I giornali l’hanno ribattezzata «la crisi dell’acqua». Antonio Gramsci, in una nota dal carcere del 1930, scriveva che «la crisi consiste nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati».
L’Iran è oggi in questo limbo, tra passato e futuro. Per anni, mentre le terre si inaridivano – soprattutto al centro del Paese – Tehran si è concentrata sulla cura e non abbastanza sulla malattia.
Adesso è tempo di imprimere uno scarto e cambiare il paradigma: non solo affrontando i sintomi, ma soprattutto le cause. Lo dicono i dati, lo reclamano le terre, lo chiede l’economia. Perché è da 47 anni che non pioveva così poco nel Paese. E l’acqua è come il nuovo petrolio per il futuro.
La redistribuzione delle risorse e i nuovi progetti
Pochi giorni fa, l’agenzia Tasnim ha scritto che questo autunno le piogge sono diminuite del 74 per cento rispetto allo scorso anno. Le riserve idriche si sono praticamente dimezzate. Il rischio è che il prossimo anno (che secondo il calendario persiano inizia il 21 marzo 2017), a scarseggiare sia l’acqua potabile in tutto il Paese.
Il ministro dell’Energia, Hamid Chitchian, ha annunciato un piano di redistribuzione delle risorse idriche, indirizzato a portare più acqua nei centri urbani e a riorganizzare le forniture agricole e industriali. «La questione dell’acqua non è meramente tecnica, ma ad essa sono legati aspetti sociali, economici e ambientali che influenzano le vite dei cittadini», ha ammesso. Il suo vice, Sattar Mahmoudi, ha parlato ai media iraniani di un progetto di ricerca riguardante le risorse sotterranee, a oltre 2000 metri, che coinvolgerebbe anche la Russia.

L’Iran ha un sistema di trasporto idrico tanto antico quanto efficiente, fatto di gallerie sotterranee in leggera pendenza e cunicoli verticali: quello dei qanāt. Il sistema idraulico di Shūshtar, nella regione del Khuzestān, a ovest del Paese, risale al quinto secolo a. C. ed è patrimonio riconosciuto dall’UNESCO.
Eppure tutto questo non basta.
Il lago simbolo della siccità e la «sindrome da missione idraulica»
A fine agosto sui social network è partita la campagna «sono il lago Urmia» من_دریاچه_ارومیه_هستم#, per chiedere un intervento delle Nazioni Unite. Sono state quasi due milioni le firme raccolte. Acque ormai diventate rosse per il lago diventato un simbolo nazionale: è una distesa salata di 5200 chilometri quadrati nell’Iran nordoccidentale, che si è ormai ridotta al 10 per cento delle sue dimensioni originarie.
Sono diversi i fattori che hanno de facto prosciugato l’Urmia: 1) le oltre 50 dighe dell’area, 2) metodi di irrigazione intensiva, 3) l’uso non regolamentato delle risorse idriche, 4) l’impiego indiscriminato di fertilizzanti.
Come hanno scritto i ricercatori Shirin Hakim e Kaveh Madani, l’Iran soffre di una «sindrome da “missione idraulica”, uno stato d’animo in cui un Paese cerca di manipolare le risorse idriche interne per soddisfare la domanda attraverso misure miopi basate sulla tecnologia e l’ingegneria su larga scala».

All’origine della crisi: crescita della popolazione, agricoltura inefficiente e cattiva gestione
Dalla rivoluzione del 1979 ad oggi, la popolazione è quasi raddoppiata e soprattutto si è trasferita in gran parte dalle aree rurali alle città. Se negli anni Settanta nelle città viveva il 44 per cento degli iraniani, oggi la percentuale è salita al 70%. In alcune aree, dunque, si è concentrata una richiesta consistente di risorse idriche, senza un’adeguata risposta in termini di strutture e controllo della distribuzione.

Se l’agricoltura contribuisce a poco meno dell’8 per cento del Pil e impiega poco meno del 20 per cento della popolazione, consuma il 92 per cento delle risorse di tutto l’Iran a fronte di una porzione di terreno coltivata pari al 15 per cento del Paese. Tra le sanzioni internazionali e la siccità, l’export dei pistacchi è passato dal 33 al 13 per cento. Secondo la Camera di Commercio, ogni anno 20 mila ettari di campi di pistacchi vengono prosciugati a causa della desertificazione.

Oltre i numeri, il quadro socio-economico, ma soprattutto la gestione intermittente e poco lungimirante delle politiche legate all’acqua e allo sviluppo hanno velocemente spinto l’Iran nell’interregno della crisi.
A Tehran, dunque, non manca la tecnologia né la tecnica, ma una gestione più consapevole e meno orientata allo sviluppo di breve termine che riguarda meno spreco delle risorse e una migliore cooperazione tra i diversi settori: dall’agricoltura ai trasporti, passando per la governance dell’acqua.
Di certo, continuando a sfruttare il 97 per cento delle sue risorse, a fronte del 40 per cento a livello internazionale, diventerebbe una vera e propria «crisi auto-inflitta».