L’accordo per il nucleare iraniano è slittato di quattro di mesi. I Paesi del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite con la Germania (P5+1) e le autorità iraniane dovranno attendere il 24 novembre prossimo per scrivere l’intesa finale.

Non è stata rispettata la scadenza del 20 luglio, stabilita a Ginevra il 24 novembre 2013, per la stesura dell’intesa definitiva, nonostante l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) abbia ammesso lo sforzo di trasparenza delle autorità iraniane. Il Segretario di Stato John Kerry ha confermato che le sanzioni resteranno in vigore ma ha assicurato che gli Stati Uniti consentiranno all’Iran l’accesso a 2,8 miliardi di dollari in fondi, fin qui congelati a causa del programma nucleare.
I nodi che hanno impedito l’intesa
«L’Iran ha mantenuto le promesse sul nucleare», aveva assicurato il presidente Barack Obama alla vigilia del settimo e ultimo round negoziale di Vienna. Tuttavia, nel Congresso Usa, le voci di repubblicani e democratici sono state ben più critiche: 344 parlamentari hanno firmato una lettera a Obama chiedendo di essere ascoltati in tema di nucleare iraniano. Il Senato Usa è pronto poi ad approvare una delle leggi più dure contro l’Iran degli ultimi anni, inasprendo le attuali sanzioni contro il programma nucleare e mettendo sotto controllo gli introiti iraniani sulla vendita del petrolio.
La scorsa settimana, pur assicurando il suo sostegno per i negoziatori iraniani, l’ayatollah Ali Khamenei aveva chiesto 190mila centrifughe per il programma nucleare, ben al di sopra delle 10mila concesse, secondo i colloqui di Vienna. L’Iran non vorrebbe cedere neppure sullo sviluppo di centrifughe di nuova generazione (IR-2m). E vorrebbe mantenere attivo il reattore ad acqua pesante di Arak per la produzione di radio isotopi per ricerca in campo medico e agricolo.
Neppure la crisi irachena ha avvicinato l’accordo sul nucleare. Khamenei aveva tuonato contro ogni cooperazione tra Stati Uniti e Repubblica islamica. Gli Usa hanno «manipolato le divisioni settarie in Iraq per trasformare il Paese in uno stato fantoccio», ha detto Khamenei. Mentre hanno pesato sui colloqui la crisi in Ucraina e gli ingenti accordi energetici siglati tra Mosca e Teheran che hanno notevolmente rafforzato le relazioni economiche tra i due Paesi.
Dieci anni di contenzioso nucleare
Era il 2004 quando l’accordo sul nucleare iraniano sembrava a portata di mano. L’allora capo negoziatore Hassan Rouhani aveva assicurato la sospensione provvisoria della conversione e dell’arricchimento dell’uranio, nonché della produzione di componenti per centrifughe. Allora come oggi, l’accordo appariva molto fragile e con poche garanzie.
Il fallimento dei colloqui del 2004, lo stallo voluto dalla presidenza del radicale Mahmoud Ahmadinejad e l’insistenza della richiesta iraniana di continuare con un programma nucleare a scopo civile chiarivano l’uso prima di tutto strumentale, da parte della leadership della Repubblica islamica, della questione nucleare per intercettare e limitare l’opposizione interna. In secondo luogo, il diritto al nucleare civile ha acquisito in Iran una funzione identitaria per cementare il ruolo di Teheran in Medio oriente in funzione anti-americana e anti-israeliana. Infine, ha assunto una connotazione strategica che ha favorito la militarizzazione della società iraniana, mentre i più brillanti ingegneri del Paese venivano eliminati uno ad uno da attacchi mirati, consentendo la fabbricazione di un deterrente credibile contro l’accerchiamento di Teheran, determinato dai conflitti in Iraq e Afghanistan.
Tanto è vero che tra il 2003 e il 2009, sulla necessità di proseguire nelle attività di arricchimento dell’uranio, non si sono levate rilevanti voci fuori dal coro in Iran, neppure da parte dei politici riformisti. La critica alla politica del muro contro muro è arrivata solo con l’inasprimento delle sanzioni internazionali, i cui effetti hanno colpito direttamente la popolazione civile.
L’accordo di Ginevra e l’inasprimento delle sanzioni
Per la prima volta nel novembre 2013, i negoziatori iraniani e dei P5+1 si sono confrontati con l’obiettivo di trovare una soluzione al contenzioso anche per la moderazione in politica interna ed estera espressa dal presidente, il tecnocrate Hassan Rouhani, eletto il 20 giugno di un anno fa. L’accordo in tre fasi prevede il riconoscimento del diritto all’arricchimento dell’uranio al 5 percento, con conversione in ossido dell’uranio già arricchito al 20 percento e la sospensione di parte delle sanzioni internazionali. In cambio verrebbe sbloccata una parte dei proventi della vendita del petrolio iraniano, bloccati nelle banche europee, e sospese le sanzioni all’industria automobilistica iraniana e alle esportazioni nel settore petrolchimico. Infine, nessun sito iraniano, incluso il reattore ad acqua pesante di Arak, dovrebbe essere chiuso.
La sigla dell’accordo di Ginevra è stata preceduta da lunghe trattative. L’intervento chiave che ha rassicurato gli iraniani è stato sostenuto dal ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov. Proprio la discussione su una bozza russa di intesa si era arenata nel precedente round negoziale del 9 novembre per l’opposizione francese e israeliana. In particolare, il ministro degli Esteri francese, Laurent Fabius si era rifiutato di siglare la prima bozza di accordo. Le preoccupazioni in materia di sicurezza, espresse dalla Francia, avevano provocato lo strappo di parte della delegazione iraniana che ha lasciato il tavolo, accusando Parigi di essere sulle stesse posizioni intransigenti di Israele.
Lo slittamento deciso a Vienna placa gli entusiasmi per una celere normalizzazione delle relazioni tra Stati Uniti e Iran. L’estensione dei colloqui non mancherà di avere effetti sui timidi tentativi di riforma, avviati dal moderato Hassan Rouhani, ad un anno dalla sua elezione.
Un’intesa generale che permetta di procedere a un programma di arricchimento dell’uranio a scopi civili faciliterebbe la fine delle sanzioni internazionali. Questo potrebbe permettere il riavvicinamento tra Iran e comunità internazionale, facilitando la soluzione delle principali crisi regionali dall’Afghanistan all’Iraq.