Afghanistan: con i Talebani il processo di pace vacilla
In Afghanistan il processo di pace tra Talebani e Stati Uniti ha iniziato a vacillare ad aprile. A Kabul arriva l'inviato americano con il compito di gestirlo
Alcuni Talebani afghani dopo aver consegnato le loro armi, Herat, 2013. REUTERS/Mohmmad Shoib
In Afghanistan il processo di pace tra Talebani e Stati Uniti ha iniziato a vacillare ad aprile. A Kabul arriva l’inviato americano con il compito di gestirlo
Alcuni Talebani afghani dopo aver consegnato le loro armi, Herat, 2013. REUTERS/Mohmmad Shoib
L’inviato americano per l’Afghanistan, Zalmay Khalilzad, è arrivato mercoledì a Kabul con l’obiettivo di rilanciare l’accordo di pace tra gli Stati Uniti e i Talebani. È stato firmato alla fine di febbraio e – nelle intenzioni dell’amministrazione Trump – dovrebbe rappresentare un primo ma fondamentale passo verso la conclusione della guerra più lunga mai combattuta da Washington.
L’accordo ha però cominciato a vacillare già dallo scorso aprile, quando i Talebani hanno interrotto le trattative con il Governo afghano per lo scambio di prigionieri, accusando l’esecutivo di “sprecare tempo”. Nonostante le pressioni americane su Kabul, il dialogo vero e proprio tra le due parti non è ancora iniziato: per questo Khalilzad ha invitato le autorità afghane a procedere con il rilascio dei prigionieri e a riallacciare i negoziati con i Talebani. Con un paio di tweet pubblicati all’inizio della settimana, anche il Presidente Donald Trump ha ribadito la volontà di mettere fine alla guerra, durata 19 anni e costata agli Stati Uniti oltre mille miliardi di dollari.
La pace, tuttavia, non sembra esattamente vicina. Se è vero che l’Afghanistan ha ritrovato una certa stabilità politica – il Presidente Ashraf Ghani e il suo rivaleAbdullah Abdullah si sono accordati per condividere il potere: sarà quest’ultimo a guidare il dialogo con i Talebani –, d’altra parte i livelli di violenza restano molto alti.
Soltanto un giorno prima dell’arrivo dell’inviato americano, le forze afghane hanno compiuto dei bombardamenti per respingere un assalto dei Talebani a Kunduz, una zona nel nord del Paese da tempo reclamata dai fondamentalisti. Gli americani non sono intervenuti: come nota il Washington Post, l’area di Kunduz potrebbe rivelarsi un indicatore chiave della capacità del Governo afghano di difendere il proprio territorio senza l’aiuto degli Stati Uniti.
Quello di Kunduz, comunque, non è stato un episodio isolato. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite, infatti, dal momento della firma dell’accordo di pace c’è stata una crescita delle uccisioni di civili: le morti causate dal Governo sono superiori del 38% rispetto all’anno precedente, mentre quelle causate dai Talebani sono il 25% in più.
La settimana scorsa il Presidente Ghani ha ordinato ai corpi di sicurezza afghani di passare dalla difensiva all’offensiva dopo l’assalto al reparto maternità di un ospedale di Kabul: tra le vittime, anche mamme e neonati. Ghani ha accusato i Talebani, che hanno negato. Secondo gli Stati Uniti la responsabilità andrebbe ricondotta allo Stato Islamico.
Uno dei timori principali del Dipartimento della Difesa americano è proprio che la situazione di instabilità possa favorire il rafforzamento di una cellula locale dell’Isis, nota come Provincia di Khorasan e attiva principalmente nell’est dell’Afghanistan. Tra le condizioni imposte da Washington ai Talebani con la firma dell’accordo di pace, infatti, c’era l’impegno a proseguire la lotta allo Stato Islamico.
In Afghanistan il processo di pace tra Talebani e Stati Uniti ha iniziato a vacillare ad aprile. A Kabul arriva l’inviato americano con il compito di gestirlo
Alcuni Talebani afghani dopo aver consegnato le loro armi, Herat, 2013. REUTERS/Mohmmad Shoib
L’inviato americano per l’Afghanistan, Zalmay Khalilzad, è arrivato mercoledì a Kabul con l’obiettivo di rilanciare l’accordo di pace tra gli Stati Uniti e i Talebani. È stato firmato alla fine di febbraio e – nelle intenzioni dell’amministrazione Trump – dovrebbe rappresentare un primo ma fondamentale passo verso la conclusione della guerra più lunga mai combattuta da Washington.
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