INTERVISTA ESCLUSIVA – La rabbia della Rust Belt, della working class bianca sconfitta dalla globalizzazione, ok. L’urlo dell’America popolare e populista contro l’élite, contro l’establishment, incarnato dalla dinastia Clinton, ok. Ma per spiegare il risultato più sorprendente della storia democratica americana, l’arrivo alla Casa Bianca di un disruptor che ha mandato in tilt analisti, giornalisti, sondaggisti, violando tutte le buone norme della decenza e della competizione politica, c’è dell’altro. Occorre fare appello a qualcosa di più profondo.
Lo fa, conversando con Eastonline, Erik Jones, Direttore degli Studi Europei ed Euroasiatici, nonché Professore di Studi Europei e Politica Economica Internazionale, presso la School of Advanced International Studies (SAIS) della Johns Hopkins University: «Trump ha vinto largamente tra i bianchi americani. In questo gruppo ci sono anche le donne. Inoltre ha ottenuto un grande successo tra i ceti ad alto reddito. Quindi, se continuiamo a dire che questo voto è semplicemente il prodotto di una “rabbia contro l’élite” da parte dei proletari bianchi esclusi dalla globalizzazione, beh allora i dati non lo giustificano pienamente. Certo, ci sono gruppi importanti, in Florida, in Ohio e in Pennsylvania, che possono essere caratterizzati in quel modo, ma è difficile pensare che durante la campagna i politici si siano dimenticati di questi cittadini negli Stati in bilico, i quali sono stati decisivi negli ultimi tre cicli elettorali. C’è qualcosa di più profondo al lavoro, qualcosa che ha che fare con una sorta di self-sorting dell’elettorato americano. Troppe persone adesso vivono in comunità che sono politicamente omogenee. Ci sono letteralmente centinaia se non migliaia di contee in cui Trump ha vinto con un margine superiore al 20 per cento. Questi sono i voti che hanno fatto la differenza. Quando tu hai una comunità composta sostanzialmente da un solo partito, che riceve informazioni da mezzi di comunicazione e social portatori di un messaggio forte, non bisogna sorprendersi se alla fine gli elettori si allineano dietro il candidato di quel partito. Trump ha vinto perché i repubblicani controllano la geografia meglio dei democratici e perché le elezioni americane sono tanto una competizione geografica quanto popolare».
Non solo la rabbia bianca, quindi. Decisivo è stato il compattarsi dell’elettorato repubblicano dietro il candidato del proprio partito, malgrado la presa di distanza di molti suoi dirigenti. Adesso, mentre gli analisti col capo chino cercano di metabolizzare la sconfitta, e di interpretare la svolta storica dell’8 novembre, ci si chiede quali saranno le conseguenze sul piano economico-finanziario.
Il Professore sostiene che «l’effetto immediato sui mercati sarà negativo, lo stiamo già vedendo. Ma quest’impatto negativo colpirà soprattutto altre parti del mondo, non gli Stati Uniti. Dal momento che questi altri mercati risponderanno, metteranno ulteriore pressione ribassista sulle performance economiche americane. Questo è in linea con quello che abbiamo già visto in occasione della Brexit. La differenza è che il Regno Unito può fare affidamento sulla domanda americana per compensare in parte questo pessimismo economico, sia domestico che europeo. Gli Stati Uniti non hanno quel tipo di supporto dall’estero e avranno bisogno di trovare sostegno al proprio interno. A questo punto diventa molto importante la Federal Reserve, almeno sul breve e medio periodo. Dubito molto che la Fed inizierà a restringere la politica monetaria a dicembre, come atteso. Al contrario, continuerà a rimandare fino a quando le conseguenze del voto non saranno pienamente chiare. Se lo shock immediato dovesse essere profondo e duraturo, la Fed potrebbe cercare di avviare un alleggerimento monetario. È troppo presto per dirlo. Quello che sappiamo è che la Fed ha poche armi rimaste a sua disposizione, dopo l’ultimo set di politiche monetarie non convenzionali. Questo significa che la Fed non è nella posizione di rispondere a una recessione più grande. Speriamo che non si arrivi a questo punto».
