Il presidente Ghani è pronto a concedere legittimità politica e immunità ai Talebani per chiudere il conflitto. Una proposta senza precedenti, ma non senza precondizioni. Kabul chiede molto, e troppo presto. E rischia di scatenare l’ala più dura del movimento
“Sarà la volta buona?”. Se lo chiedono in molti in queste ore in Afghanistan. Ieri infatti il presidente Ashraf Ghani, il tecnocrate che intende fare del Paese l’hub energetico e commerciale dell’Asia centrale, ha annunciato una proposta che suona clamorosa. Nell’ambito del Kabul Process II, un’iniziativa diplomatica della comunità internazionale per favorire il negoziato di pace, Ghani ha offerto ai Talebani, il più importante movimento anti-governativo, una serie di concessioni mai avanzate finora.
La prima, e più importante, è il riconoscimento dei Talebani come partito politico. Un passo che ne implica un altro, implicito nel discorso di Ghani e nel documento governativo che è stato fatto trapelare ai media, ma cruciale: l’immunità per i crimini commessi, una delle questioni intorno alle quali più è divisa la società afghana. La patente di legittimità politica e l’immunità si accompagnano a una serie di misure che dovrebbero convincere i Talebani, gli studenti coranici che hanno governato il Paese dal 1996 al 2001 con l’Emirato islamico d’Afghanistan, a rinunciare alle armi.
Si va dall’apertura di un ufficio politico a Kabul o in un altro Paese (anche se i barbuti già dispongono dell’ufficio di Doha, in Qatar) al rilascio dei prigionieri dalle carceri governative; da passaporti, visti e libera di circolazione per i leader del movimento alla possibilità di emendare la Costituzione, nei termini previsti dalla legge, ha specificato Ghani. E poi il reintegro e il reinserimento dei militanti che vivono all’estero, sicurezza personale, lavoro e garanzie per chi decide di abbandonare le armi.
Ghani ha inoltre auspicato che «i Talebani diano suggerimenti sul processo di pace», archiviando la vecchia distinzione, fin qui preliminare all’ipotesi negoziale, tra Talebani “buoni” e “cattivi”. Secondo Ghani, quelli che accetteranno la sua offerta saranno, ipso facto, buoni. Quelli che la rifiuteranno verranno considerati incompatibili con il processo di riconciliazione: cattivi. Per loro, pare di capire, non varrà il cessate-il-fuoco invocato nel corso della conferenza stampa di mercoledì.
Per ottenere “una pace genuina e longeva con tutti i Talebani disposti alla riconciliazione”, il presidente afghano ha offerto il massimo che poteva, si dice. Si tratta di «una proposta senza pre-condizioni», ha precisato più volte. Un tema su cui hanno insistito i principali media che si sono occupati della questione. Ma è proprio così?
A ben guardare, non proprio. Secondo il documento governativo, il processo e l’eventuale accordo di pace sono vincolati al riconoscimento dei diritti e dei doveri di tutti i cittadini (specie delle donne); all’accettazione della Costituzione, con eventuali emendamenti da apportare tramite le procedure costituzionali; al fatto che le forze di sicurezza future operino nel perimetro della legge (niente milizie o eserciti irregolari controllati dai barbuti, in sintesi); allo smantellamento di ogni gruppo che mantenga legami con il terrorismo o il crimine transnazionale (seria preoccupazione degli americani).
È vero dunque che si tratta dell’offerta più esplicita e generosa fin qui fatta ai Talebani dal governo afghano, tanto generosa da aver suscitato le immediate obiezioni di quella parte della società civile che, pur augurandosi la pace, chiede che le richieste di giustizia della popolazione non vengano derubricate come secondarie o marginali e che i diritti faticosamente conquistati non vengano traditi da accordi dietro le quinte (ma Ghani promette “trasparenza”). Ed è vero che l’offerta si basa, come ha sottolineato Ghani, su una buona dose di coraggio (qualcuno lo definisce un salto nel buio). Ma dietro all’offerta “senza precondizioni” del presidente afghano c’è un preciso calcolo politico, e un paletto fondamentale.
La strategia è rischiosa: far passare l’idea che la palla sia esclusivamente nelle mani dei Talebani. Che la decisione, ora, spetti a loro, e proprio nel momento in cui viene loro richiesto un atto simbolico, e politico, che hanno sempre rifiutato di compiere: riconoscere la legittimità del governo di Kabul. Il guaio è che la forma del futuro governo è una delle questioni dirimenti, una di quelle che finora hanno reso impossibile il negoziato, insieme al ritiro delle truppe straniere dal Paese, richiesta prioritaria dei militanti con turbante nero. L’offerta di Ghani contraddice tutto ciò. E contraddice le tradizionali procedure dei processi di pace.
Nei negoziati, le questioni più spinose e di “sostanza” si tengono alla fine, dopo aver creato un clima di fiducia reciproca attraverso piccoli, significativi passi e reciproche concessioni. Con la sua mossa, invece, Ghani concede tanto, ma chiede troppo. E subito. Quel che dovrebbe essere l’esito di un eventuale processo di pace, ne diventa la condizione. La scelta rischia di frammentare ulteriormente la galassia talebana, già divisa tra le anime più radicali, come la rete Haqqani, e quelle più inclini al compromesso, un compromesso su cui potrebbe puntare l’attuale numero uno, Haibatullah Akhundzada.
L’eventuale spaccatura del fronte antigovernativo potrebbe rivelarsi un boomerang per Ghani e il suo governo: i disillusi, gli intransigenti potrebbero decidere di intensificare la lotta, o di avvicinarsi alla Provincia del Khorasan, la branca locale dello Stato islamico che rigetta ogni mediazione come un tradimento. E il conflitto potrebbe prendere altre forme.
@battiston_g
Il presidente Ghani è pronto a concedere legittimità politica e immunità ai Talebani per chiudere il conflitto. Una proposta senza precedenti, ma non senza precondizioni. Kabul chiede molto, e troppo presto. E rischia di scatenare l’ala più dura del movimento