Ora ci sono anche le firme a sigillare l’accordo che sancisce la nascita del nuovo governo di unità nazionale. Ci sono voluti oltre cinque mesi prima che i due candidati al ballottaggio delle elezioni presidenziali del 14 giugno, Ashraf Ghani e Abdullah Abdullah, trovassero un’intesa su una architettura di governo in grado di soddisfare entrambe le fazioni.

Si tratterà adesso di vedere se il nuovo schema di potere saprà resistere ai colpi che inevitabilmente gli verranno sferrati da ogni parte dello schieramento politico e si rivelerà adeguato per far fronte alle enormi sfide che il Paese dovrà affrontare nei prossimi anni.
L’accordo, mediato dal Segretario di Stato americano John Kerry e fortemente caldeggiato dal resto della comunità internazionale, mette per ora fine ad una fase di forte instabilità politica, che ha più volte rischiato di sfociare in violenze di carattere etnico e che ha certamente favorito il rinnovato attivismo dei Taliban, danneggiando, inoltre, l’economia del Paese.
Si tratta di un atto di responsabilità da parte dei due candidati, sebbene fortemente influenzato dalla minaccia degli USA e dei loro alleati di interrompere il flusso di aiuti che tengono artificialmente in vita l’apparato statale afghano. L’accordo rappresenta, dunque, un importante successo per la diplomazia americana, che ha in questi mesi temuto di vedere di colpo vanificati gli ingenti sforzi compiuti nel Paese a partire dal 2001, quantificabili in oltre 109 miliardi di dollari, secondo l’ultimo rapporto dello U.S. Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction (SIGAR). Una spesa superiore a quella sostenuta per il Piano Marshall.
La cerimonia per la firma dell’accordo si è svolta domenica 21 settembre, presso il palazzo presidenziale ancora occupato da Hamid Karzai, ed è stata trasmessa in diretta televisiva. L’insediamento ufficiale del nuovo presidente afghano, ruolo che sarà ricoperto dal Pashtun Ashraf Ghani, dovrebbe tenersi entro la fine di questa settimana. Dopo questa lunga fase di stallo, sarà, infatti, necessario procedere con la massima celerità su diversi fronti. Tra i primi provvedimenti del nuovo capo di stato afghano dovrebbe esserci la firma dell’Accordo Bilaterale sulla Sicurezza (BSA) con gli Stati Uniti, fondamentale per consentire a Washington di mantenere un contingente di circa 9.800 soldati in Afghanistan anche dopo il 2014.
Si tratta, in ogni caso, di un successo per molti versi tardivo e parziale. Le elezioni, infatti, avrebbero dovuto rappresentare la vetrina dei progressi compiuti dall’Afghanistan negli ultimi 13 anni, in particolare dal punto di vista della maturazione democratica. Esse, invece, hanno messo in mostra un Paese ancora attraversato da gravi tensioni di carattere etnico e con una classe politica ancora troppo restia a sacrificare i propri interessi di parte sull’altare dell’interesse generale. Se Abdullah e Ghani sono, seppur con molta difficoltà, riusciti a raggiungere un accordo, desta grande preoccupazione l’atteggiamento assunto dai loro collaboratori durante il periodo elettorale, da molti ritenuti i reali responsabili dello stallo di questi mesi. Entrambi stimati dalla comunità internazionale per le loro competenze e per la loro presunta moderazione, i due candidati hanno dovuto, per forza di cose, adattarsi a una realtà estremamente complessa, governata da regole proprie, difficilmente modificabili nel breve periodo. La scelta di figure controverse come il warlord uzbeko Abdul RashidDostum e l’hazara Mohammad Mohaqeq, rispettivamente vice di Ghani e di Abdullah, aveva già mostrato chiaramente come entrambi avessero deciso di scendere a compromessi con quella che è la realtà afghana, al fine di aumentare le proprie possibilità di successo. È utile, a questo proposito, ricordare il modesto risultato ottenuto dal presidente in pectorealle elezioni del 2009, quando aveva conquistato appena il 2,9% dei voti. Una lezione che ha spinto Ghani a dismettere l’abito del tecnocrate internazionale e venire a patti con quelli che sono i reali centri di potere nel Paese.
