In realtà, lo sgretolamento del sistema è cominciato molto prima. La sconfitta della Repubblica afghana è stata politica e sociale, prima ancora che militare
È una buona domanda. La risposta è che non hanno vinto in 12 giorni. Essi hanno dato la spallata finale al sistema Afghanistan in 12 giorni; i 12 giorni che sono trascorsi dalla presa di Zaranj, capitale della provincia meridionale di Nimroz sul confine con l’Iran, che si è arresa il 2 agosto, a quando le prime unità jihadiste sono entrate a Kabul installandosi nella capitale a Ferragosto.
Lo sgretolamento del sistema è cominciato ben prima; volendo fissare una data per “l’inizio della fine” si può risalire a fine febbraio 2020, all’Accordo di Doha tra il Governo degli Stati Uniti e i Talebani, il quale ha tolto legittimità alla parte governativa e certezze alla popolazione. Accordo che ha indebolito, per le modalità con le quali è stato negoziato e concordato, un Governo che di per sé non aveva saputo conquistare i necessari consensi agli occhi della popolazione e che era visto come inetto e corrotto. Vi è stato quindi un fattore esterno di peso, ma esso si è inserito su una dinamica statuale tutta afghana che era già malsana di per sé.
La sfiducia per il Presidente e le istituzioni
La sconfitta militare della Repubblica islamica dell’Afghanistan ha radici profonde, dovuta come è a cause non solo militari ma principalmente istituzionali e politiche. La sfiducia che il Presidente e il suo stretto entourage avevano per le forze armate afghane era altresì palpabile. Ho dovuto io stesso invitare più di una volta i vertici afghani a mostrare, almeno pubblicamente, maggiore vicinanza e sostegno alle loro forze armate. Cosa difficile per il Presidente, il quale riteneva che esse fossero eterodirette e che rispondessero agli americani e alla Nato più che a lui. Una situazione nella quale il Comandante supremo non si fida dei suoi vertici militari e questi ultimi non sentono di avere la fiducia del Presidente e delle istituzioni non è certamente una condizione ideale nella quale trovarsi in tempi di guerra.
Una volta confermato, da parte del Presidente Biden, il ritiro definitivo delle truppe americane, e conseguentemente anche di quelle della Nato entro l’11 settembre, Ghani ha proceduto a “de-americanizzare” l’esercito e la polizia, avvicendando nel giro di poco più di quattro mesi i Ministri della Difesa e degli Interni, vari Viceministri, il Capo di Stato Maggiore della Difesa e i comandanti di tutti e sette i Corpi d’Armata afghani, oltre a un alto numero di comandanti subordinati. Senza contare la sostituzione di un gran numero di Governatori, che in Afghanistan avevano il compito di coordinare localmente i tre pilastri del settore securitario e cioè esercito, polizia e intelligence, e i capi provinciali dei tre servizi. Una girandola di nomine che ha avuto un peso non trascurabile nella impreparazione al combattimento nel momento di maggiore pressione dell’avversario. Il morale già basso delle unità sparse per il Paese, accoppiato con i continui cambi dei comandati ha ulteriormente estraniato le forze armate, che alla fine rifiutarono di combattere ciò che percepivano come una guerra persa.
Corruzione e incompetenza
Si potrebbero elencare molteplici altri fattori strettamente tecnico/militari per spiegare, o almeno tentare di spiegare in termini tecnici la disfatta. E se ne troverebbero molti, a partire dal modello di forze armate creato in Afghanistan per arrivare al morale delle truppe. La sconfitta della Repubblica afghana è stata, prima ancora che militare, politica e sociale. E queste sconfitte non si sono concretizzate in 12 giorni; erano presenti da molto tempo e il ritiro delle truppe americane e alleate è stato il catalizzatore delle molteplici cause concomitanti che hanno concorso al disastro. Assieme con l’uso assai efficace che i Talebani hanno saputo fare della comunicazione strategica, attraverso la quale hanno creato una narrativa della inevitabilità della loro vittoria finale.
Il Governo Ghani ha aperto gli spazi politici ai Talebani grazie a una azione di Governo, o meglio di malgoverno che tra corruzione, incompetenza e supponenza ha progressivamente minato le basi del suo consenso nella società, tra le istituzioni dello Stato e tra le forze armate. La disfatta militare è stata una conseguenza logica della fragilità e della insostenibilità del sistema. Con tutte le loro pecche, le forze armate afghane erano largamente superiori, in tutto, ai Talebani: nei numeri, nell’addestramento, nelle unità speciali, nella superiorità aerea, nella tecnologia.
La lezione da trarre dall’Afghanistan è che la tecnologia non può sconfiggere l’ideologia quando queste si trovano a scontrarsi. Tra le due vince l’ideologia, che dà la motivazione necessaria a perseguire la vittoria. Senza un forte sostegno ideologico e motivazionale la tecnologia e la preparazione specialistica, da sole, servono a ben poco.
In realtà, lo sgretolamento del sistema è cominciato molto prima. La sconfitta della Repubblica afghana è stata politica e sociale, prima ancora che militare
È una buona domanda. La risposta è che non hanno vinto in 12 giorni. Essi hanno dato la spallata finale al sistema Afghanistan in 12 giorni; i 12 giorni che sono trascorsi dalla presa di Zaranj, capitale della provincia meridionale di Nimroz sul confine con l’Iran, che si è arresa il 2 agosto, a quando le prime unità jihadiste sono entrate a Kabul installandosi nella capitale a Ferragosto.