Di quando vivevo in Cina ricordo con nostalgia scene come questa. Tavolata circolare di cinesi al ristorante, colletti bianchi e vago odore di sudore; tovaglia piena di macchie fresche e avanzi di cibo scappati alla morsa delle bacchette.
Ai piedi del tavolo, un cartone da 12 di birra Tsingtao, svariate bottiglie vuote in tavola e, tra i commensali, almeno un cinese riverso sul piatto – talvolta vuoto – in stato comatoso da sbronza.

Alla fine della cena, prima di trascinarsi al karaoke, un paio di volenterosi prendono sotto braccio l’amico fiaccato dall’alcol e se lo portano diligentemente fuori dal locale, in cerca di un taxi che faccia proseguire la serata alcolica.
Sono ricordi nostalgici che riaffermano una cultura dell’alcol terribilmente deleteria per il fegato ma assolutamente progressista e libertaria. L’ubriacatura e, più in generale, il consumo di alcol, in Cina non subiscono il fardello dello stigma sociale, lasciando alla coscienza di ognuno la responsabilità di tirare la riga oltre la quale è bene non spingersi quando si ha a che fare con bevande alcoliche. Siano le birre annacquate cinesi (dove il mal di stomaco arriva ben prima del cerchio alla testa e dello sbiascico collettivo) o il temibile, e temuto, baijiu, il nome collettivo che racchiude gran parte dei distillati cinesi.
Nella democratica India la situazione è ben diversa, diametralmente opposta nelle forme ma pressoché identica nella sostanza deleteria. L’acquisto e il consumo di alcol è soggetto all’opera moralizzatrice di un governo che, sin dall’Indipendenza, ha deciso di sostituirsi al buon senso personale, rinunciando alla progressiva educazione etilica della popolazione.
L’alcol, concetto importato – su scala commerciale – dalle occupazioni europee, è inteso dalla società indiana come sostanza esclusivamente nociva, spogliato di qualsiasi valenza culturale, storica, edonistica. Chi beve lo fa per farsi male e siccome bere fa male il governo ha deciso che non si deve bere.
Le leggi proibizioniste dei primi anni ’50, intese a una moralizzazione coatta di un popolo indiano abbastanza maturo per conquistarsi l’indipendenza ma non abbastanza per fare un uso moderato di whiskey e distillati di vario genere, si sono mantenute sostanzialmente invariate lungo i decenni, nonostante la fiera opposizione di giuristi e sostenitori del consumo dell’alcol quale diritto inalienabile del popolo.
Le leggi draconiane imposte dalle varie amministrazioni, preoccupate di mostare l’India alcolizzata piuttosto che abituare l’India a un rapporto più sano con l’alcol (e i parallelismi col sesso sorgono spontanei), hanno via via imposto tasse sempre più alte per la produzione e distribuzione di alcolici nel paese, in un’applicazione del concetto di classe (o casta, volendo) anche per la fruizione di bevande diverse dal té speziato.
Oggi, nelle varie legislazioni vigenti a livello statale, l’alcol di buona qualità è ad esclusivo appannaggio della classe medio alta, che al calare del sole sgomita davanti ai bugigattoli dei liquor shop governativi sparsi per tutto il territorio. Ci si rifornisce con lo stesso spirito della vigilia di un conflitto nucleare e, nell’intimità delle proprie abitazioni, si dà sfogo ad una delle più longeve e trasversali pulsioni del genere umano: la sbronza.
In India non si beve per piacere, si beve per dimenticare, per tirare a campare, per trovare coraggio, per machismo e per moda. E lo si fa lontano da occhi indiscreti, al riparo dagli indici puntati dei bigotti.
Il tema del proibizionismo è tornato in auge grazie alla recente norma passata nello stato del Kerala, notoriamente tra i più progressisti nel subcontinente, che impone la chiusura di tutti i bar con licenza di servire alcolici entro il prossimo mese di aprile. Esclusi quelli negli hotel a cinque stelle, ovviamente, ché il diritto inalienabile alla sbronza deve essere garantito solo dal portafogli. Per tutti gli altri, secondo il padre padrone indiano, si dovrebbe aprire una nuova stagione di sobrietà in linea coi tanto sbandierati “valori indiani”.
Ma come per il sesso, per la gioia degli inserzionisti dei siti porno e il terrore del genere femminile, anche la crociata anti-alcol, dati alla mano, non fa altro che peggiorare la situazione. La produzione e il commercio di alcolici illegali, alchimie letali di etanolo e veleni assortiti, impazza laddove l’Inquisizione statale è più forte e, soprattutto, tra le fasce più indigenti della società indiana.
Secondo i dati raccolti dall’Organizzazione mondiale della sanità, nel 2010 l’India si attestava formalmente nella parte bassa della classifica mondiale per consumo di alcol pro capite (dai 15 anni in su): 4,3 litri all’anno, di media (in Italia, e siamo tutti consapevoli della nostra cultura del bere, siamo sui 6,7, come in Cina; guida la classifica la Bielorussia con 17,4).
Ma il calcolo statistico, spalmato sulla totalità dei maggiori di 15 anni (maschi e femmine), non tiene conto della qualità della bevuta, intesa come attività umana. Il consumo di alcol, realisticamente quasi totalmente coperto dalla popolazione maschile, per il 93 per cento interessa i superalcolici. E non si tratta del bicchierino di whiskey come digestivo.
Quando si beve, per i “pochi” che lo fanno, lo si fa spesso per devastarsi. E se si beve alcol di contrabbando, smerciato nei retrobottega dei negozi governativi, lo si fa rischiando la vita.
Due anni fa, a Calcutta, in una notte morirono una novantina di sfortunati che avevano acquistato alcol da una partita “miscelata male”, quindi letale. E di esempi del genere riempiono, in diversi ordini di grandezza, le cronache locali, fino ad eventi straordinari come quelli elencati in questo articolo di Scroll.in, parlando del Gujarat (un dry state, dove l’alcol è formalmente bandito): 257 morti a Baroda nel 1989, 157 ad Ahmedabad nel 2009.
Si torna sempre lì, alla funzione dello stato. All’illusione di risolvere i problemi col proibizionismo. Una tendenza che in India sembra ancora, purtroppo, immutabile.
Di quando vivevo in Cina ricordo con nostalgia scene come questa. Tavolata circolare di cinesi al ristorante, colletti bianchi e vago odore di sudore; tovaglia piena di macchie fresche e avanzi di cibo scappati alla morsa delle bacchette.
Ai piedi del tavolo, un cartone da 12 di birra Tsingtao, svariate bottiglie vuote in tavola e, tra i commensali, almeno un cinese riverso sul piatto – talvolta vuoto – in stato comatoso da sbronza.