All’indomani del primo turno delle elezioni presidenziali svoltosi in aprile, in molti avevano sottolineato gli importanti progressi compiuti dall’Afghanistan negli ultimi anni. Le votazioni si erano svolte in maniera sostanzialmente pacifica nella gran parte del Paese e i timori espressi alla vigilia circa possibili azioni di boicottaggio da parte dei talebani si erano rivelati infondati.

A meno di cinque mesi di distanza, tuttavia, il quadro è mutato drasticamente e appare oramai dominato da tinte fosche. Accuse di brogli su vasta scala hanno sinora impedito che il processo elettorale venga portato a termine, alimentando timori sempre più fondati che l’attuale stallo politico possa avere serie ripercussioni sul quadro di sicurezza.
Negli ultimi mesi era già stata segnalata una preoccupante escalation di azioni militari da parte dei talebani nelle province sud-orientali, ma anche in altre parti del Paese. In una nota pubblicata il 12 agosto, lo stesso Ministero degli Interni afghano sottolineava come da alcuni mesi i talebani avessero modificato la propria tattica bellica, privilegiando le offensive condotte con diverse decine di uomini rispetto alle azioni di guerriglia.
Nonostante i significativi progressi mostrati dalle forze di sicurezza dal punto di vista delle capacità di combattimento, i talebani sarebbero riusciti comunque a ottenere successi territoriali, per ora limitati, nella provincia meridionale di Helmand e in quelle orientali del Nuristan e di Nangarhar, impegnando inoltre i militari afghani in lunghi combattimenti anche in altre province, tra cui quelle di Kandahar, Farah e Logar.
Da alcune settimane si registrerebbero scontri nella provincia settentrionale di Kunduz, dove i talebani minacciano di prendere il controllo dell’omonimo capoluogo, costringendo i residenti a rifugiarsi nei distretti limitrofi. Una battaglia dal valore fortemente simbolico, trattandosi dell’ultima roccaforte in mano ai talebani prima che l’Alleanza del Nord, sostenuta dagli americani, li costringesse alla fuga nel 2001.
La nuova offensiva talebana è il frutto di una serie combinata di fattori.
Innanzitutto, la timeline dettata dal Presidente Obama. In molti ritengono che l’aver fissato delle tappe tanto ravvicinate per il ritiro delle truppe americane (entro la fine di quest’anno l’interruzione delle operazioni militari e di pattugliamento; entro la fine del 2016 il ritiro completo del contingente rimasto nel Paese per addestrare le truppe locali e collaborare nelle operazioni contro i terroristi di al-Qaeda) possa aver galvanizzato i talebani, offrendo loro l’opportunità di riorganizzarsi militarmente. Molti ufficiali afghani hanno ad esempio sottolineato come la sospensione delle incursioni notturne contro presunti militanti da parte degli americani e dei loro alleati (decisa in aprile, in seguito alle forti pressioni esercitate dal governo di Kabul) abbia sottratto un’importante arma alla lotta contro i talebani.
In secondo luogo, dietro questa nuova offensiva ci sarebbe il Pakistan, in questi ultimi giorni accusato da esponenti della Direzione Nazionale per la Sicurezza (DNS) di essere direttamente coinvolto dal punto di vista militare. Le tensioni tra questi due Paesi, d’altronde, sono sempre state molto alte. I servizi segreti pakistani (Inter-Services Intelligence, ISI) hanno sin dall’inizio attivamente favorito l’ascesa al potere dei talebani, nella speranza di poter in questo modo esercitare la propria influenza sul Paese. È però la prima volta che le autorità afghane accusano Islamabad di inviare soldati a combattere tra le fila dei talebani.
Infine, l’incertezza derivante da questa fase di stallo, che avrebbe spinto i talebani a intensificare le proprie azioni, così da alimentare instabilità in alcune zone del Paese, per poi avvantaggiarsene a livello politico.
Nei giorni scorsi, il Presidente Karzai si è detto sicuro del fatto che il 2 settembre si insedierà il suo successore, appena in tempo per partecipare al vertice NATO che si terrà a Bruxelles il 4 e il 5 settembre. Ma la tensione a Kabul resta molto alta. Le operazioni di riconteggio dei voti sono ormai prossime al termine, dopo varie interruzioni dovute a divergenze tra i due candidati, Ashraf Ghani e Abdullah Abdullah, circa i criteri per l’invalidazione di quelli considerati irregolari. Tuttavia, la legittimità dell’intero processo di riesame è stata contestata dalla compagine di Abdullah, il quale ha più volte dichiarato l’intenzione di non riconoscere il risultato finale delle elezioni. Un simile epilogo avrebbe conseguenze molto gravi per il Paese, che rischierebbe così di sprofondare in una nuova guerra civile. Una situazione da cui solo i talebani trarrebbero beneficio, riuscendo a sfruttare le tensioni esistenti tra le varie etnie presenti nel Paese per guadagnarsi il sostegno dei Pashtun (etnia maggioritaria, stabilita prevalentemente nelle province sud-orientali) e tentare di conquistare nuovamente il potere.
In ogni caso, come emerge chiaramente dalle attuali vicende irachene, un governo che non avesse piena legittimità incontrerebbe serie difficoltà nell’estendere la propria sovranità su tutto il territorio nazionale. La soluzione di un governo di coalizione proposta dal Segretario di Stato americano John Kerry rappresenta certamente una possibile via d’uscita dall’attuale fase di stallo, ma l’incertezza circa l’effettiva ripartizione delle competenze tra il Presidente e un eventuale chief executive ha spinto i due candidati a mettere in discussione il patto firmato l’8 agosto.
In una fase tanto delicata sarà decisiva la capacità di Washington e dei suoi alleati di esercitare sufficienti pressioni affinché Ghani e Abdullah si rassegnino a una convivenza difficile, sotto la stretta sorveglianza della comunità internazionale. In caso contrario, i limitati progressi compiuti negli ultimi 13 anni andrebbero perduti e lo spettro di un nuovo Iraq sarebbe sempre più vicino.
All’indomani del primo turno delle elezioni presidenziali svoltosi in aprile, in molti avevano sottolineato gli importanti progressi compiuti dall’Afghanistan negli ultimi anni. Le votazioni si erano svolte in maniera sostanzialmente pacifica nella gran parte del Paese e i timori espressi alla vigilia circa possibili azioni di boicottaggio da parte dei talebani si erano rivelati infondati.