Lungo la strada costiera che porta a Misurata, nella zona industriale, è facile vedere capannelli di africani in attesa agli incroci delle strade in attesa di essere caricati sui mezzi per andare a lavorare nei campi o nell’edilizia.
Lavorano anche per due o trecento dinari al mese (100/150 euro), ricevendo in cambio vitto e alloggio. Soldi che devono essere inviati in parte alle famiglie di provenienza e in parte per pagarsi un posto su un barcone diretto verso l’Europa.
Poco distante, lungo la strada che porta a Gioda, ex colonia italiana, si trova la scuola di Al-Kararim. All’interno ci sono più di ottocento persone: donne e uomini, bambini e minori compresi, presi a casaccio per le strade di Tripoli e portati qui per mancanza di spazio. Per molti di loro la meta finale è il confine tra Libia e Niger, per essere poi gettati in mezzo al nulla dall’altra parte della frontiera. Ma nel Paese c’è la guerra, e così attendono in questa specie di galera, il loro ineluttabile destino.
“La detenzione in questo locale è una tappa obbligatoria prima del loro rimpatrio, dice una guardia libica. “Cerchiamo di radunarli tutti insieme per comunicare poi con le loro ambasciate e vedere se si possono rimpatriare tramite convogli di autobus verso i confini. Certo, la guerriglia che avviene in molte zone del Paese ci ha messo in difficoltà perché non possiamo portare queste persone nel deserto per questioni di sicurezza. Preferiamo tenerli qui”.
‘Qui’ significa mesi di detenzione.
Il centro è diviso in due zone. La prima ha due stanze dove vengono alloggiate donne e bambini. Al piano superiore sono solo uomini. Si dorme per terra, sui materassi.
La maggior parte di loro viene dall’Africa subsahariana: Senegal, Burkina, Niger, Gambia, ma anche dal Corno d’Africa, come somali, etiopi ed eritrei. In mezzo a loro c’è n’è anche qualcuno di nazionalità araba e dei pakistani, finiti in cella perché, dicono, all’aeroporto si sono dimenticati di mettere sul loro passaporto il visto d’ingresso.
Ci sono anche dei neonati e qualche minore. I bagni sono insufficienti e non ci sono docce. Non c’è spazio per i bambini, non ci sono strutture adeguate di assistenza medica. C’è, sì, un piccolo ambulatorio, ma i medicinali a disposizione sono pochi e il dottore viene solo due giorni alla settimana.
Le retate nelle strade vengono fatte a caso. Chi viene preso deve cancellare il progetto di venire in Europa e iniziare tutto daccapo dall’altra parte della frontiera, in Niger.
Poi il deserto, Sabha, Tripoli. Per i loro confratelli più fortunati, rimasti liberi, seduti lungo le strade ad attendere un posto di lavoro a basso costo, rimane il sogno di un posto su una carretta del mare per raggiungere l’Italia.
Lavorano anche per due o trecento dinari al mese (100/150 euro), ricevendo in cambio vitto e alloggio. Soldi che devono essere inviati in parte alle famiglie di provenienza e in parte per pagarsi un posto su un barcone diretto verso l’Europa.