Meno bombe del previsto alle urne, ma il successo della sicurezza non è una sconfitta per i Talebani, che sono riusciti a sabotare il voto limitando le vittime. Nel caos elettorale emerge una volontà di cambiamento, ma il sistema politico-istituzionale arranca dietro alla società
Jalalabad – «Metà dei 700 funzionari della Commissione elettorale non si sono presentati, in alcuni casi gli impiegati sono statti assunti sul posto, senza preparazione. Nei distretti rurali, uomini armati sono entrati nei seggi e hanno impedito le elezioni o hanno bruciato le liste. In altri casi, sono state picchiate le elettrici nelle sezioni femminili. In più di un’occasione, i candidati o i loro agenti sono stati visti mentre pagavano somme di denaro in cambio del voto. Insomma, un bilancio complicato».
Rohullah Lalpoorwal è il responsabile per la provincia di Nangarhar dell’Afghanistan Civil Society Froum Organization, una delle associazioni che hanno monitorato lo svolgimento delle elezioni parlamentari tenute sabato e domenica in Afghanistan, salutate come un successo dal presidente Ashraf Ghani. A Jalalabad, capoluogo della provincia orientale di Nangarhar, al primo piano di una palazzina semplice che si affaccia sulla strada rumorosa c’è il suo ufficio. Alle pareti, librerie zeppe di faldoni ben ordinati. In terra, ampi tappeti su cui lavorano una decina di ragazzi, testa bassa, penna in mano e decine di fogli e appunti davanti a loro. Sono una parte dei 50 osservatori spediti dall’organizzazione di Lalpoorwal nei seggi elettorali di Nangarhar.
Una provincia centrale negli equilibri nazionali: qui i distretti rurali passano dal controllo governativo a quello talebano con molta facilità, la notte si sentono i tonfi pesanti dei combattimenti e la “provincia del Khorasan”, la branca locale dello Stato islamico, ha scelto questa provincia al confine con il Pakistan come principale base operativa e di reclutamento. Ed è proprio qui che nell’aprile 2017 il presidente statunitense Trump ha mostrato i muscoli facendo sganciare nel distretto di Achin la “madre di tutte le bombe”, nel tentativo – inutile – di “stanare i terroristi”.
«Ci aspettavamo più attentati, più bombe, e invece la giornata elettorale è stata particolarmente tranquilla», nota Abdul Latif Mal, collaboratore di Lalpoorwal, una vita da giornalista prima di dedicarsi all’attivismo sociale. «Dobbiamo ringraziare i nostri soldati per questo: hanno fatto un ottimo lavoro». È la prima sorpresa di queste elezioni, rimandate di tre anni e mezzo ma comunque frettolosamente organizzate dalla Commissione elettorale indipendente.
Accusate di scarsa professionalità e preparazione, le forze di sicurezza si sono dimostrate efficienti: «Sono 37 anni che faccio questo lavoro, ne ho viste tante nella mia carriera, non mi faccio certo impressionare dai Talebani. Non ci impediranno di votare», ci aveva detto con orgoglio il giorno delle elezioni Ajmal Omarzai, “addestrato in Ucraina” ai tempi in cui erano i sovietici e non gli americani a dettare legge in Afghanistan e vice responsabile della sicurezza nel centro elettorale di Taj Rubay, a Jalalabad. «Non ho mai avuto paura dei Talebani e non ne ho oggi. Difenderò il diritto dei miei concittadini», aveva commentato in modo simile Haji Hussein, poliziotto dalla lunga barba scura e dalla faccia simpatica, a presidio dei seggi della scuola femminile Afghan Mina.
Il ministro degli Interni inizialmente aveva deciso di dispiegare 50.000 uomini per il presidio elettorale. Poi ne ha aggiunti 20.000, nonostante i centri fossero stati ridotti dagli iniziali 7.300 a circa 5.000. A urne chiuse, i soldati si sono guadagnati il plauso del presidente Ghani e gli encomi della popolazione. Secondo il ministero sarebbero state soltanto 17 le vittime civili, anche se il numero appare poco verosimile.
Il successo dell’esercito e della polizia non è però la sconfitta dei Talebani. Anche gli studenti coranici incassano un dividendo politico, per due ragioni principali. La prima è che sono riusciti a realizzare la strategia annunciata e più volte ribadita nei comunicati stampa: sabotare le elezioni evitando il più possibile le vittime civili. Si trattava di un compito difficile, figlio di una certa maturità politica, che i barbuti hanno portato a termine agendo perlopiù lontani dai seggi elettorali, bloccando le vie di comunicazione, impedendo la circolazione, intimidendo gli elettori e presidiando il territorio con una presenza significativa.
È la seconda ragione per cui non possono dirsi sconfitti: hanno dimostrato di controllare ampie porzioni del territorio, di essere i veri antagonisti della sovranità statuale. In questo Paese da 35 milioni di abitanti, di cui avrebbe votato poco più del 10%, lo Stato non ha il monopolio della forza, conteso invece da gruppi armati e soprattutto dai Talebani, che condizionano fortemente la vita nelle aree rurali.
