Gli imperi hanno nel Dna l’autodistruzione? Il crollo dei principi fondanti rende irrilevante la superiorità tecnologica
Nel 2007 Donald Trump si dedicava al wrestling e il ritiro dall’Afghanistan era ancora molto lontano. Ma già si parlava di declino degli Stati Uniti – anche da ben prima, in realtà –, tanto che al giornalista Cullen Murphy venne in mente un paragone stimolante: l’America è la nuova Roma?
L’impero romano, la superpotenza indiscussa dell’antichità, fu sconfitto non da uno stato rivale, ma da un insieme di tribù nemmeno lontanamente paragonabili per capacità militari. Come sia stato possibile è noto: c’entrano una serie di debolezze – la corruzione, l’inefficienza amministrativa, la recessione economica – che lo lacerarono da dentro. In Are We Rome? The Fall of an Empire and the Fate of America (Houghton Mifflin, 2007) Murphy si domandava allora se gli Stati Uniti non fossero destinati alla stessa fine.
Più che l’ascesa della Cina – ma erano altri tempi –, per Murphy la vera minaccia alla supremazia statunitense è interna: è nelle divisioni tra la popolazione, nella polarizzazione che rende faticoso per le parti parlarsi e capirsi. Questa radicalizzazione si riflette nei due partiti principali, con la conseguenza che quel sistema politico basato sul compromesso che ha reso grande l’America sembra non funzionare più. È una questione riemersa prepotentemente con l’assalto al Campidoglio di gennaio.
La crisi delle istituzioni, lo stallo al Congresso e la sfiducia popolare potrebbero impedire all’America di esprimere e proiettare il suo potere e il suo potenziale. Quella di Murphy è una provocazione, che merita però più di una lettura.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di novembre/dicembre di eastwest.
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