A un anno dall’addio alle armi, la guerriglia diventata partito è in crisi profonda. Dopo la disfatta elettorale, l’arrivo di Duque alla presidenza ha bloccato l’attuazione della pace. E migliaia di guerriglieri ancora armati rilanciano la vecchia missione (e il narcotraffico)
A distanza di un anno da quando hanno deposto le armi per diventare un partito politico, le Farc vivono un momento estremamente critico. Quella che per 50 anni è stata la guerriglia più longeva e temuta della regione, oggi in abiti civili è percorsa da divisioni interne, fughe e screzi, stretta tra una forte dissidenza armata, la paura per la propria incolumità e un governo apertamente nemico degli accordi di pace sottoscritti due anni fa.
La rosa rossa, che ha sostituito nello stemma i fucili incrociati, sembra appassita. C’è chi festeggia ma tutti sanno che la debolezza delle Farc potrebbe avere conseguenze drammatiche: in gioco c’è la vita delle migliaia di donne e di uomini che si stanno faticosamente inserendo nella vita civile e soprattutto la possibilità che il conflitto riprenda, a bassa intensità, covando come un incubo nel Paese. L’altro gruppo armato, l’Eln, osserva e teme di chiudere un processo di pace analogo.
Ma andiamo con ordine.
Il 1 settembre 2017, il leader delle Farc, Rodrigo Londoño alias Timochenko, di fronte a circa 2000 attivisti riuniti a Bogotà nel Centro Congressi Gonzalo Jiménez de Quesada, annunciava la nascita del partito e l’iscrizione nel registro elettorale per poter competere alle elezioni. Le nuove Farc rivendicano l’esperienza in armi e si ispirano a tutto lo spettro del “pensiero critico e libertario” per “superare l’ordine sociale capitalista”, all’interno della Costituzione e delle regole democratiche.
Timochenko avrebbe voluto cambiare anche il nome in “Nueva Colombia” ma era finito in minoranza e ora si ritrova la stessa sigla ma con parole diverse: Forza Alternativa Rivoluzionaria del Comune. Secondo Marisol Gomez Giraldo, una delle più conosciute editorialiste de El Tiempo, un po’ era prevedibile: «Mantenere la sigla Farc in questa nuova fase non sembra la miglior opzione, visto che il Paese le associa al conflitto armato, di fatto già superato».
Comunque sia, da quel momento per le Farc è stata una corsa ad ostacoli, più di quello che avevano previsto i suoi leader. Forse persino la scelta di lanciarsi nella corsa presidenziale, annunciata in uno dei quartieri più poveri di Bogotà, non è stata valutata fino in fondo: la campagna elettorale difficilissima, senza risorse, in solitudine tra l’astio dei media e le proteste, vere o orchestrate, in ogni posto in cui si teneva un comizio. In un’atmosfera cupa e triste si perdevano le parole di Londoño: «Che la voce di chi sta in basso, quei milioni e milioni di poveri che non furono mai presi in considerazione, possa essere ascoltata».
Invece arrivarono a tirargli pietre e ad attaccare l’auto che lo portava in giro. A febbraio le Farc sospendevano tutte le attività elettorali, a marzo Timochenko soffriva un attacco di cuore e poco dopo ritirava la candidatura. Alle elezioni parlamentari solo 85mila persone sceglievano nell’urna la rosa rossa che, solo grazie all’accordo di pace, può contare sulla presenza garantita di 5 congressisti e 5 senatori. Secondo molti, l’errore delle Farc è di aver concentrato l’attenzione nelle città, dove sono più osteggiate, e non nelle campagne profonde del Paese, dove sono più forti.
La vittoria di Ivan Duque, il candidato di destra, è stato il colpo finale. Contrario agli accordi di pace, che vorrebbe cambiare, il nuovo presidente ha inaugurato un clima politico e istituzionale ostile, tanto che ora le Farc sono costrette a rivolgersi agli organismi internazionali per far rispettare i termini degli accordi: «Niente è andato bene al partito», ha osservato León Valencia, a capo della Fundación Paz y Reconciliación, «l’implementazione degli accordi di pace dipenderà dalla sua presenza e la sua influenza politica nel Paese e questa già è stata messa in discussione».
