La “nuova Algeria” imposta dall’alto dal Governo militare non convince i cittadini che disertano in massa le elezioni “democratiche”. L’ampio Movimento civile stenta a trovare un’identità politica
In pochi oggi si chiedono a che punto sia la transizione politica dell’Algeria post-Bouteflika, e chi lo fa, molto spesso, si ferma ad analizzare le dinamiche politiche del paese soltanto attraverso la lente della geopolitica.
È invece utile interrogarsi, soprattutto alla luce della recente scomparsa dell’ex Presidente Bouteflika e a più di due anni dall’inizio delle manifestazioni popolari che hanno investito il paese, su quali siano i meccanismi di potere che hanno regolato le relazioni tra ‘Piazza’ e Stato. Le straordinarie proteste che hanno portato alle dimissioni dell’ex Presidente Bouteflika nell’aprile 2019 dopo quattro mandati e 20 anni di potere, hanno aperto una complicata fase di transizione.
La mobilitazione popolare, come successo nelle ondate di rivolte del 2011, non è nata in modo improvviso e spontaneo, ma è stata caratterizzata da lunghi anni di accumulazione di energie rivoluzionarie che avevano come sostrato la grave crisi economica, l’alto tasso di disoccupazione giovanile e la diffusa corruzione all’interno dei palazzi del potere.
Infatti, nonostante molti osservatori abbiano sottolineato come l’Algeria sia rimasta fuori dalle così definite “rivolte arabe” del 2011, le diverse manifestazioni che ebbero luogo proprio in quell’anno nel paese hanno dimostrato come il regime algerino non fosse così immune dai moti rivoluzionari che si stavano consumando in diversi paesi della regione.
L’Hirak (movimento in arabo) è il nome del movimento che ha animato le piazze algerine dal febbraio 2019. Un movimento che tiene insieme diverse anime politiche e sociali dell’Algeria: dalle associazioni della società civile ai partiti della sinistra riformista e radicale, alle forze liberali, ai berberi fino ad arrivare ad alcuni gruppi islamisti e al movimento dei lavoratori del settore pubblico e privato.
Tale trasversalità ha permesso al movimento di acquisire forza nella mobilitazione e nell’attivare diversi settori della società che, sino ad allora, avevano subito sulla loro pelle, non solo la repressione del regime, ma anche l’inefficienza del potere nel prendere misure contro la grave crisi economica che attanaglia(va) il paese da ormai troppo tempo.
Nonostante il ritiro della candidatura di Bouteflika alle elezioni presidenziali e l’inizio di una fase di transizione politica, il nuovo potere algerino, oggi rappresentato da Abdelmajid Tebboune, si fonda su un’alleanza tra personaggi e forze politiche legati al vecchio regime e le forze armate − lo stesso Tebboune è stato primo Ministro durante l’era Bouteflika −, escludendo di fatto tutto il movimento di protesta dai processi decisionali.
L’esclusione dell’Hirak dalla fase di transizione ha portato quest’ultimo a respingere tutti i tentativi del nuovo governo di legittimarsi creando una forte spaccatura tra governati e governanti.
La distanza tra le parti è risultata evidente in tutte le fasi della nuova ‘democrazia’ algerina. L’Hirak ha continuato, infatti, la sua mobilitazione (sia fisica che online) a ridosso dei vari appuntamenti elettorali, bocciando di fatto la roadmap governativa volta a costruire la ‘Nuova Algeria’.
Ad esempio, guardando ai dati relativi alla partecipazione alle prime elezioni post Bouteflika nel dicembre del 2019, soltanto il 40% della popolazione algerina si era recata alle urne. I cinque candidati, tutti appartenenti al vecchio establishment, hanno portato infatti la piazza a boicottare in massa le elezioni. Il movimento, nonostante le promesse di riforma del nuovo Governo, ha continuato la protesta per 56 venerdì consecutivi, fino a quando la diffusione del Covid-19 ha costretto la piazza al ritiro e a continuare la mobilitazione sui social network.
Durante i mesi della pandemia gli attivisti, oltre a portare avanti le proprie rivendicazioni sui social, hanno promosso una serie di attività all’interno dei quartieri delle grandi città: dal supporto ai poveri, alla distribuzione dei beni di prima necessità fino all’assistenza sanitaria.
