Una prima risposta la si potrebbe trovare nell’accordo siglato a fine giugno tra Israele e Turchia, sei anni dopo l’incidente della Freedom Flotilla: Gerusalemme pagherà un risarcimento di venti milioni di dollari alle famiglie dei dieci cittadini turchi uccisi dalle proprie forze armate e, al tempo stesso, Ankara, guida regionale dei movimenti che si ispirano alla Fratellanza Musulmana, avrà accesso a Gaza, dove governano gli islamisti di Hamas e dove la Turchia potrà costruire un ospedale, con 200 posti letto, e un impianto di desalinizzazione, oltre a una serie di unità abitative. Unica condizione, i materiali per l’edilizia dovranno prima passare attraverso il porto israeliano di Ashdod.
La domanda, invece, è: a che punto è la ricostruzione di Gaza, due anni dopo la guerra dell’estate 2014, l’operazione Protective Edge che portò l’esercito di Gerusalemme ad invadere la Striscia? Le forze armate dello Stato ebraico hanno recentemente pubblicato i loro dati. Fino a marzo 2016 Gaza ha ricevuto 1,409 miliardi di dollari in donazioni per la ricostruzione. Soldi che, accusa Israele, vengono spesi per acquistare armi e missili – nel 2016 sono stati lanciati 13 razzi contro il territorio israeliano – e per costruire i famigerati tunnel, con i quali Hamas fa arrivare nella Striscia beni di ogni tipo, compresi strumenti militari, superando il blocco imposto da Gerusalemme (sempre secondo Israele, ogni tunnel costa tre milioni di dollari e circa mille uomini vengono impiegati nella loro costruzione). Appena il 23 per cento delle case palestinesi, scrivono le Israel Defense Forces, sono state ricostruite. A Gaza la disoccupazione supera il 40 per cento e tra i laureati sfiora addirittura il 60.
Ventiquattro mesi dopo, la ricostruzione è ferma al palo e la presenza al potere di Hamas rappresenta certamente un ostacolo. Dopo la fine della guerra la comunità internazionale promise 5,4 miliardi di dollari per le infrastrutture distrutte durante le operazioni militari. Un progetto di aiuti finanziato in buona parte dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti, allo scopo di evitare il collasso della Striscia. Per impedire che il denaro affluisse nelle mani di Hamas – considerato dagli Usa un’organizzazione terroristica – si decise di creare un meccanismo congiunto per sovrintendere al piano, formato dalle Nazioni Unite, da Israele e dall’Autorità Nazionale Palestinese guidata da Abu Mazen.
Secondo l’accordo iniziale, le donazioni sarebbero state trasferite a Gaza sulla base dei progressi fatti da ogni singolo progetto, sotto la supervisione di un’autorità amministrativa per la ricostruzione. Questa istituzione avrebbe dovuto essere creata dall’Anp, in modo da stabilire delle priorità, approvare e controllare i lavori. Ad Israele sarebbe toccata la consegna dei materiali per l’edilizia.
Questo meccanismo ha fallito, la ricostruzione è lenta e priva di un cronoprogramma. Gli israeliani sostengono di fare la loro parte. Gli europei puntano il dito contro Abu Mazen, accusato di impedire i progressi della macchina amministrativa (già nel marzo 2015 i rappresentanti di Germania, Francia, Gran Bretagna, Italia e Spagna protestarono contro la lentezza dell’Anp). I leader di Hamas e buona parte dei residenti di Gaza credono che questi ritardi siano frutto di una precisa strategia politica dell’Autorità Nazionale Palestinese, volta a boicottare il movimento. In sostanza, Abu Mazen avrebbe deciso di impedire la ricostruzione di Gaza, convinto che il disastro economico avrebbe portato alla caduta di Hamas.
L’organizzazione, invece, è ancora al potere nella Striscia, a Ramallah si va avanti per inerzia e lo stallo palestinese sembra non avere via d’uscita. Per disinnescare le minacce alla sicurezza d’Israele e, al tempo stesso, soddisfare alcune richieste della controparte, il governo Netanyahu sta lavorando a un piano, promosso dal ministro per l’Intelligence, Israel Katz, che prevede la costruzione di un’isola artificiale davanti alla Striscia di Gaza, in grado di ospitare un porto ed un aeroporto internazionale.
Il piano, che è stato giù sottoposto all’attenzione dell’amministrazione Obama, costerebbe cinque miliardi di dollari, per cui, come ha riferito il Washington Post, Gerusalemme è a caccia di partner finanziari (cinesi e persino sauditi). L’isola sarebbe collegata alla terraferma da un ponte a due corsie, che consentirebbe di controllare l’accesso al porto, attraverso un checkpoint gestito da autorità internazionali. L’enclave artificiale avrebbe, a sua volta, uno status internazionale, garantito da forze di sicurezza.
Katz parla dell’isola come di un potenziale hub imprenditoriale palestinese. Il porto permetterebbe di far affluire merci che, attualmente, transitano solo attraverso i valichi di Rafah (con l’Egitto) ed Erez (con Israele), spesso chiusi per motivi di sicurezza o comunque difficilmente permeabili (pochi materiali entrano nella Striscia, perché gli israeliani temono che possano venire utilizzati per costruire armi o per realizzare i tunnel). Il piano, comunque, è di non facile realizzazione, soprattutto perché manca l’intesa politica tra le parti. Tania Hary, direttrice esecutiva dell’ong israeliana Gisha, sostiene che il governo Netanyahu potrebbe aiutare economicamente Gaza in maniera più semplice ed immediata. Ad esempio, consentendo ai prodotti della Striscia di accedere ai mercati di Israele e della West Bank.
Una prima risposta la si potrebbe trovare nell’accordo siglato a fine giugno tra Israele e Turchia, sei anni dopo l’incidente della Freedom Flotilla: Gerusalemme pagherà un risarcimento di venti milioni di dollari alle famiglie dei dieci cittadini turchi uccisi dalle proprie forze armate e, al tempo stesso, Ankara, guida regionale dei movimenti che si ispirano alla Fratellanza Musulmana, avrà accesso a Gaza, dove governano gli islamisti di Hamas e dove la Turchia potrà costruire un ospedale, con 200 posti letto, e un impianto di desalinizzazione, oltre a una serie di unità abitative. Unica condizione, i materiali per l’edilizia dovranno prima passare attraverso il porto israeliano di Ashdod.