È lecito chiedersi, dunque, quante possibilità di sopravvivenza abbia il governo di unità nazionale che vedrà la luce nei prossimi giorni. Piuttosto incerta appare, infatti, la ripartizione dei poteri stabilita dall’accordo. In linea di massima, e contrariamente da quanto previsto dalla Costituzione afghana, il patto introduce la figura del Chief Executive Officer (CEO), ruolo che ricalca, in molti suoi aspetti, quello del primo ministro, e che verrà ricoperto da Abdullah Abdullah, o da un’altra da persona da questi nominata. Il CEO presiederà il consiglio dei ministri e sarà responsabile dell’attuazione delle politiche di governo, di cui risponderà direttamente e personalmente davanti al presidente. Quest’ultimo guiderà il gabinetto, di cui faranno parte anche i ministri.
Una clausola dell’accordo prevede che il presidente e il CEO avranno poteri analoghi per quanto riguarda la nomina dei capi delle istituzioni chiave dei settori economico e delle sicurezza, oltre che delle agenzie indipendenti. Tuttavia, è lo stesso accordo a rimandare ad una fase futura la definizione dei dettagli che regoleranno la ripartizione dei compiti e delle responsabilità tra presidente e capo dell’esecutivo, facendo appello all’“impegno di entrambe le parti alla partnership, alla collegialità, alla collaborazione e, soprattutto, alla responsabilità nei confronti del popolo afghano”. Un sorta di salto nel buio, dall’esito tutt’altro che scontato.
Sarà la LoyaJirga, tradizionale organo consultivo afghano, a decidere, tra due anni, se emendare la costituzione per formalizzare il sistema presidenziale ibrido appena creato. Un lasso di tempo durante il quale la leadership afghana è chiamata a rafforzare la propria legittimità nei confronti della popolazione, dopo mesi di reciproche accuse.
Quella di un governo di unità nazionale potrebbe in teoria rappresentare la soluzione migliore per gestire questa delicata fase di transizione, ma le controverse condizioni che ne hanno favorito la nascita rischiano di costituire un handicap difficilmente superabile. Il rischio, inoltre, è che la complessa struttura di potere delineata dall’accordo sottragga incisività all’azione di governo, ritardando l’adozione di riforme fondamentali per il futuro del benessere. In primo luogo, quelle relative al settore economico.
Nonostante gli sforzi del governo di aumentare le entrate nazionali, la loro percentuale rispetto al PIL è addirittura scesa al di sotto del 10% nel 2013, anche a causa di un significativo rallentamento della crescita economica (dal 14% del 2012 al 3,6% dello scorso anno). Le donazioni, dunque, coprono ancora oltre il 60% del bilancio nazionale, senza considerare le spese fuori bilancio per lo sviluppo. Nonostante un tasso di crescita medio del 9% dal 2002 e l’ingente quantità di aiuti di cui il Paese ha beneficiato, le dimensione dell’economia afghana rimangono relativamente ridotte, pari a circa 20 miliardi di euro nel 2013, mentre il reddito pro-capite in termini reali resta tra i più bassi al mondo (sebbene sia quasi triplicato dal 2002). È, inoltre, da sottolineare come i settori più dinamici dell’economia afghana, edilizia e servizi, saranno quasi certamente quelli più colpiti dalla conclusione della missione internazionale ISAF (International Security Assistance Force), essendo il loro andamento strettamente legato alla presenza nel Paese di soldati e di operatori umanitari.
La legittimità delle istituzioni deriva dalla loro capacità di garantire la sicurezza e il benessere di tutta la popolazione. È questa la difficile missione che attende il nuovo governo di unità nazionale afghano, nato sotto cattivi auspici e chiamato a un immediato riscatto se non vorrà compromettere ogni residua speranza di un futuro di pace per il Paese.
Ora ci sono anche le firme a sigillare l’accordo che sancisce la nascita del nuovo governo di unità nazionale. Ci sono voluti oltre cinque mesi prima che i due candidati al ballottaggio delle elezioni presidenziali del 14 giugno, Ashraf Ghani e Abdullah Abdullah, trovassero un’intesa su una architettura di governo in grado di soddisfare entrambe le fazioni.