Dal 16 al 20 agosto i rappresentanti di Canada, Stati Uniti e Messico si sono riuniti a Washington per il primo giro di negoziati del North American Free Trade Agreement (NAFTA), l’accordo di libero scambio tra le tre economie dell’America del Nord entrato in vigore il 1 gennaio 1994.
La partenza non è stata facile. Durante la conferenza stampa che ha preceduto l’avvio dei lavori a porte chiuse, il Rappresentante per il commercio estero americano Robert Lighthizer ha raccolto i toni del suo presidente – che ha una visione talmente negativa del trattato da ritenerlo addirittura «il peggiore della storia» – e dichiarato che Donald Trump «non è interessato a ritoccare appena qualche decreto e ad aggiornare un paio di capitoli», accusando poi il NAFTA di aver danneggiato «molti, molti americani» e rimarcando i posti di lavori persi a causa della delocalizzazione e l’oramai famoso deficit commerciale con il Messico, che nel 2016 ammontava a 55,6 miliardi di dollari.
I discorsi dei delegati canadesi (guidati da Steve Verheul e dalla ministra degli Esteri Chrystia Freeland) e messicani (i nomi più noti sono il ministro degli Esteri Luis Videgaray e quello dell’Economia Ildefonso Guajardo, ma quello più importante è Kenneth Smith Ramos) sono stati invece molto più miti e indirizzati ad offrire una visione positiva del NAFTA. Freeland ha ad esempio detto – e non senza qualche ragione – che il deficit commerciale, da solo, non può essere preso a indicatore del buon funzionamento o meno di un trattato, mentre Guajardo ha definito il NAFTA «qualcosa di più di un accordo commerciale» perché avrebbe rafforzato la coesione tra gli stati membri. Su una cosa, comunque, le tre parti sono d’accordo: le rinegoziazioni dovranno procedere con un «ritmo veloce», si legge nel comunicato rilasciato domenica 20, che ha già annunciato luogo (Messico) e data (dal 1 al 5 settembre) del prossimo giro. Tanta fretta è dovuta alla volontà americana e messicana di evitare coincidenze rispettivamente con le elezioni di metà mandato e con le elezioni generali di luglio 2018, ma l’importanza e la complessità del trattato mal si conciliano con tempi così brevi, specialmente se vi si vogliono apportare – come sostiene Trump per bocca di Lighthizer – cambiamenti massicci.
Non sappiamo cosa si sia discusso in questi cinque giorni. Sappiamo però cosa vogliono (o quantomeno cosa dicono di volere) gli Stati Uniti di Donald Trump, che dei negoziati sono stati i promotori: ridurre i deficit commerciali, recuperare i posti di lavoro persi nel settore manifatturiero, innalzare le quote minime di produzione regionale e abolire completamente il Capitolo 19, che prevede un meccanismo internazionale per la risoluzione delle dispute commerciali tra i tre paesi membri.
Quando Trump parla del deficit commerciale con il Messico (55,6 miliardi di dollari; 63,2 se si escludono i servizi) omette generalmente tutta una serie di dati e informazioni di contesto che restituiscono l’interezza della situazione: l’interscambio commerciale con il Messico ammonta a 579,7 miliardi di dollari, il Messico è il terzo maggiore partner commerciale di Washington, gli Stati Uniti hanno un surplus nei servizi di 7,6 miliardi e il 40% delle esportazioni messicane negli USA è costituito da prodotti assemblati con componenti americane che “ritornano” in patria dopo essere stati lavorati oltrefrontiera. Il deficit commerciale americano è originato in grandissima parte dal settore automobilistico ed è il risultato dell’integrazione della filiera produttiva tra i due paesi, resa possibile dal NAFTA e funzionale al mantenimento della competitività internazionale dell’industria statunitense dell’automobile, che può produrre a basso costo in Messico e reimportare i prodotti finiti senza pagare nessun dazio doganale. Non è comunque chiaro il piano di Trump per ridurre il deficit nel commercio di beni con il Canada (che ammonta a 12 miliardi di dollari) e con il Messico, che verosimilmente respingeranno sia limitazioni alle loro esportazioni che aumenti delle quote obbligatorie di importazione di prodotti americani.
