Lunedì 30 gennaio le autorità del Pakistan si sono mosse in una direzione inattesa e sorprendente, mettendo agli arresti domiciliari – a casa sua – il leader estremista Hafiz Saeed, sospettato numero uno per aver ideato e progettato l’attentato di Mumbai del 2008, dove un commando di terroristi pachistani uccise oltre 160 persone. L’«arresto» di Saeed segna apparentemente un cambio di rotta nella gestione del terrorismo interno da parte di Islamabad, in seguito a enormi pressioni da parte di New Delhi e, ora, di fronte alla minaccia di finire nella lista dei paesi «cattivi» di Donald Trump.
Hafiz Saeed, 66 anni, per decenni è stata tra le figure più controverse del Pakistan. Predicatore estremista e fondatore della cellula terroristica Lashkar e Taiba, Saeed è ritenuto il burattinaio dietro le quinte degli attentati del 2008 a Mumbai, un’operazione terroristica condotta da un commando di miliziani pachistani che colpì il cuore della megalopoli cosmopolita indiana uccidendo più di 160 persone. Secondo l’India, con il supporto logistico di una parte dei servizi segreti pachistani.
Dopo Mumbai 2008, Lashkar e Taiba fu inserita dal Consiglio di sicurezza dell’Onu nella lista delle organizzazioni terroristiche internazionali, ponendo una taglia di 10 milioni di dollari per chiunque avesse fornito informazioni utili alla cattura di Saeed. Che, nel frattempo, godendo della protezione degli apparati militari di Islamabad ha continuato a vivere nella sua «fortezza» di Lahore gestendo le attività di Jamaat ud Dawa (JuD), ufficialmente un’«organizzazione caritatevole» musulmana ma considerata specchietto per le allodole della «defunta» Lashkar e Taiba.
Per anni il governo di Islamabad ha resistito alle pressioni politiche provenienti dalla comunità internazionale e soprattutto da New Delhi, che considera l’arresto di Saeed come una delle precondizioni per intavolare un dialogo proficuo tra le parti e normalizzare i rapporti di vicinato turbolenti fin dal 1947. Una strategia che, dall’inizio di questa settimana, apparentemente sembra in procinto di inversione.
Decretando l’inizio degli arresti domiciliari per Saeed, al momento confinato all’interno della propria residenza senza la possibilità di comunicare coi media, Islamabad sta dando l’impressione di seguire le indicazioni della risoluzione 1267 del Consiglio di sicurezza dell’Onu, che rendeva illegale Lashkar e Taiba e identificava nel suo leader una minaccia per la pace e la stabilità internazionale. Ma la mossa, arrivata a quasi vent’anni dalla risoluzione, ha un tempismo quantomeno sospetto.
La stampa pachistana, a riguardo, offre almeno due spiegazioni, probabilmente complementari. In seguito alla serie di attentati oltre il confine indiano dello scorso anno, inseriti nel groviglio della questione kashmira, l’India di Narendra Modi ha risposto con degli «attacchi mirati» oltre confine e, soprattutto, con un’operazione di isolamento internazionale ai danni di Islamabad, facendo terra bruciata nelle cancellerie di tutta l’Asia Meridionale. Di fronte all’inasprirsi dei rapporti tra Islamabad e New Delhi, a minimi storici dell’ultimo decennio, secondo una dichiarazione del portavoce dell’esercito pachistano riportata dall’Express Tribune l’arresto di Saeed sarebbe interpretabile come una mano tesa verso Narendra Modi, un invito a risedersi al tavolo delle trattative e iniziare una nuova normalizzazione bilaterale. «L’India è il nostro vicino e non vogliamo la guerra, poiché la guerra non è mai la soluzione» ha fatto sapere l’esercito pachistano in una rarissima dichiarazione conciliante.
Ma c’è dell’altro. Il tempismo dell’arresto di Saeed, già contestato in patria dai sostenitori du JuD e da alcune sezioni dell’opposizione parlamentare che denunciano una «dimostrazione di debolezza» del governo davanti alle pressioni indiane, coincide col blocco degli ingressi negli Usa imposto dall’amministrazione Trump, col caos conseguente che tutti conosciamo. Al momento la «lista dei cattivi» di The Donald comprende Libia, Siria, Iraq, Iran, Somalia, Yemen e Sudan, ma già da qualche giorno il Pakistan teme di essere a rischio inserimento. Un’eventualità palesata molto chiaramente dal Chief of Staff Reince Priebus in una recente intervista televisiva, in cui ha dichiarato: Si possono indicare altri stati che hanno problemi simili [di terrorismo], come il Pakistan. Forse sarà il caso di estenderla [la lista]».
E l’arresto di Saeed, in quest’ottica, mostrerebbe a The Donald la buona volontà di Islamabad.
@majunteo