Dai corsari ai nazisti, le trenta leggendarie vite di eroi e farabutti raccolte da Gabriella Saba e Alfredo Somoza disegnano un ritratto corale dell’America Latina. “Un continente da favola” sepolto dagli stereotipi del nostro pigro immaginario
Maradona, il tango, i Maya, Che Guevara e Fidel Castro, le spiagge dei Caraibi, i narcos. Ci sono gli innamorati di Cent’anni di solitudine e quelli di Frida Kahlo. Per una lunga stagione non si poteva fare a meno dei Buena Vista Social Club e prima ancora delle telenovelas brasiliane e messicane. Nel senso comune l’America Latina finisce qui, in questo recinto immaginario.
«Un continente da favola», lo definiscono con amara ironia Gabriella Saba e Alfredo Somoza, tra i migliori giornalisti che si occupano da tempo delle vicende al di là dall’Atlantico. E così hanno intitolato il loro libro, uscito di recente per Rosenberg&Seller (pagg.182, €16), provando a squadernare quell’indistinto mondo fantastico che si è sedimentato come un pagliericcio di stereotipi. Lo fanno attraverso «trenta leggendarie storie latinoamericane», come recita il sottotitolo che lo accompagna. Che poi di leggendario c’è solo l’eco che risuona nella nostra testa. Lo stesso che i media hanno spesso alimentato: gli sguardi superficiali e distratti di cui sono fatte tante cronache latinoamericane, le ricostruzioni con i parametri di politica interna, un certo giornalismo per tesi, per cui si parte con un’idea di cui non si dubita minimamente e si va per trovarne le prove. E invece, come dice Bruno Arpaia, che del libro firma la prefazione, «per conoscere davvero quelle Americhe Latine bisogna consumare molte suole, percorrerle in lungo e in largo, studiarne la storia e le storie, leggerne i giornali, viverle a fondo, con sguardo sgombro da paraocchi e da idées reçues».
Ecco perché Saba e Somoza possono permettersi di definirlo «un continente da favola», tanto conoscono le pieghe e le idiosincrasie, le ombre e l’incanto del mestizaje di gesti, codici, accezioni. Non a caso le trenta storie appartengono a altrettante persone da ogni parte della regione: la scelta di dare voce a figure viventi o storiche e accendere la luce sul loro destino già significa che non si può prescindere dalla coralità delle biografie per poter approcciare le geografie. Le cronache di Saba e Somoza hanno tanto più valore perché non seguono un’idea lineare del tempo, ma impaginano passato e presente, in un andirivieni che poi è l’impasto più sofisticato per capire davvero qualcosa di ciò che succede laggiù.
Le Americhe restano un vociare indistinto in cui bisogna aguzzare l’udito, cercare nel brusio, distinguere le grida e imparare i canti, riconoscere i cori e i singoli lamenti. I trenta ritratti, con l’analisi dello storico nel caso di Somoza e la curiosità sociale di Saba (anche se spesso si scambiano la ferramenta), ci aiutano a entrare in modo diverso in quel mondo così familiare e così alieno e, per chi già un po’ lo bazzica, offrono nuove chiavi di lettura e materiali che pochissimi conoscono.
Come si può ad esempio raccontare una delle guerriglie più sanguinose del continente? «Mi ha sempre colpito la figura di Abimael Guzmán, il capo di Sendero Luminoso», racconta Gabriella Saba. Allora riprende un fatto capitato dopo la cattura del leader maoista e della sua donna: «Il capo dei servizi segreti peruviani, Vladimiro Montesinos, li invita a un incontro e gli fa ascoltare My Way di Frank Sinatra, la loro canzone preferita. Ecco, quella scena, in cui tre veri criminali si incontrano e si commuovono teneramente, spiega mille cose sul Perù e sugli eventi tragici che lo hanno messo a ferro e fuoco».
Non è un caso che tutto inizi con «I signori del male», il primo dei capitoli in cui è scandito il viaggio che i due giornalisti ci invitano a compiere. Troviamo sadici come Paul Schäfer, il nazista inventore di Colonia Dignidad in Cile, protetto per decenni dai politici locali e dal silenzio della Germania; oppure impresari della droga come il boliviano Roberto Suárez Goméz che ha un sogno di rivalsa sociale per il suo Paese e chiede agli Stati Uniti, in cambio della sua resa, l’annullamento del debito nazionale. I loro alter-ego sono «eroi per caso e per passione»: Hyppolite de Bouchard, nato a Saint Tropez, intrepido corsaro a fianco dei creoli anti-spagnoli e finito nel Pantheon degli sconosciuti; Pancho Villa, che da ladro di bestiame diventa un mito messicano; Juana Azurduy, giovane dall’indole ribelle che si incontra a capo di grandi eserciti di liberazione tra Bolivia e Argentina. «Quando persone anonime arrivano a scegliere o si trovano per caso nel gorgo degli eventi, le loro storie minute incrociano la Storia e diventano grandi senza averlo chiesto», dice Somoza.
Pochi sanno che le Hawaii sono state il primo Stato a riconoscere l’Argentina indipendente, mentre il resto del mondo a malapena conosceva i loro nomi. O che Haiti è il primo Stato libero delle Americhe Latine, grazie alla rivolta dei neri guidati da Toussaint De Louvertures in nome della rivoluzione francese. O, ancora, che la Spagna ha sottoscritto un solo accordo di pace con i popoli nativi: è successo con i Mapuche, nel sud del Cile, là dove un giorno un certo Orélie-Antoine de Tounes si è fatto proclamare re. A saperle, queste cose, anche le cronache che scriviamo potrebbero avere un altro senso.
Così, solo entrando nelle chiese evangeliche, che oggi hanno in mano le chiavi del consenso in tutta la regione, si possono fare analisi politiche di qualche accuratezza. Lo sa Gabriella Saba, che ha inseguito pastori e predicatori in tutto il Cono Sud e può raccontare di Edir Macedo e dei suoi templi faraonici o della Bispa Sonia e il suo «kit di bellezza all’aroma di Gesù». I due muovono fedeli e dollari, entrambi sull’ordine di tanti milioni. Solo parlando con Fernando Gaitán, l’autore di Yo soy Betty la fea, la più celebre tra le sue telenovelas, si può capire un Paese così convulso, martoriato, coloniale e sublime come la Colombia. Tutte storie che hanno ben poco a che vedere con cronache di costume ma svelano gli ingranaggi profondi del potere, quelli che rintoccano la vita e la morte nelle Americhe.
Eppure, persiste l’idea di «un Sud indistinto», come lo definisce Alfredo Somoza. «Ed è tanto indistinto perché precipitato dalla storia coloniale», come se gli spagnoli o i portoghesi l’avessero piallato e rimpicciolito. A noi italiani non basta neppure sapere che milioni di nostri nonni o bisnonni sono andati ad abitare in qualcuna delle città che punteggiano un intero continente: «l’enorme emigrazione italiana» – continua Somoza – «non ci ha aguzzato gli occhi e l’interesse, neppure a livello politico e istituzionale, ma ha rappresentato solo una cesura. Dovevamo recidere il nostro passato di miseria». Niente di più. E così ci innamoriamo del tango, senza sapere che lo canticchiavano emigrati italiani poverissimi nei tuguri di Buenos Aires, un ballo tra uomini, tristi e provati, che oggi non sarebbero che clandestini da espellere.
Non c’è nessun realismo magico in America Latina. Quello che qui noi chiamiamo così, laggiù è solamente realismo.
@fabiobozzato
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