Benché sfiduciati, impoveriti ed esausti, il 71% degli argentini ha votato alle elezioni di metà mandato senza proclamare nessun vero vincitore ma invitando i partiti al dialogo per portare il Paese fuori dal pantano
Chiamati a rinnovare metà del Congresso e un terzo del Senato, il 14 novembre gli argentini non hanno infilato risposte nette nelle urne, ma un messaggio sì, di monito e castigo. Esausti dopo due anni di pandemia, quattro argentini su dieci si ritrovano in povertà (compreso il 54% dei minori), uno ogni dieci nell’indigenza; sulle loro spalle pesa un debito colossale che nessuno sa come ripagare e un’inflazione che sta divorando salari e risparmi. Aggiungiamo anche un reato ogni tre minuti se si vive a Buenos Aires, e il quadro è desolante. È così cupa l’aria in questa parte di Cono Sur, che il mondo politico ha temuto il peggio, in particolare il Governo di Alberto Fernández e Cristina Kirchner. Per questo, usciti i risultati, tutti i partiti hanno avuto un motivo per festeggiare e subito dopo molte ragioni per cui preoccuparsi.
I risultati? Il Frente de Todos, la coalizione di centrosinistra al Governo, ha subìto una emorragia di voti, ma resta il primo partito nelle due Camere, pur perdendo la maggioranza al Senato per la prima volta dal ritorno alla democrazia nel 1983. “Vince nelle province e nei quartieri più poveri, tra gli strati sociali vulnerabili che sopravvivono grazie ai programmi sociali e sono fuori dal mercato del lavoro”, riflette Lourdes Puente, direttrice della Scuola di Politica e Governo alla UCA, la Università Cattolica Argentina.
L’opposizione di centrodestra, Juntos por el cambio, è cresciuta ovunque e conquistato molti distretti urbani, ma non ha dato la spallata. Anche le due ali alle estremità sfoderano sorrisi: il Frente de izquierda si è portato a casa oltre il 6% e la nuova destra populista di Javier Milei vince un seggio nazionale e raccoglie il 17% nella capitale, soprattutto tra i più giovani.
Non fidandosi veramente di nessun attore in campo, chi è andato a votare (il 71%) ha lasciato un parlamento che sarà un rompicapo: il Governo dovrà negoziare con l’opposizione e soprattutto con la pattuglia dei partiti provinciali, “veri feudatari a livello locale e disponibili a tutto se si sentono l’ago della bilancia come ora”, ci racconta Alicia Martinez, giornalista e scrittrice, per anni corrispondente dell’agenzia Ansa.
Il voto disegna lo stato di confusione in cui è immersa l’Argentina, ma “può essere anche letto come un invito al mondo politico a dialogare, a trovare soluzioni condivise per fare uscire insieme il Paese dal pantano. − sottolinea Lourdes Puente − E credo sia stato affidato al Congresso un protagonismo come mai prima”. E aggiunge: “Già il fatto che così tanta gente sia andata a votare, nonostante la situazione, mi sembra un segnale di consapevolezza democratica”.
La palla ora è in mano a un mondo politico che resta un’arena rissosa e le stesse coalizioni sembrano più patti tra clan personali che soggetti politici. Non è un caso che, a pochi giorni dal voto, siano venute a galla tutte le divisioni. Nel Frente, i colpi di sciabola di Cristina Kirchner sono sempre più espliciti e “nel frattempo il presidente è solo – continua Alicia Martinez – È finito come il perfetto capro espiatorio”. Nella coalizione rivale, l’ex Presidente Mauricio Macri, considerato finora il perno, è sempre più trattato come un ingombro e i suoi alleati, “i radicali, sentono l’euforia di aver incassato così tanti voti come non vedevano da vent’anni e allora litigano tra loro per farsi largo in vista del 2023, anno di presidenziali”, racconta il cronista politico Nicolás Fiorentino.
Mentre nei corridoi del potere volano gli stracci, il Paese si ritrova di nuovo a fare anticamera al Fondo monetario internazionale. In Argentina, il Fmi è uno di quegli spettri che arrivano a dicembre. Non c’è argentino, infatti, che non ricordi l’elicottero bianco sul tetto del palazzo di Governo, il Presidente Fernando De La Rua che ci sale e scappa, sorvolando un popolo che da giorni invade le strade, a forza di grida, saccheggi e picchetti. Era il 20 dicembre 2001, giusto vent’anni fa. Il giorno prima, negli scontri con la polizia si erano piante 30 vittime e decine di feriti.
