Grazie all’interesse delle celebrità, da Clooney a Santana, la tequila sta vivendo un periodo di grande fortuna. Ma il boom è un problema per i coltivatori di agave. Ed è a rischio anche la qualità del prodotto. Così di fronte alla Teslaquila i produttori messicani alzano le barricate
Era iniziato come un pesce d’aprile – Tesla in bancarotta, il suo Ceo trovato morto circondato da bottiglie di “Teslaquila” –, ma adesso non è più solo uno scherzo. Teslaquila, la tequila marchiata Tesla, si farà, is coming soon, lo ha scrittoElon Musk su Twitter il mese scorso e ha pure allegato una bozza di etichetta: rossa, il logo Tesla, la garanzia 100% puro de agave. La storia sembrerebbe ricordare quella dei lanciafiamme di un anno fa, che pure era nata per gioco ma che poi era fruttata diversi milioni a The Boring Company, l’azienda di Musk che progetta tunnel contro il traffico cittadino.
Assieme alle t-shirt, ai cappellini e alle tazze di Starman, quindi, nello shop di Tesla potrebbero arrivare anche delle bottiglie di tequila. Scrive Reuters che Musk ha depositato una domanda per registrare negli Stati Uniti, nell’Unione europea e in Messico il marchio Teslaquila come un distillato di agave e di agave blu. Ma le cose si sono presto complicate. Pochi giorni fa il Consiglio regolatore della tequila (Crt), l’organizzazione che riunisce i produttori messicani, è infatti insorto per ricordare che Teslaquila richiama la parola «tequila», che è una denominazione protetta e non può essere utilizzata senza il rispetto di alcune norme.
La tequila è un superalcolico che si ottiene dalla fermentazione e dalla distillazione della pianta dell’agave – nello specifico dell’agave blu, detta tequilana – e può essere prodotta solo in una manciata di Stati del Messico: quello di Jalisco è il più importante. Il ciclo di crescita dell’agave blu è piuttosto lungo: per fare la tequila si utilizza il “cuore” della pianta, la piña, che è ricca di zuccheri e che può impiegare anche una decina d’anni per maturare. Non è lungo solo il tempo di coltivazione, ma anche quello di lavorazione: l’agave viene prima cotta a fuoco lento per parecchie ore in modo da renderla più morbida, dopodiché viene macinata, ne viene fatto fermentare il liquido e infine viene distillato. Le tequila più pregiata, invecchiata almeno un anno, si chiama añejo.
Il Crt sostiene che Musk non possa mettere in commercio della tequila senza prima essersi associato con un produttore autorizzato, aver rispettato tutta una serie di regole ed aver ottenuto l’approvazione dell’Istituto messicano di proprietà industriale. Se invece ha intenzione di produrre un distillato generico, continua il Crt, allora non può usare un nome che ricordi la parola «tequila» perché potrebbe ingannare i consumatori.
Elon Musk è solo l’ultimo di una lunga serie di personaggi famosi che in questi anni hanno deciso di investire nell’industria della tequila: l’attore “The Rock” possiede il marchio Mana, Justin Timberlake ha Sauza 901, l’ex-cantante dei Van Halen Sammy Hagar ha Cabo Wabo, gli AC/DC hanno Thunderstruck Tequila, Carlos Santana – che è messicano, è nato nel Jalisco – ha Casa Noble. A giugno 2017 George Clooney ha venduto il suo brand, Casamigos, al gigante degli alcolici Diageo per un miliardo di dollari.
Al di fuori del Messico la tequila è molto popolare negli Stati Uniti, che ne sono i primi consumatori al mondo. Ha cominciato a diffondersi di contrabbando durante il Proibizionismo, e nel 1958 gli Champs le hanno intitolato un brano che riscosse un enorme successo. Attualmente, grazie anche all’interesse delle celebrità, la tequila sta vivendo un periodo di straordinaria fortuna. La domanda è altissima: nel 2017 gli Stati Uniti ne hanno importato più di 170 milioni di litri, e dal 2002 ad oggi le vendite di tequila in America sono cresciute del 121%; nello stesso periodo la vodka ha guadagnato solo il 2,4% e il rum ha perso lo 0,2%. Il margarita – tequila più liquore all’arancia – è il cocktail preferito dagli americani.
