Il 2016 si è concluso ed è giunto il momento di tracciare un bilancio di quanto è accaduto in Africa negli ultimi dodici mesi, cercando di richiamare alla mente gli eventi salienti che hanno modificato il volto del continente.
A un primo impatto, potremmo percepire quello appena trascorso come un anno sfavorevole per l’Africa: molte vicende che lo hanno caratterizzato raccontano di morte e distruzione, di passi indietro, di avidi leader pronti a sacrificare il futuro del loro Paese per sedare la propria sete di potere.
Uno scenario generale che lo scorso ottobre ha indotto il premio Pulitzer Jeffrey Gettleman, capo redattore per il New York Times del desk Africa Orientale, a scrivere un lungo editoriale nel quale sostiene che l’Africa Rising, l’espressione con cui nel 2011 The Economist aveva definito lo straordinario sviluppo del continente, non è più in linea con la situazione attuale alla quale si adatterebbe molto meglio l’elocuzione Africa Reeling (Africa vacillante).
I focolai di crisi
Molteplici sono i focolai di crisi che rendono l’Africa vacillante, possiamo cominciare dal Burundi, dove abbiamo assistito al consolidamento del regime di Pierre Nkurunziza, tra torture, sparizioni di oppositori e avvisaglie di genocidio. Nel giovane Sud Sudan, si registra il prevedibile fallimento di un accordo di pace nato male e finito peggio, che non è riuscito a impedire l’escalation di nuove violenze, alimentate da rivalità interetniche. Mentre in Sudan, continua l’infinito conflitto sui Monti Nuba ignorato da tutti, tranne che dai suoi protagonisti e naturalmente dalle sue vittime.
La Repubblica democratica del Congo, da mesi è lacerata dall’incertezza politica e dalle proteste, soprattutto nelle città principali, dove il clima sta diventando sempre più teso e gli scontri sempre più violenti. Tutto questo perché il presidente Joseph Kabila non vuole lasciare il potere, nonostante il suo secondo e ultimo mandato sia scaduto il 19 dicembre.
In Uganda, lo scorso febbraio, Yoweri Museveni si è assicurato il suo quinto mandato consecutivo in elezioni contestate dall’Unione europea e dagli Stati Uniti per la mancanza di trasparenza e le intimidazioni. Nel periodo elettorale, il candidato dell’opposizione, Kizza Besigye, è stato arrestato almeno quattro volte in otto giorni e nel maggio scorso è stato rinviato a giudizio per tradimento, per essersi autoproclamato presidente.
Mentre in Somalia, le elezioni presidenziali sono state rimandate tre volte dopo le controversie tra i clan e le minacce alla sicurezza degli islamisti di al-Shabaab, che continuano a lanciare attacchi nello stato del Corno d’Africa. Nell’Etiopia della crescita economica, la violenta repressione delle proteste degli Oromo e Amhara ha provocato centinaia di vittime, che rivendicano un’iniqua distribuzione delle risorse.
Nel frattempo, 24 pescherecci arrugginiti nel porto di Maputo sono diventati il simbolo del malgoverno del Mozambico e dei prestiti esosi delle banche occidentali, che hanno trascinato una promettente economia africana in una situazione di profonda crisi.
Nello Zimbabwe, la grave carenza di liquidità che ha colpito il paese, ha indotto l’esecutivo di Harare a introdurre una nuova moneta locale pari al valore del dollaro statunitense: i biglietti di obbligazione. Ma lo scetticismo dei cittadini e la generale mancanza di fiducia, rischiano di mettere in pericolo la stabilità della nuova pseudo-valuta, riproponendo lo spettro di una nuova iperinflazione, come quella del 2009.
La Nigeria, la nazione più popolosa dell’Africa, sta affrontando la più grave crisi economica degli ultimi anni, a causa dei bassi prezzi del petrolio. Negli Stati del nord-est, la supremazia di Boko Haram ha lasciato il posto agli stenti e alla fame, che nelle ultime settimane hanno ucciso almeno duemila persone nella città di Bama, nello Stato del Borno, ex roccaforte dei miliziani islamisti.
Sempre nel 2016, la Nigeria ha anche dovuto fare i conti con la recrudescenza della ribellione nella regione sud-orientale del Delta del Niger, alimentata dalle rivendicazioni economiche della comunità locale, che lamenta la mancanza di una equa distribuzione delle ricchezze prodotte dall’attività estrattiva.