Vent’anni dopo il Paese è di nuovo in stato di choc. Gli argentini sono entrati nel XXI secolo dopo aver vissuto gli anni ’90 sotto lo sferzare di un cinismo che aveva privatizzato e svenduto furiosamente ogni cosa e trasformato per decreto i miseri Austral nel verde dei dollari. C’è stato un tempo in cui tutti qui si sono creduti ricchi. Poi il cinismo è diventato euforia. E l’euforia, scoperto l’inganno, si è rivelata tragedia.
Vent’anni dopo gli argentini corrono di nuovo sulle montagne russe di un debito impagabile e “una crisi che ha fatto diventare persino la carne, la mitica carne argentina, un lusso per pochi”, sottolinea Alicia Martinez. “Che non ci sia stata un’esplosione sociale si può spiegare solo con un senso delle istituzioni maturato tra la gente dopo il 2001 e con la capacità di auto-organizzarsi per sopravvivere”. La paura della pandemia e le misure drastiche di isolamento (compreso un uso spregiudicato delle forze dell’ordine) hanno fatto il resto.
Quello che si sente in Argentina è un rumore di fondo. E su quel rumore si sono consumate le elezioni di metà mandato. Sul tavolo c’è un prestito da riconsegnare pari a 43 miliardi di dollari, dei 44,2 ricevuti, all’interno di un accordo che può arrivare fino a 53 miliardi, il più grande mai concesso dal Fmi. E gli interessi valgono 390 milioni di dollari. Buenos Aires dovrebbe sborsare quasi 19 miliardi nel 2022, altrettanti nel 2023 e quasi 5 l’anno dopo. Un’operazione impossibile.
È stato Mauricio Macri, Presidente dal 2015 al 2019, a rivolgersi al Fmi quando già il paese si trovava in crisi economica, la moneta si deprezzava e i dollari fuggivano all’estero. Ottenuto il prestito nel 2018, solo un anno dopo Macri ammetteva di non sapere come pagarlo. Lui ha sempre detto di essere ricorso al Fmi, avendo trovato un bilancio insostenibile e uno stato ipertrofico, lasciato in eredità da Cristina Kirchner che pure ha governato (2007-2015) nel boom delle materie prime, prima di tutto la soia.
Cosa fare ora? Il Presidente Alberto Fernández non ha scelta: negoziare su tutti i fronti. Così ha fatto nell’agosto 2020, con i creditori privati che reclamavano 65 miliardi di dollari, strappando la metà e fissando nuove date. Ora, quello che tutti temono è a quale prezzo il Fmi eviterà all’Argentina la bancarotta. Ha già chiesto un piano triennale di politiche economiche, ma la parola che tutti temono è “ajuste fiscal”, cioè sacrifici e austerità. Su questo, Cristina Kirchner ha già minacciato pubblicamente il Presidente di cui è la vice. D’altra parte, come riassume Iván Schargrodsky, direttore della rivista web Cenital, “Il kirchnerismo è l’unico soggetto dentro la coalizione governativa che mette in gioco tutto il suo capitale politico nel negoziato”.
Sarà da capire, tra i due, chi avrà più influenza sui potenti sindacati della CGT e sulle organizzazioni sociali e come si muoveranno tutti sulla corda tesa con il FMI. Sono in molti a chiedersi come si muoverà anche Máximo Kirchner, figlio di Cristina. Capo dei deputati governativi, è lui che osservano imprenditori e politici oppositori. Racconta Nico Fiorentino, che sul delfino ha scritto uno splendido ritratto per la rivista Anfibia: “Se Cristina utilizza i discorsi politici per tracciare la linea, il figlio usa il Congresso, la ginnastica parlamentare e le sue relazioni per determinare fino a dove arrivano le alleanze”. Lui stesso è a capo di una organizzazione, La Cámpora, che si è fatta spazio dentro l’organismo peronista, facendo politica alla vecchia maniera, porta a porta, radicandosi nei territori, occupando spazi di potere: “Máximo Kirchner è il braccio esecutore e il capo di una generazione allenata per arrivare al potere”, continua Fiorentino.
Insomma, vecchie e nuove alleanze, vecchi e nuovi rivali si muovono febbrilmente sulla scena. Sotto, il paese li osserva, ormai sempre più disilluso, sperando che qualcuno sia in grado di trascinarlo via dal baratro dove ciclicamente il circo della politica lo trascina.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/febbraio di eastwest.
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