Diecimila Cinesi realizzeranno una moschea gigantesca nella capitale algerina.

“Gli Algerini ci metterebbero un secolo,” commenta sconsolato Ahmed. Invece i Cinesi hanno promesso di farcela in soli tre anni a realizzare nella periferia di Algeri la terza moschea più grande del mondo, dopo quelle di La Mecca e Medina.
È un progetto faraonico. L’area di costruzione della moschea Djamaâ El Djazaïr si estende per 20 ettari. A lavori finiti, nel 2015, la zona di preghiera potrà accogliere 37mila fedeli, sovrastati da un minareto di 265 metri, il più alto del mondo. Le spese sono stimate al momento in 1,5 miliardi di dollari.
Paradossalmente, questo enorme investimento pubblico inciderà in modo marginale sulla situazione occupazionale in Algeria. Nonostante l’alto tasso di disoccupazione (circa il 10% a fine 2013 secondo le stime ufficiali, ma più verosimilmente intorno al 15%), i lavori saranno effettuati in gran parte da manodopera straniera. Poco meno di 10mila operai cinesi sono installati in spartani ma funzionali blocchi di appartamenti intorno all’area dei lavori.
La China State Construction Engineering Corporation, il gruppo che si è aggiudicato l’appalto, ha fatto venire il personale direttamente dalla madrepatria. A conti fatti costano meno degli Algerini, tant’è che l’offerta cinese è risultata più bassa di quella di un consorzio spagnolo-algerino che avrebbe invece impiegato manodopera locale.
“Le aziende algerine non pagano, e gli Algerini lavorano meno,” è la spiegazione di Ahmed, che ripete un’idea molto diffusa da queste parti. Un’altra opinione condivisa da molti è però che le autorità abbiano avuto altri motivi per scegliere i Cinesi.
La CSCEC è sulla lista nera della Banca mondiale delle aziende interdette all’accesso ai contratti della banca perché oggetto di sanzioni per frodi o corruzione. Il dubbio sorge. “La questione della corruzione è sollevata regolarmente negli incontri bilaterali tra Unione europea e Algeria,” spiega un diplomatico europeo. Transparency International pone l’Algeria al 94esimo posto nella classifica globale sulla percezione della corruzione.
Come spesso accade nei paesi in via di sviluppo, l’abbondanza di risorse energetiche può essere addirittura un handicap. Gas e petrolio garantiscono allo Stato enormi proventi, che non sempre vengono usati al meglio. Sussidi pubblici e prezzi calmierati tengono la popolazione a bada, e infatti la Primavera araba ha solo sfiorato l’Algeria nel 2011. Ma è una calma fragile e il malcontento è molto diffuso. “L’economia algerina è un’economia di rendita. Vendiamo petrolio e compriamo cibo. Ma non è sostenibile nel lungo termine”, spiega Lakhdar Ferrat, giornalista e saggista algerino.
La Commissione europea mette in guardia da anni sull’eccessiva dipendenza dell’Algeria dagli idrocarburi. “Incoraggiamo le riforme economiche che possono liberare il potenziale dell’economia algerina e favorirne la diversificazione”, commenta uno dei portavoce dell’Alto rappresentante Ue per la politica estera, Catherine Ashton. Ma il dialogo è stato spesso tra sordi. L’accordo di associazione tra Ue e Algeria, che dovrebbe governare le relazioni bilaterali, resta lettera morta.
La forza economica dello stato algerino, che vanta uno dei debiti pubblici più bassi al mondo, indebolisce la capacità di pressione pro riforme dell’Ue. La ricchezza resta a vantaggio di pochi in un paese dove oltre un quinto della popolazione ancora vive sotto la soglia di povertà.
Le contraddizioni dell’Algeria non sono solo economiche, ma anche sociali e politiche: come evidenziato dalla candidatura per il quarto mandato alle elezioni di questo aprile del 77enne Presidente Abdelaziz Bouteflika, che non ha più preso parola in pubblico dopo un ictus dell’anno scorso.
All’immagine laica che le autorità provano a proiettare, fa da contraltare una tendenza verso l’irrigidimento delle libertà personali, comune in molti paesi islamici. Gli islamisti algerini hanno perso prestigio e appeal politico entrando nei precedenti governi insieme a Bouteflika. Ma l’islam più conservatore resta forte nelle abitudini della gente. Il velo e il burqa sono onnipresenti anche nei quartieri chic di Algeri, quelli dove una volta vivevano i Francesi. I mali del Paese trovano spesso negli Stati Uniti un facile capro espiatorio.
L’estremismo religioso è un pericolo? “No, è solo un’invenzione dell’America per indebolire l’islam,” risponde Said, proprietario di un bar ad Algeri. Eppure, camminando nel quartiere di Bal el Oued, nel centro della città, l’islam più radicale non è solo una percezione, ma un’immagine forte di barbe lunghe e sguardi duri. Bab el Oued è stato negli anni Novanta la roccaforte del Fronte islamico di salvezza nazionale (Fis), protagonista dell’efferata guerra civile che per certi versi rappresenta il modello dei conflitti in corso oggi in molti paesi arabi.
“La gente non è ancora molto abituata a vedere stranieri. Il turismo è zero, perché le autorità non hanno voluto svilupparlo” spiega Ferrat, che venti anni fa ha dovuto lasciare il Paese sotto le minacce degli islamisti. Oggi però per lui il vero problema dell’Algeria è la corruzione, non l’estremismo islamico. “Ma il malessere economico favorisce sempre il radicalismo” avverte.
In queste condizioni, la grande moschea è il simbolo dei mali del Paese. Un’opera grandiosa realizzata per la gloria di Bouteflika, che nasconde la frustrazione e il disagio della gran parte della popolazione. Come gli eleganti palazzi coloniali del centro di Algeri nello stile parigino di George Haussmann, con le facciate imbiancate a fresco e gli interni spesso devastati. È immagine di un potere lontano dalle esigenze della gente.
Diecimila Cinesi realizzeranno una moschea gigantesca nella capitale algerina.