Quello che è venuto dopo sembra ancora più grave. A non seguire i dirigenti delle Farc sono stati migliaia di guerriglieri: 1200 secondo i comandi militari di Bogotà, 2800 secondo Insight Crime, l’organizzazione che monitora i gruppi illegali del Paese. Dicono di voler continuare la missione delle vecchie Farc ma su di loro pesano pesanti accuse di narcotraffico, fonte inesauribile dell’economia colombiana. Nel recente Consejo nacional de los Comunes, la direzione delle Farc, è uscito un comunicato durissimo: «Rifiutiamo in modo netto l’uso indebito dei nostri simboli storici, della memoria dei nostri fondatori e dirigenti, del capitale politico della nostra lotta, da parte di gruppi o persone completamente estranee al nostro partito. Non abbiamo niente a che vedere con loro né con nessuna delle loro attività».
Nel frattempo sono 75 gli ex-guerriglieri assassinati, oltre ai 72 leader contadini e dei diritti umani freddati dai paramilitari. Il Paese continua a sentire l’odore mortifero che lo accompagna da decenni e che ora, col ripiegamento delle Farc, sembra occupare gli spazi lasciati vuoti dove lo Stato non arriva o non vuole arrivare.
I meccanismi di giustizia di transizione sono lenti e complicati, l’inserimento civile degli ex-guerriglieri di là da venire, la distribuzione delle terre e la riforma agraria in alto mare. Secondo l’Osservatorio di monitoraggio, solo il 18,3% degli accordi sono stati rispettati dallo Stato: l’ombra del tradimento delle istituzioni, altra tara colombiana, continua a perpetuarsi.
A muoversi rapida è la giustizia ordinaria: in carcere da aprile c’è uno dei comandanti più importanti, Jesús Santrich, inseguito dalla Dea per attività di narcotraffico che avrebbe gestito dopo la firma degli accordi. Dunque fuori dall’ombrello della Jep, la Jurisdicion Especial para la Paz, e con la possibilità di essere estradato. Accuse respinte con clamore dal detenuto. Timochenko tuttavia non è stato tenero e la sua dichiarazione è sembrata un avvertimento a tutti i suoi compagni: «È nostro dovere comportarci secondo la legge. Chi non lo fa deve aspettarsi le conseguenze e in quel caso difficilmente potrà chiedere solidarietà dal partito».
Di tutt’altro tenore la reazione del numero due delle Farc, Luciano Marín, alias Iván Márquez: per protesta contro l’arresto di Santrich si è dimesso da senatore, un gesto che è apparso in netto contrasto con le parole del leader. La frattura con Timochenko non è nuova: li divide un’intera visione politica, come già era emerso un anno fa al primo congresso.
Per di più, quando la Jep ha chiesto a Márquez e ad altri 30 dirigenti di accettare la nuova giurisdizione – testimoniare in cambio di una riduzione o annullamento della pena – e di definire un domicilio, non ha più dato notizie di sé, abbandonando la capitale per una località tuttora sconosciuta. Così hanno fatto altri ex-leader, come “El Paisa”, “Romaña” e “El Zarco”. Non si fidano ormai di nessuno.
Il partito è diviso sul da farsi. E la strada è tutta in salita. Le Farc stanno imparando lentamente a muoversi in un terreno che non è la selva e in un gioco di diplomazia e consenso e non di obbedienza cieca. Il loro stesso meccanismo interno non le aiuta: con il loro principio di centralismo democratico, come sottolinea Ariel Ávila, analista politico che della Fondazione Paz y Reconciliación è vice-direttore, «stanno dentro la vecchia logica politica del Partito Comunista. Non sono riuscite a evolvere».
Da qui gli strappi di Timochenko, che sembrano voler spingere l’acceleratore verso un’inclusione nel corpo politico e culturale colombiano per poter avere un ruolo nella partita, pericolosissima, che si sta giocando il Paese.
@fabiobozzato
A un anno dall’addio alle armi, la guerriglia diventata partito è in crisi profonda. Dopo la disfatta elettorale, l’arrivo di Duque alla presidenza ha bloccato l’attuazione della pace. E migliaia di guerriglieri ancora armati rilanciano la vecchia missione (e il narcotraffico)
A distanza di un anno da quando hanno deposto le armi per diventare un partito politico, le Farc vivono un momento estremamente critico. Quella che per 50 anni è stata la guerriglia più longeva e temuta della regione, oggi in abiti civili è percorsa da divisioni interne, fughe e screzi, stretta tra una forte dissidenza armata, la paura per la propria incolumità e un governo apertamente nemico degli accordi di pace sottoscritti due anni fa.