L’ultima crisi politica africana dell’anno prende forma nel Gambia, dove l’istrionico e sanguinario dittatore Yahya Jammeh, dopo un’iniziale riconoscimento della sconfitta, ha rigettato il risultato delle elezioni del primo dicembre trascinando il Paese verso il caos.
Il ripensamento del despota africano ha indotto Marcel de Souza, il presidente dell’ECOWAS (la comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale), a minacciare un intervento militare se Jammeh non lascerà il potere al presidente eletto Adama Barrow.
Le cinque elezioni presidenziali del 2017 che cambieranno l’Africa
Esattamente il contrario di quanto è accaduto lo scorso 9 dicembre in Ghana, dove elezioni pacifiche e regolari hanno assegnato la vittoria al leader dell’opposizione Nana Akufo-Addo. Il presidente uscente John Mahama ha accettato il risultato delle urne, congratulandosi con il suo avversario per scongiurare ogni possibilità di disordini.
La correttezza istituzionale dimostrata da Mahama dovrebbe essere il giusto preludio di un 2017, che in Africa sarà o dovrebbe essere segnato da cinque elezioni presidenziali, che determineranno i nuovi equilibri dell’area sub-sahariana.
Kenya
Le prime elezioni si terranno il prossimo 8 agosto in Kenya, dove a contendersi la massima carica istituzionale del Paese saranno il presidente in carica Uhuru Kenyatta, che si ripresenterà come leader della coalizione Jubilee Alliance, e Raila Odinga, candidato dell’Orange Democratic Movement.
Kenyatta e Odinga si sono già sfidati durante la precedente tornata elettorale del 2013 e la vittoria dell’attuale leader della maggioranza non era stata messa in discussione. Elezioni tranquille e senza incidenti, a differenza di quelle del dicembre 2007, che causarono oltre mille morti e parecchie rivolte.
Le violenze post-elettorali portarono Kenyatta e il suo vice William Ruto dinnanzi alla Corte internazionale dell’Aja per rispondere dell’accusa di crimini contro l’umanità, dalla quale furono definitivamente scagionati per mancanza di prove nel 2015.
Liberia
Quest’anno si voterà anche in Liberia, dove la presidente uscente Ellen Johnson Sirleaf, giunta al suo secondo mandato, non potrà ricandidarsi come richiesto dalla costituzione del paese.
La sua è stata una presidenza segnata da diversi eventi, tra i quali spiccano la congiunta assegnazione del Premio Nobel per la pace 2011, che ha gratificato il suo slancio nella ricostruzione del Paese dopo un decennio di brutale guerra civile, oltre all’infaticabile impegno nel coordinare la risposta della Liberia alla epidemia di Ebola, che ha causato più di 4.800 vittime e devastato l’economia liberiana.
Tra i candidati alla successione della Sirleaf figurano George Weah, uno dei più grandi calciatori africani di sempre, che ha annunciato che si candiderà alla presidenza per una seconda volta, dopo essere stato sconfitto dalla Sirleaf nel 2005. Una degli sfidanti che Weah potrebbe affrontare è Jewel Howard Taylor, senatore ed ex moglie di Charles Taylor, il signore della guerra liberiano condannato all’Aja per crimini di guerra in Sierra Leone.
Ruanda
Nell’agosto prossimo si voterà anche in Ruanda, dove Paul Kagame ha annunciato la sua candidatura ad un terzo mandato presidenziale. La riforma costituzionale, che apre alla possibilità di un terzo mandato presidenziale, è stata approvata dal 98% dei ruandesi in un referendum il 18 dicembre 2015.
Con la revisione della costituzione, i mandati presidenziali non dureranno più sette anni, bensì cinque, e c’è la possibilità di rinnovarli una volta sola. Prima che questa modifica diventi effettiva è previsto un mandato di transizione della durata di sette anni, che comincerà quest’anno, alla fine del secondo incarico di Kagame.
Una volta terminato il periodo di transizione, Kagame potrebbe governare il Ruanda per altri due mandati di cinque anni ciascuno, come è stato stabilito nella nuova versione del testo, che andrà in vigore nel 2024. In virtù della riforma, Kagame, che ha 59 anni, potrebbe rimanere al potere fino al 2034, quando avrà 77 anni. Divenendo, di fatto, l’ennesimo presidente a vita africano.
Le organizzazioni per i diritti umani hanno accusato il regime ruandese di reprimere il dissenso e la libertà di parola. Lo scorso settembre, Human Rights Watch ha denunciato la scomparsa di un giornalista vicino all’opposizione e l’arresto di numerosi esponenti politici contrari a Kagame.
