immediatamente l’India come “Gandhistan”, chi spingeva per realizzare un’enorme statua di Gandhi alta 79 piedi (tanti quanti gli anni del Mahatma) o chi, un po’ in tutto il paese, ha iniziato a voler intitolare strade, città, villaggi a Gandhi.
Un’opera di trasmissione della memoria di facciata, mentre la componente non violenta del pensiero di Gandhi è stata man mano annaccquata nel nome dell’ordine, della giustizia, del controllo.
Jawaharlal Nehru, parlando dell’improvvisa Gandhimania, spiegò che “non avrebbe contribuito né alla convenienza né alla gloria del padre della nazione. Sarebbe solo un’enorme confusione, una scialba uniformità. La maggior parte di noi vivrebbe in via Gandhi a Gandhopoli o nel villaggio Gandhi”.
Difficile dargli torto.
Oggi ricorre l’anniversario dell’assassinio del Mahatma Gandhi, freddato da tre colpi di pistola sparati a distanza ravvicinata da Nathuram Godse, ultranazionalista indiano ed ex membro della Rashtriya Swayamsevak Sangh (Rss), gruppo paramilitare ultrainduista, tra i più fervidi sostenitori del Bjp e di Narendra Modi.