Impossibile non tener conto della grande spaccatura tra aree urbane e aree rurali, se si vuole capire l’Afghanistan e il significato del voto di sabato e domenica. A Kabul, la capitale, così come nelle città principali di Herat, al confine con l’Iran, Mazar-e-Sharif, verso l’Uzbekistan, o Jalalabad, la partecipazione al voto è stata significativa, a giudicare dai primi dati e dalle impressioni raccolte sul campo. Ma le città sono anche le zone più protette, perché sotto il controllo governativo. Diversa, molto diversa la situazione soltanto pochi chilometri fuori dalle città. E diversa anche nel caso di città come Kunduz, nel nord del Paese subito sotto il confine tajiko: sabato, proprio mentre si votava, per molte ore è stata tagliata fuori da ogni comunicazione, mentre in città piovevano razzi dalle campagne vicine.
La partecipazione, dunque, è stata disomogenea. Alta nelle città, bassa nelle campagne. Nulla nelle aree sotto il controllo dei gruppi anti-governativi. Il portavoce della Commissione elettorale stima che abbiano votato 4 milioni di persone, meno della metà di quelle registrate nelle liste elettorali e circa la metà dei cittadini eleggibili. Un voto parziale, minoritario in termini statistici, che esprime però una tendenza più ampia e significativa di quanto non dicano i numeri: la volontà della popolazione di assumere decisioni autonome, in prima persona, che non siano etero-dirette o imposte dall’esterno. Una rivendicazione di sovranità, per quanto limitata.
Si tratta di una volontà di cambiamento forte, soprattutto in alcuni segmenti della società, che viene però contraddetta dal sistema istituzionale, incapace di raccoglierla in modo trasparente e trasformarla in espressione politica, come dimostra il caos elettorale: ritardo nelle aperture dei seggi; macchine di riconoscimento biometrico malfunzionanti; liste elettorali incomplete; materiali spediti nei seggi sbagliati; personale impreparato; orari di chiusura variabili; commistione tra funzionari della Commissione e candidati, interferenze politiche, etc. Tutti elementi che hanno portato il portavoce della Commissione, sabato sera, ad annunciare a sorpresa una seconda giornata di voto per quei seggi che non erano riusciti ad aprire sabato, o che l’avevano fatto troppo tardi. Una eccezione – che molti giudicano contraria alla Legge – che ha gettato confusione su confusione. E che non è bastata a convincere i più disillusi.
«A votare non sono andato, neanche domenica. E perché avrei dovuto farlo? Prima ancora che le elezioni, servono istituzioni solide. Se si vota prima di consolidare le istituzioni, il voto finisce per indebolirle. È una presa in giro», così ci ha detto a Kabul, lunedì, Atif Faqirzadah, membro di Mediothek Afghanistan, associazione specializzata nel peace-building. «I tempi non sono maturi. C’è bisogno di istituzionalizzare la partecipazione, prima di indire le elezioni», aggiunge Faqirzadah, che rimanda alla lettura di Political Order in Changing Societies di Samuel Huntington, per dare corpo alla sua idea.
Il sistema politico-istituzionale, dunque, arranca dietro alle trasformazioni della società, una società demograficamente giovane, più consapevole dei propri diritti rispetto a pochi anni fa. Che ora aspetta di capire se abbia fatto bene a riporre la propria fiducia nel processo elettorale: «La legittimità del parlamento dipende dal modo in cui si è votato, dal modo in cui verranno contati i voti e aggiudicati i seggi». Sotto il primo aspetto, commenta Abdul Latif Mal, «le cose sono andate male». Quanto agli altri due, «bisognerà aspettare alcune settimane». Settimane in cui, come nelle elezioni precedenti, non si farà che parlare di frodi. «Le frodi finora sono state una componente centrale di tutte le elezioni. Difficile trarre un bilancio ora su queste ultime parlamentari. Certo che dove ci sono problemi tecnici in genere c’è più possibilità di manipolare il voto», chiude maliziosamente Abdul Latif Mal.
@battiston_g
Meno bombe del previsto alle urne, ma il successo della sicurezza non è una sconfitta per i Talebani, che sono riusciti a sabotare il voto limitando le vittime. Nel caos elettorale emerge una volontà di cambiamento, ma il sistema politico-istituzionale arranca dietro alla società
Jalalabad – «Metà dei 700 funzionari della Commissione elettorale non si sono presentati, in alcuni casi gli impiegati sono statti assunti sul posto, senza preparazione. Nei distretti rurali, uomini armati sono entrati nei seggi e hanno impedito le elezioni o hanno bruciato le liste. In altri casi, sono state picchiate le elettrici nelle sezioni femminili. In più di un’occasione, i candidati o i loro agenti sono stati visti mentre pagavano somme di denaro in cambio del voto. Insomma, un bilancio complicato».