Quanto il Paese sia segnato dalla mancanza di opposizione politica, è evidenziato anche dal risultato delle ultime elezioni del 2010, nelle quali il candidato del Partito Social Democratico Jean Damascene Ntawukuriryayo, raggiunse appena il 5,15% dei voti contro il 93% di Kagame.
Angola
Il voto in Angola sarà marcato dalla decisione del presidente uscente José Eduardo dos Santos di non ricandidarsi alle prossime elezioni. L’annuncio è stato dato lo scorso 2 dicembre e sancisce la fine di 37 anni di potere esercitato dal leader del MPLA (Movimento popolare di liberazione dell’Angola), il partito che governa il Paese africano dal 1975, anno in cui ottenne l’indipendenza dal Portogallo.
L’Angola è il maggior produttore africano di greggio e nel tempo, applicando una strategia di clientelismo e coercizione, Dos Santos ha creato per sé e per la sua famiglia un impero da miliardi di dollari. Sua figlia Isabel è la donna più ricca d’Africa e, nel giugno scorso, è stata nominata dal dittatore angolano a capo della compagnia petrolifera statale Sonangol.
Il posto di Dos santos alla guida del partito di governo sarà preso dal ministro della Difesa Joao Lourenco. A riguardo, c’è da osservare che il MPLA detiene 175 di 220 posti dell’Assemblea Nazionale, una maggioranza schiacciante che rende estremamente probabile che alle prossime elezioni Lourenco possa essere confermato alla guida del Paese.
Repubblica democratica del Congo
Il Congo avrebbe dovuto tenere le elezioni presidenziali lo scorso novembre, in prossimità della scadenza ufficiale del secondo e ultimo mandato del presidente Joseph Kabila, che però ha rifiutato di dimettersi sulla base del pronunciamento della Commissione elettorale, che ha annullato la consultazione denunciando difficoltà logistiche ed economiche nell’organizzazione del voto.
Kabila sembra voler continuare a governare finché non sarà fissata una nuova data per le presidenziali, che probabilmente si terranno nell’aprile del 2018. Alcuni diplomatici hanno esortato Kabila a lasciare la presidenza, soprattutto per evitare una nuova crisi politica e una possibile guerra civile.
Secondo un’inchiesta di Bloomberg Businessweek, il presidente non vuole lasciare il potere per non rinunciare a un incarico che ha permesso a lui e alla sua famiglia di controllare le principali ricchezze del Paese. Mentre, un recente sondaggio rivela che tre quarti dei congolesi vogliono che Kabila rassegni le dimissioni prima della fine del 2016. Ma il presidente uscente ha nominato un nuovo governo frutto dell’accordo del 18 ottobre tra la maggioranza presidenziale e una parte dell’opposizione, che hanno proposto di spostare le elezioni di circa un anno e mezzo, per consentire a Kabila di rimanere al potere almeno fino all’aprile 2018.
La capitale Kinshasa, come Lubumbashi e le altre maggiori città congolesi sono ferme, con la popolazione bloccata in casa e le forze dell’ordine che pattugliano le strade. Mentre le forze di sicurezza la scorsa settimana hanno ucciso più di venti manifestanti, che protestavano contro l’ostinazione del presidente a rimanere in carica.
Uno scenario politico imprevedibile
Molte delle crisi elencate potrebbero essere risolte, se i protagonisti mostrassero buon senso nel capire che è giunto il momento di ritirarsi dalla scena politica. Il presidente uscente del Gambia, Jammeh, potrebbe semplicemente lasciare il proprio ufficio al presidente eletto, quando il prossimo 18 gennaio scadrà il suo mandato. Finora, però, non ha mostrato alcuna intenzione di volerlo fare.
Mentre Kabila potrebbe facilmente ratificare il passaggio di consegne a un governo tecnico, come richiede da mesi l’opposizione. Ma è troppo presto per sapere gli sviluppi di questi e altri eventi, che segneranno lo scenario politico africano nell’anno appena iniziato. E solo quando sarà concluso potremo riscontrare se l’Africa sarà più o meno stabile di quella che lascia in eredità il 2016.
@afrofocus
Il 2016 si è concluso ed è giunto il momento di tracciare un bilancio di quanto è accaduto in Africa negli ultimi dodici mesi, cercando di richiamare alla mente gli eventi salienti che hanno modificato il volto del continente.