Con poche mosse mirate Mohammed bin Salman ha fatto saltare le regole della spartizione del potere nella famiglia. E ha mutato in senso autoritario-populista la gestione del regno. Con l’investitura determinante di Trump, in cerca di un cambio di marcia in Arabia Saudita
Per capire l’Arabia Saudita di oggi almeno in parte bisogna prima di tutto partire da un assunto che è più un’ammissione: non ci abbiamo mai capito niente. Dopo decenni di stretta alleanza tra la monarchia saudita e l’Occidente, americani più di tutti, dalle nostre parti nessuno è mai riuscito veramente a comprendere cosa accadesse e quali forze determinassero decisioni e successioni all’interno della sterminata famiglia reale. E la storia di Mohammed bin Salman non ne è che l’ennesima dimostrazione.
Nessuno infatti aveva mai sentito parlare del nuovo uomo forte saudita prima del 2014, quando venne nominato ministro della Difesa solo poche ore dopo la morte di re Abdullah e l’ascesa al trono del padre Salman. E nessuno si sarebbe mai neanche sognato di vederlo lì dove è oggi, al centro del potere saudita, così potente da poter iniziare guerre, far (quasi) dimettere primi ministri di altri Paesi, e far arrestare principi miliardari a piacimento.
A essere onesti qualcosa in effetti alcuni osservatori occidentali l’avevano azzeccata: la leggenda dei Sette di Sudairi. Dei quasi quaranta figli del fondatore della dinastia saudita Abdelaziz al-Saud, infatti, il gruppo più numeroso di fratelli “completi” (ovvero fratelli sia da parte di padre sia di madre) era costituito dai sette figli avuti da Al-Saud con la moglie preferita Hussa Sudairi. I sette hanno ben presto formato una salda alleanza che negli anni ha conquistato tre delle quattro colonne principali del potere saudita: la corona, il ministero dell’Interno e il ministero della Difesa. Alla corona era andato, per 23 anni (dal 1982 al 2005) il più anziano dei fratelli, Fahd, mentre alla Difesa per quasi cinquant’anni si era insediato il secondogenito di Sudairi, Sultan. Il quartogenito, Nayef, per oltre trentacinque anni ha invece tenuto le redini del potente ministero dell’Interno prima di passarle al figlio Mohammed bin Nayef, fino a pochi mesi fa erede al trono designato. La quarta colonna, rimasta fuori dal controllo dei Sette, era quella della Guardia Nazionale, dal 1963 controllata dal fratellastro Abdallah, diventato sovrano (sembra) con l’appoggio dei Sette dal 2005 al 2014, dietro l’accordo che a lui sarebbe dovuto succedere nuovamente uno dei figli di Sudairi.
Ora, se uno volesse fare un po’ di sana dietrologia all’italiana, potrebbe notare che nei movimenti dinastici che portano la corona da Fahd ad Abdallah e da Abdallah a Salman, il sestogenito di Sudairi, già quest’ultimo aveva compiuto i primi passi che porteranno all’ascesa del figlio. Mentre infatti il fratello Nayef riesce a passare saldamente il controllo del ministero dell’Interno al figlio dopo la propria morte, Salman riesce ad occupare il ministero della Difesa alla morte del fratello maggiore Sultan nel 2011, evitando che vada a uno dei suoi quasi trenta figli. È da questa base che riuscirà a imporsi prima come sovrano e poi a mettere il figlio prediletto Mohammed in una posizione di potere non appena asceso al trono. Fino a questo punto, però, tutte le mosse rientrano ancora in una concordata spartizione del potere tra i Sette di Sudairi, da sempre bene o male accettata anche dal resto della famiglia reale. Salman infatti nomina inizialmente come erede al trono il più giovane dei figli sopravvissuti del fondatore della dinastia e suo fratellastro Muqrin bin Abdelaziz, mentre come vice-erede al trono nomina il nipote Mohammed bin Nayef.
La rottura arriva a questo punto. La personalità di Mohammed bin Salman inizia ben presto a manifestarsi a pochi mesi dall’insediamento del padre, con l’inizio della guerra in Yemen da lui personalmente voluta e con l’esclusione di Muqrin bin Abdelaziz dalla linea di successione per far spazio proprio a bin Salman come vice-erede al trono (mentre bin Nayef da vice diventa erede designato). In questi mesi MbS (la sigla con cui bin Salman è noto tra gli osservatori internazionali) mette sotto il proprio controllo i gangli economici dello Stato a partire dalle risorse petrolifere, tradizionalmente tenute fuori dai giochi interni alla famiglia reale e per oltre trent’anni affidate a un “esterno”, Ali al-Naimi, ministro del petrolio e Ceo di Saudi Aramco (la compagnia petrolifera nazionale), sostituito nel 2016 da un uomo di fiducia di MbS. L’assalto finale al ministero dell’Interno e alla Guardia Nazionale, le ultime colonne del potere saudita rimaste fuori dal suo controllo, si è invece compiuto in questi ultimi mesi.
