Nonostante il governo turco si ostini ancora a definire i manifestanti di Piazza Taksim come dei radicali sovversivi, dei senza-programma in cerca di una buona scusa per creare disordini e disagi, quando incontri C. ti rendi subito conto che si tratta principalmente di
propaganda politica.

Giovane e sveglia studentessa turca di Scienze Politiche divisa tra la Francia e la Columbia University di New York, C. è una delle tante attiviste del movimento di Occupy Gezi. Al momento dello scoppio delle proteste, C. si trovava a Parigi, da dove ha seguito le rivolte prima come web activist e subito dopo in prima persona, precipitandosi non appena possibile nella sua città natale, Istanbul, lì dove sperava testimoniare fisicamente il tanto atteso cambiamento.
C. ci spiega come l’immagine del manifestante tipo sia ben diversa da quella dipinta dai media al soldo di Erdogan, in alcuni casi addirittura paragonati ai terroristi del PKK.
I manifestanti di Taksim Square si sono sempre impegnati a mantenere le proteste pacifiche ed usare i social network, principalmente Twitter, come unica arma.
Un movimento, quello di Occupy Gezi, che è subito stato elogiato dai media stranieri e dalla comunità internazionale come una versione turca della più famosa Primavera Araba, ma che sarebbe invece più consono paragonare ai movimenti sociali del 1968, sia per i metodi di resistenza che per le richieste da parte dei civili.
C. mi riceve in una tranquillissima Taksim Square, una piazza destinata a far Storia, che però sembra aver già rimarginato le ferite di una rivolta bruscamente repressa; i graffi(ti), unica prova visiva delle proteste, sono infatti stati lavati via per ordine del governo, e i pochi superstiti bisogna cercarli negli angoli più segreti della sponda europea di Istanbul.
C. ci racconta le vicende di una delle tante notti di fuoco, o meglio, di gas, che le migliaia di manifestanti hanno vissuto in prima linea; una pagina di diario del Giugno 2013 comune a molti istanbulioti.
Ci dice:”Un gruppo di civili, supporter del partito AKP, hanno cominciato ad avvicinarsi con coltelli e altri oggetti contundenti verso il nostro gruppo. Nello stesso momento, la polizia ha cominciato a muoversi verso di noi da dietro,così eravamo bloccati nel mezzo.
Hanno cominciato a spruzzare getti d’acqua e gas, quel tipo di gas acido ed arancione che ti acceca e ti manda la gola in fiamme. E’ come se mille aghi ti trafiggessero le tonsille, e la sensazione di cecità momentanea dura più di un minuto. Se cerchi di lavarlo via con acqua o latte, l’effetto peggiora.
Cominciammo a scappare, a correre. Per fortuna, tutti i negozi e i palazzi della zona erano aperti, e ci hanno spalancato le porte senza problemi. Siamo entrati in un palazzo a caso, perchè una donna anziana ci aveva aperto la sua porta per farci rifugiare. Insieme a noi, è entrato un uomo, poteva benissimo passare per uno dei manifestanti, ma poi si è rivelato essere un poliziotto in borghese;non appena entrato, si è messo a gridare “Sono qui!”. Alcuni manifestanti hanno cercato di cacciarlo fuori, ma nel frattempo la polizia aveva già lanciato tre lacrimogeni dentro il palazzo, chiudendo la porta dall’esterno. Siamo dovuti correre di corsa verso il tetto per poter respirare. Da lì, ho potuto vedere 4 poliziotti e 14 civili attaccare una ragazza della mia età. Mi sentivo impotente: l’unica cosa che potevo fare era mandare un tweet per avvisare gli altri e avvertirli di non passare da quella zona”.
Ciò che ha spinto C., e come lei tanti altri manifestanti, ad improvvisarsi, per una o più notti, infermieri, farmacisti, giornalisti, agenti dei servizi segreti, è il messaggio ispiratore
della protesta, con cui molti giovani (e non solo) si sono facilmente identificati. Gente di tutte le etnie (Turchi, Kurdi), religioni (Musulmani e Cristiani), ideologie, ha occupato Gezi Park, perché “questo è un movimento pacifista, un movimento di resistenza, noi
stiamo resistendo, non combattendo. Non abbiamo mai attaccato la polizia, infatti,ma ci divertiamo mangiando e ballando al parco. Tutti lo hanno identificato come un movimento prettamente politico, tanto da paragonarlo alla Primavera Araba. Ma il termine “primavera turca” non può essere più inappropriato. O almeno, questo è quello che penso io.
Non siamo scesi in piazza per supportare l’opposizione, ma per mettere in chiaro una volta per tutte che l’AKP ha pienamente fallito nell’assicurare al popolo turco un pieno funzionamento della democrazia. La nostra unica richiesta è avere un governo che non interferisca o manipoli i nostri diritti civili. Vogliamo dei media senza censure. Non vogliamo tutti i poteri politici concentrati nelle mani di Erdogan, ma un legislativo e giudiziario indipendenti.
Proprio il potere giudiziario sembra ultimamente aver perso l’ago della bussola: vediamo giudici re-investigare le loro sentenze, e cambiarle nonostante alcuni casi fossero già stati chiusi”.
Erdogan, proprio agli albori del suo governo,diceva che la democrazia non può essere un fine, ma solo un mezzo. Ma democrazia significa anche saper ascoltare più voci, non soltanto sotto periodo di elezioni. Ha cercato di associare i volti dei manifestanti con
l’opposizione, ma nulla di più sbagliato.
I racconti di C. riecheggiano come assordanti colpi di martello per le strade della vecchia Costantinopoli. Proprio in questi giorni, infatti, la Turchia attende il verdetto della corte speciale sul caso Ergenekon, i cui 275 imputati, tra cui membri della stampa e sindacalisti, sono stati accusati di tramare un golpe contro il governo Erdogan.
E polizia e manifestanti (pro-imputati) tornano nuovamente ad inondare le strade della Roma d’Oriente.
Nonostante il governo turco si ostini ancora a definire i manifestanti di Piazza Taksim come dei radicali sovversivi, dei senza-programma in cerca di una buona scusa per creare disordini e disagi, quando incontri C. ti rendi subito conto che si tratta principalmente di
propaganda politica.