Tali attività sono state spesso bersaglio delle autorità governative che, con la scusa delle restrizioni per evitare i contagi, hanno colpito queste iniziative con il solo obiettivo di limitare il raggio d’azione degli attivisti. Questo è stato dimostrato dall’arresto di numerosi membri di spicco dell’Hirak e dal varo, nel 2020, dall’emendamento dell’articolo 144 del codice penale che ha reso più severe le pene per i reati di diffamazione ad alte cariche dello Stato.
Quest’ultimo punto è stato sfruttato, considerando anche l’attivismo online dell’Hirak, dalle forze di governo per portare avanti un’ampia campagna di arresti tra i ranghi dell’Hirak. Eclatante è stato l’arresto dell’attivista, Walid Kechida, condannato a tre anni di prigione e al pagamento di un’ammenda di 500.000 dinar per alcuni post satirici sulla propria pagina Facebook.
All’interno di tale azione repressiva, la retorica governativa sull’inclusione politica ha cercato di trovare il supporto ricorrendo alle fasi procedurali della democrazia (riforma costituzionale ed elezioni parlamentari). Infatti, la riforma costituzionale del novembre del 2020 e le elezioni parlamentari del giugno del 2021 erano per il Governo ‘un segno di pace’ verso il movimento di protesta. Entrambi gli appuntamenti, come già successo per le elezioni presidenziali del 2019, sono stati di fatto boicottati dal movimento di protesta e hanno confermato il solco profondo tra “Stato e piazza”.
Di fronte a questo scenario, tuttavia, sono da sottolineare i limiti politici dell’Hirak. Nonostante l’ampia partecipazione popolare e il carattere apparentemente apolitico del movimento, ad oggi l’Hirak presenta divisioni al suo interno che gli impediscono di sviluppare un’agenda alternativa per il Paese.
La sua variegata e trasversale composizione politica, per quanto inclusiva, sta ponendo diversi ostacoli in seno all’Hirak. Sono state infatti sollevate diverse questioni tra le quali se e come trattare con il Governo, quale ruolo per gli islamisti all’interno del movimento e la possibilità di strutturarsi come organizzazione politica formale.
Tre aspetti che di fatto oggi restano irrisolti e che le autorità stanno tentando di utilizzare in un’ottica strategica del divide et impera. Infatti, come molti regimi autoritari della regione − e non solo − il Governo algerino mira a sfruttare le divisioni interne al movimento e cooptare alcune frange dello stesso.
Per cercare di rinsaldare le fila del movimento, già nell’ottobre del 2020 era stata lanciata da attivisti e intellettuali legati all’Hirak l’iniziativa Nidaa 22 con l’obiettivo di proporre una fase di transizione alternativa e autonoma dal potere costituito. Tuttavia, sin dalle sue fasi iniziali, gli stessi promotori avevano sottolineato quanto fosse difficile poter accogliere tutte le istanze provenienti dalle diverse anime politiche e sociali che costituiscono il movimento di protesta.
Ad oggi, nessun passo in avanti è stato fatto se non quello di avere una posizione comune sulla natura del potere che dovrebbe governare il paese, riassunta sotto lo slogan: “Madaniya Machi Askaria” (Governo civile e non militare). È indubbio, tuttavia, che esiste un rischio reale che le divisioni ideologiche e politiche, apparentemente unite dall’Hirak, prendano il sopravvento e indeboliscano definitivamente il movimento.
Ad oggi, come molti attivisti dell’Hirak sottolineano, una delle soluzioni per consentire al movimento di rafforzarsi potrebbe essere rappresentata dall’organizzazione dello stesso in una forza politica formale. Come dimostrato dal recente passato, infatti, la mancata “strutturazione” delle proteste di piazza è stato il tallone di Achille delle mobilitazioni popolari che hanno scosso l’area nel 2011. Tale opzione, seppur piena di ostacoli, rappresenterebbe un passo deciso per il futuro dell’Hirak e, potenzialmente, per quello di tutto il Paese.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di novembre/dicembre di eastwest.
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È invece utile interrogarsi, soprattutto alla luce della recente scomparsa dell’ex Presidente Bouteflika e a più di due anni dall’inizio delle manifestazioni popolari che hanno investito il paese, su quali siano i meccanismi di potere che hanno regolato le relazioni tra ‘Piazza’ e Stato. Le straordinarie proteste che hanno portato alle dimissioni dell’ex Presidente Bouteflika nell’aprile 2019 dopo quattro mandati e 20 anni di potere, hanno aperto una complicata fase di transizione.