L’elezione di Trump sembra inquadrarsi in un movimento globale che mette di fronte establishment e popolo, volontà di apertura e richieste di protezione, élite transazionali e tendenze centrifughe, ammantate di populismo e, spesso, di nazionalismo, anche e soprattutto nel Vecchio Continente. Jones prevede che questa tendenza si aggraverà, perché la scossa trumpiana “non avrà un effetto salutare sull’Europa. Al contrario, rafforzerà i populisti in Paesi come Austria, Olanda, Francia e Germania, che dovranno tutti affrontare presto appuntamenti elettorali. I loro politici si sforzeranno di dipingere Trump come una scelta pericolosa e cercheranno di sottrarre consensi al populismo mostrando una certa durezza nei confronti di Bruxelles e delle istituzioni europee. Questo avrà un impatto soprattutto sull’eurozona. La Banca Centrale Europea è da tempo nel mirino dei populisti di Alternativa per la Germania. I cristiano-democratici tedeschi respingeranno ogni tentativo della Bce di aumentare gli stimoli monetari. Allo stesso modo, attaccheranno la Commissione Europea se offrirà ad alcuni Paesi “troppa flessibilità” in termini di consolidamento fiscale. Abbiamo già visto all’opera questa tensione all’interno dell’eurozona persino prima dell’elezione di Trump. Adesso questo conflitto si accenderà ulteriormente».
L’incertezza sul futuro deriva anche dal fatto che le politiche economiche del neo-presidente americano, fatta eccezione per l’opposizione ai trattati commerciali stipulati in passato dal suo Paese, sono in buona parte oscure, o comunque difficilmente finanziabili.
Secondo il professore, «Trump si focalizzerà in primo luogo sul suo programma di infrastrutture, che è la priorità. Se il Congresso approverà queste spese, il piano dovrebbe stimolare l’economia. Ma è improbabile che questa approvazione da parte delle Camere avvenga rapidamente. I falchi del deficit vorranno sapere come Trump intende pagare queste spese. E vorranno innanzitutto focalizzarsi sulle tasse, sull’agenda fiscale del presidente, che è vaga ma tuttavia prevede sgravi per i redditi più alti. Anche in questo caso l’impegno andrà finanziato. Inoltre, i repubblicani, in maggioranza in entrambe le Camere, non garantiranno un passaggio facile ad ogni programma che preveda un grande aumento del debito pubblico. Ci saranno manovre complicate al Congresso, dovremo aspettare e vedere. Nel frattempo, sicuramente verranno respinti alcuni aspetti chiave dell’Affordable Care Act (la riforma sanitaria di Obama, ndr) verranno rese più dure le regole sull’immigrazione. Queste non sono, in senso stretto, politiche economiche ma avranno un impatto economico. Non credo che questo effetto sarà positivo».
Ultimo capitolo, la politica estera di Trump. Anche questa vaga, soprattutto riguardo agli strumenti attraverso cui raggiungere i propri scopi. Sappiamo che il neo-presidente sarà ancor più isolazionista e che la difesa degli alleati in ambito Nato non sarà propriamente una priorità della prossima amministrazione. Jones, però, non ritiene Trump un “manchurian candidate”, un emissario straniero – in questo caso russo, data la corrispondenza di amorosi sensi con Putin e il tentativo di Mosca di disturbare il processo elettorale americano – quanto piuttosto un disruptor, un sovvertitore dell’ordine costituito, anche in questo campo: «Il suo disegno è quello di sfidare la saggezza convenzionale, qualunque essa sia. Mi attendo che lo faccia anche in politica estera. Non mi aspetto, però, che avvenga effettivamente. Lo stesso misto di bluff e spacconeria non ha funzionato per George W. Bush nei primi otto mesi della sua amministrazione. Non funzionerà neppure per Trump».
INTERVISTA ESCLUSIVA – La rabbia della Rust Belt, della working class bianca sconfitta dalla globalizzazione, ok. L’urlo dell’America popolare e populista contro l’élite, contro l’establishment, incarnato dalla dinastia Clinton, ok. Ma per spiegare il risultato più sorprendente della storia democratica americana, l’arrivo alla Casa Bianca di un disruptor che ha mandato in tilt analisti, giornalisti, sondaggisti, violando tutte le buone norme della decenza e della competizione politica, c’è dell’altro. Occorre fare appello a qualcosa di più profondo.