Trump accusa il NAFTA e la conseguente delocalizzazione di aver lasciato senza un lavoro moltissimi americani, specialmente quelli impiegati nell’industria manifatturiera. Nel 1994, ricorda POLITICO, il settore in questione impiegava 16,8 milioni di persone, saliti a 17,4 nel 1999 e poi scesi a 11,6 dopo la crisi del 2008: l’automazione e il mutato quadro economico globale rendono però impossibile il ritorno ai livelli degli anni Novanta, e neanche la fine del NAFTA potrà modificare questa situazione. Per di più, solo il 5% dei posti di lavoro perduti ogni anno è imputabile al libero scambio con il Messico, che ne ha però creati quasi 5 milioni.
Gli Stati Uniti vorrebbero inoltre apportare al NAFTA modifiche che penalizzino l’importazione di componenti automobilistici da paesi esterni all’accordo. Alle attuali condizioni un’auto assemblata in Messico può essere liberamente importata negli Stati Uniti se è stata prodotta con almeno il 62,5% di parti nordamericane. Trump vorrebbe innalzare sia questa quota minima di produzione interna che la tariffa applicata sulle importazioni di componenti dall’estero, fissata oggi negli Stati Uniti ad un tasso relativamente basso, del 2,5%. L’industria automobilistica americana è ovviamente contraria: l’importazione di componenti economiche le permette di mantenere basse le spese di produzione e quindi di poter immettere sul mercato macchine a prezzi competitivi.
Sia il Messico che soprattutto il Canada sono contrari ad eliminare il Capitolo 19, che consente a ciascuno degli stati membri di appellarsi ad una giuria indipendente ogni qualvolta ritengano di essere stati discriminati o danneggiati economicamente da una delle altre nazioni del NAFTA. Gli Stati Uniti sostengono che il Capitolo 19 sia lesivo della loro sovranità nazionale, dopo aver perso alcune dispute commerciali con il Canada negli anni Novanta e Duemila. Secondo il quotidiano messicano Reforma i delegati americani avrebbero iniziato ad insistere su questo punto già durante il primo giro di negoziati.
Gli Stati Uniti vorrebbero anche (e dalla loro parte si schiera stavolta il Canada) forzare l’aumento degli stipendi minimi dei lavoratori messicani – che sono i più bassi tra quelli dei paesi membri dell’OCSE e spesso insufficienti a coprire le spese per l’acquisto dei beni di prima necessità – per ridurre alle imprese il vantaggio economico di delocalizzare la produzione a sud della frontiera. Questa misura era già contenuta nel Partenariato Trans-Pacifico (TPP), da cui Trump si è però ritirato nei suoi primi giorni da presidente.
Grazie a Reuters conosciamo anche, a grandi linee, quali siano gli obiettivi del Messico per queste rinegoziazioni del NAFTA: mantenere il libero scambio e il Capitolo 19, promuovere l’integrazione del mercato nordamericano del lavoro e rafforzare la sicurezza energetica regionale. Dei tre, il Messico è il paese che più ha interesse a mantenere l’accordo così com’è quando dovrebbe invece essere quello che spinge maggiormente per una modifica, magari per tutelare i suoi piccoli e medi produttori agricoli, ritrovatisi di colpo privi dei tradizionali sussidi e del tutto impreparati ad affrontare la concorrenza dei beni statunitensi. Ma non sarà così, perché negli ultimi ventitré anni la classe dirigente messicana ha impresso all’economia del paese un riorientamento quasi totale in funzione del commercio estero e della produzione manifatturiera destinata all’esportazione in Nord America, impossibile in assenza del NAFTA.
Seduto al tavolo delle negoziazioni lo scorso mercoledì, il ministro dell’Economia Ildefonso Guajardo ha però detto chiaramente che non accetterà l’approccio unilaterale e trumpiano dell’America First: se vuole avere successo, l’accordo sul NAFTA «dovrà funzionare per tutte le parti coinvolte. Altrimenti non è un accordo».
@marcodellaguzzo