Nel frattempo in Messico la produzione di tequila è esplosa, superando i 271 milioni di litri l’anno scorso contro i 181 milioni del 2000. Oggi il settore, quasi interamente rivolto all’export, vale oltre un miliardo, ma questo boom nasconde dei lati negativi. Assieme alla richiesta è infatti schizzato in alto anche il prezzo dell’agave blu, spesso paragonato a quello del petrolio per la sua volatilità: un chilo di agave blu costa adesso intorno ai 23 pesos (1 euro), contro gli appena 2 pesos (neanche 10 centesimi) nel 2016. L’aumento delle spese per la materia prima – e i furti, fattisi più frequenti visti i prezzi alti – stanno mettendo in seria difficoltà i jimadores, i piccoli coltivatori che costituiscono l’ossatura dell’industria messicana della tequila. Nel 2011 c’erano 3075 produttori di agave in Messico; nel 2017, nonostante l’aumento della produzione, il loro numero è sceso a 1946.
L’incremento della domanda di tequila mal si concilia poi con i lunghi tempi di produzione dell’agave, ed è probabile che la lavorazione artigianale possa lasciare definitivamente il posto a processi di tipo industriale, più rapidi e più adatti a soddisfare i nuovi volumi richiesti dai consumatori. Molte storiche distillerie messicane sono già state inglobate dalle grandi aziende mondiali degli alcolici, arrivate in Messico soprattutto a partire dagli anni Duemila. Di recente Bacardi, che possiede anche il prestigioso brand Cazadores, ha speso più di 5 miliardi di dollari per acquisire il marchio Patrón, già però di proprietà americana. Herradura, rimasta a conduzione familiare per 125 anni, è stata acquistata nel 2007 da Brown-Forman, la corporation dietro il whiskey Jack Daniel’s.
Anche il mescal – erroneamente conosciuto come “la tequila con il verme” – sta vivendo la stessa sorte della tequila. Con mescal (o mezcal) oggi si intende l’alcolico ottenuto dalla pianta di agave espadín e prodotto in alcuni Stati del Messico, soprattutto in quello meridionale di Oaxaca; a volte può essere imbottigliato assieme ad un “verme”, che in realtà è la larva di una specie di falena che si nutre delle foglie di agave. In origine però mescal era il nome generico che veniva dato al distillato di agave, qualunque fosse la sua varietà: prima di evolvere in un prodotto a sé, la tequila era infatti il mescal prodotto nella cittadina di Tequila, nel Jalisco.
Il mescal è un prodotto più di nicchia rispetto alla tequila, ma la sua diffusione sta crescendo, sia dentro che fuori il Messico. Il Consiglio regolatore del mescal fa sapere che le esportazioni sono cresciute del 332% dal 2011 al 2017, dirette soprattutto negli Stati Uniti. In risposta, quest’estate il governo messicano ha ampliato la denominazione d’origine del mescal per includere tre nuovi Stati del Messico. La decisione, come raccontava l’Economist, non è piaciuta ai mezcaleros dell’Oaxaca, che temono che tutta questa popolarità possa distruggere la tradizione, e con quella non solo i loro guadagni ma anche la qualità finale del prodotto.
@marcodellaguzzo
Grazie all’interesse delle celebrità, da Clooney a Santana, la tequila sta vivendo un periodo di grande fortuna. Ma il boom è un problema per i coltivatori di agave. Ed è a rischio anche la qualità del prodotto. Così di fronte alla Teslaquila i produttori messicani alzano le barricate