“Nel corso di un decennio di attività, la Corte africana ha favorito un moto di rinnovata speranza e ottimismo all’interno del sistema africano dei diritti umani, dimostrandosi un efficace strumento per favorire l’integrazione regionale, la pace, l’unità, il buon governo, il rispetto della libertà individuale e lo sviluppo”.
Così, il presidente della Corte africana dei diritti dell’uomo e dei popoli (AfCHPR), Sylvain Oré, nel discorso pronunciato lunedì scorso in occasione delle celebrazioni ufficiali per il decimo anniversario dell’inizio dell’operato dell’organismo di Arusha, ha voluto ricordare i buoni risultati da esso raggiunti per la tutela dei diritti umani nel continente.
Tuttavia, i delegati presenti al simposio hanno notato che pur registrando notevoli miglioramenti; molto resta ancora da fare per migliorare la situazione dei diritti umani nel continente.
Permangono, inoltre, alcune criticità nell’operato dell’organo giurisdizionale continentale, che non è stata creato contestualmente all’adozione della convenzione regionale sui diritti umani, come avvenuto nel sistema europeo e anglosassone di promozione e protezione dei diritti umani.
La Carta africana che regolava la materia, adottata nel 1981, prevedeva solo l’istituzione di una Commissione con la funzione di controllo e supervisione della condotta degli Stati rispetto agli obblighi previsti dalla Carta stessa.
Il percorso per la creazione della Corte Africana dei diritti dell’uomo e dei popoli muove i primi passi nel corso degli anni novanta, quando il segretario generale dell’allora Organizzazione dell’unità africana decise di riunire un comitato di esperti per redigere un protocollo ad hoc.
Il protocollo fu adottato nel giugno 1998 a Ouagadougou ed entrò in vigore il 25 gennaio 2004, istituendo la Corte ai sensi dell’articolo 1.
Gli Stati che hanno ratificato il protocollo sulla Corte ad oggi sono trenta, ma solo otto ne riconoscono la competenza a pronunciarsi su casi proposti da organizzazioni non governative e singoli individui.
Per questo, nel corso delle celebrazioni per il decennale, il vice presidente della AfCHPR, Ben Kioko, ha rivolto un appello per sollecitare tutti i paesi membri a presentare una dichiarazione che riconosca la competenza della Corte a ricevere anche questi casi.
Il quinto High-level dialogue sui diritti umani
Il decimo anniversario della Corte africana è anche commemorato con il quinto High-level dialogue su democrazia, diritti umani e governance in Africa promosso dalla Commissione dell’Unione africana, che quest’anno si tiene dal 23 al 26 novembre ad Arusha, dove sono giunti più di trecento delegati, tra cui rappresentanti di Stati membri dell’Unione africana (UA).
La prima vicepresidente donna della Tanzania, Samia Suluhu Hassan, ha inaugurato il meeting affermando che “l’evento costituisce un’ottima occasione per consolidare i risultati positivi ottenuti nel corso degli anni. Oltre a garantire un migliore coordinamento delle organizzazioni che nel continente si occupano di diritti umani, sulla base delle aspirazioni elencate al punto 3 dell’Agenda 2063, il quadro strategico per la trasformazione socio-economica del continente concepito dall’UA”.
C’è inoltre da tenere in considerazione, che il decimo anniversario della Corte africana si celebra nel quadro di un 2016 che è stato dichiarato l’Anno africano per i diritti umani, con un focus specifico sul ruolo e le condizioni di vita delle donne, così come sancito dall’UA.
Le tensioni tra la Corte penale internazionale e l’Unione africana
A questo s’intreccia, in modo controverso, la decisione del Consiglio esecutivo dell’UA che, lo scorso gennaio, su iniziativa del presidente keniano Uhuru Kenyatta ha deciso di rivedere lo Statuto di Roma del 1998, chiedendo ai Paesi membri di ritirare l’adesione alla Corte penale internazionale (CPI) dell’Aja.
Il leader africani hanno lamentato un’eccessiva ingerenza europea negli affari della CPI insieme al fatto che il Tribunale penale abbia concentrato i suoi sforzi investigativi quasi esclusivamente in Africa, tralasciando altri evidenti e rilevanti casi di crimini internazionali in diverse regioni del mondo.
I critici africani alla CPI spingono per rendere operativa una soluzione tutta interna al continente, che prevede istituzione di una Corte africana di giustizia e dei diritti umani, che potrebbe arrivare a processare 14 diversi tipi di crimini violenti.
Il mese scorso, Burundi, Sudafrica e Gambia hanno annunciato il loro formale ritiro dalla CPI, che tra l’altro è presieduta da una giurista gambiana, Fatou Bensouda. Inoltre, anche Kenya, Uganda e Namibia hanno manifestato la volontà di volersi ritirare da quello che considerano uno strumento imperialista controllato dagli ex colonizzatori.
È comunque importante osservare che il presidente del Gambia, Yahya Jammeh, governa da ventidue anni uno dei regimi più oppressivi del mondo dove le libertà degli individui e i diritti umani sono costantemente violati, mentre il ritiro del Burundi, sprofondato in una nuova spirale di violenze interetniche, è conseguente all’indagine preliminare aperta ad aprile dal Tribunale dell’Aja.
Inoltre, alcuni paesi africani come Botswana, Nigeria, Senegal, Costa d’Avorio e Tunisia, si sono pubblicamente opposti all’ipotesi di recesso dallo Statuto di Roma proposta da molti membri dell’istituzione panafricana.
Molti altri Paesi africani potrebbero seguire quest’orientamento se la Corte dell’Aja diventasse efficacemente imparziale, libera da ingerenze politiche e capace di garantire giustizia alle vittime di crimini internazionali.
“Nel corso di un decennio di attività, la Corte africana ha favorito un moto di rinnovata speranza e ottimismo all’interno del sistema africano dei diritti umani, dimostrandosi un efficace strumento per favorire l’integrazione regionale, la pace, l’unità, il buon governo, il rispetto della libertà individuale e lo sviluppo”.