La vera mossa che nel giugno scorso ha escluso dal “gioco del trono” saudita il cugino bin Nayef non è stata infatti tanto la sua sostituzione come erede designato, quanto la sua rimozione da ministero dell’Interno, che ha sancito la perdita del feudo statale che il suo ramo della famiglia aveva controllato per quarant’anni. Infine, nell’ondata di arresti di queste settimane, ufficialmente condotti all’interno di una campagna anti-corruzione, il più rilevante ai fini del potere saudita non è tanto quello del miliardario principe e uomo d’affari Al-Waleed bin Talal, di cui si è molto parlato, ma quello di Mutaib bin Abdallah, figlio dell’ex sovrano Abdallah, e comandante della potente Guardia Nazionale. Per adesso la sua rimozione dal comando non è ancora stata annunciata, ma pochi scommettono sulla sua permanenza in carica.
Nonostante possa sembrare un ossimoro, il giovane Mohammed bin Salman ha dimostrato, in poche mosse mirate, che è possibile compiere un colpo di stato autoritario all’interno di una monarchia assoluta. Se per oltre sessant’anni, dalla morte del fondatore Al-Saud fino all’ascesa al potere di MbS, il potere saudita si era retto su un consenso e una spartizione di potere di fatto tra i membri più potenti della famiglia reale, in due anni MbS ha messo fine a ogni equilibrio e a ogni ricerca del consenso interna accentrando il potere su di sé e mutando in senso autoritario la gestione del regno all’interno del clan Saud.
Ma l’aspetto più interessante sono probabilmente i fattori che hanno reso possibile la sua inarrestabile ascesa: il fiuto politico “populista” e il bisogno, soprattutto da parte dei partner internazionali dell’Arabia Saudita, di un cambio di marcia nella gestione del potere nel regno. La più notevole capacità che ha finora garantito la sua ascesa è stata infatti quella di saper raccogliere un notevole consenso nazionale facendosi percepire come una sorta di giovane eroe “anti-establishment”, nonostante nel cuore dell’establishment sia nato e cresciuto. La gestione del regno saudita si era infatti tradizionalmente dispiegata attraverso una spartizione del potere prima tra la famiglia reale e poi, in modo graduale, dalla famiglia reale ai maggiorenti dei clan più importanti, via via verso gli altri sudditi in una sorta di ordine clanico-gerarchico sempre più inviso soprattutto alle classi più giovani. MbS ha saputo sovvertire questa modalità di gestione “intermediata” andando a raccogliere il proprio consenso direttamente dal popolo, e in particolare da quegli under-30 che costituiscono oltre la metà dei cittadini sauditi.
Il secondo fattore invece è “esterno” e ha a che fare con le profonde mutazioni e riequilibri che stanno avvenendo all’interno della geopolitica regionale. Molti hanno visto infatti nel sostegno dell’amministrazione Trump al regno saudita, e specialmente alle mosse del giovane bin Salman, una sorta di marcia indietro rispetto alla politica di disimpegno dal Medio Oriente avviata negli otto anni precedenti da Obama. Al contrario, più che una marcia indietro si tratta di una vera e propria accelerazione nella stessa direzione, che ha come fulcro la promozione dell’Arabia Saudita a proattivo garante della stabilità regionale in assenza degli Stati Uniti sempre più decisi ad andarsene, per quanto gradualmente.
La differenza rispetto all’amministrazione Obama sta piuttosto nello scetticismo che quest’ultimo aveva riservato all’ascesa del giovane rampollo e in generale verso la capacità dell’Arabia Saudita di tenere testa all’Iran nella regione. Obama aveva tentato lo sganciamento dal Medio Oriente accompagnandolo alla ricerca di un equilibrio stabile tra i blocchi di potere saudita e iraniano che riducesse al minimo il rischio di tensioni e conflitti in futuro. Un tentativo fallito, sia per la riluttanza dell’ala dura del regime iraniano, sia per la mancanza di tempo per portare a termine ogni possibile strada diplomatica prima dell’elezione del nuovo presidente.
Al contrario del suo predecessore, Donald Trump e la sua amministrazione sembrano invece cercare nell’Arabia Saudita un attore locale assertivo e affidabile che porti avanti il conflitto “freddo” contro Teheran senza l’impiego diretto di risorse americane. Un ruolo che poco si adattava alla monarchia saudita così come è stata fino a poco tempo fa, estremamente prudente e dotata di un processo decisionale lento e troppo poco trasparente per essere efficacemente influenzato. Un ruolo che invece la nuova Arabia Saudita di MbS sembra impaziente di giocare fino in fondo. Anche se, finora, con scarso successo.
@Ibn_Trovarelli
Con poche mosse mirate Mohammed bin Salman ha fatto saltare le regole della spartizione del potere nella famiglia. E ha mutato in senso autoritario-populista la gestione del regno. Con l’investitura determinante di Trump, in cerca di un cambio di marcia in Arabia Saudita