Massimo Sansavini – l’unico artista autorizzato dal Tribunale di Agrigento ad entrare nel cimitero delle barche di Lampedusa – racconta ad Eastwest come ha trasformato le barche dei migranti in arte.
Una mostra di 1500 mq per raccontare la vastità del Mediterraneo e il viaggio di coloro che sono arrivati in Europa, ma soprattutto di coloro che hanno perso la vita in mare. Massimo Sansavini, artista forlivese, ci racconta com’è nata la mostra «Touroperator». Sansavini è stato l’unico artista a cui il Tribunale di Agrigento ha permesso di accedere al “cimitero delle barche” di Lampedusa, nell’ex base americana Loran. Ha osservato, fotografato, segato gli scafi, prelevato alcuni frammenti e infine raccontato la migrazione attraverso le parole dell’arte. Il titolo delle sue opere corrisponde alla data di un naufragio, mentre ogni vittima è ricordata tramite simboli del linguaggio universale. Una critica all’Europa, ma anche un messaggio di speranza. La mostra sarà ospitata dalla Fondazione Dino Zoli di Forlì fino al 15 maggio, ma le opere, al momento, non sono in vendita: “Vorrei che il mio messaggio continuasse a essere itinerante, arrivando fino a Roma e Lampedusa”.
Signor Sansavini, la mostra sta avendo un ottimo riscontro di pubblico. Ci parli di com’è nata l’idea di “ripensare” gli scafi di Lampedusa.
L’ispirazione era già nella mia testa, ma ho cominciato a muovermi, purtroppo, dopo il naufragio dell’ottobre 2013 (In quell’occasione morirono 386 migranti a largo di Lampedusa, ndr). Da quel momento, la comunicazione dei media è diventata martellante. Il tema è entrato nella nostra quotidianità. Quando mi è capitata fra le mani una rivista in cui si parlava del cimitero delle barche di Lampedusa, ho dato vita a un collegamento già esistente dentro di me.
Così ha iniziato un lungo iter burocratico per avere accesso alle barche confiscate.
Sì, le barche vengono prima sequestrate e poi distrutte, ma io avevo una richiesta insolita per le autorità: poterne prelevare alcune parti prima che scomparissero. Ho parlato col comune di Lampedusa, poi con la capitaneria di porto e infine mi sono rivolto al Tribunale di Agrigento, che nel settembre 2015 mi ha autorizzato, in via eccezionale, ad accedere al “cimitero delle barche” dei migranti di Lampedusa. Un progetto di circa 3 anni. Bisogna, inoltre, dire che il fasciame degli scafi si trova nell’ex base americana Loran e quindi sotto stretta sorveglianza. Appena mi hanno concesso l’autorizzazione, mi sono precipitato con un furgone da Forlì. Altre persone avevano chiesto di ottenere i barconi, io invece ho chiesto delle parti affinché potessero essere una testimonianza. Perfino i carabinieri locali si sono stupiti: la settimana prima avevano mandato via la BBC venuta da Londra perché non aveva i permessi, mentre io ce l’ho fatta! Penso che abbiano premiato la mia insistenza.
Quali sensazioni ha provato all’ingresso del “cimitero delle barche”?
È un’esperienza che dovrebbero provare tutti. Il luogo in sé potrebbe essere già un museo. È difficile non commuoversi. Ci sono ancora i vestiti dei bambini e gli oggetti personali dei migranti: di quelli che ce l’hanno fatta e di quelli che hanno perso la vita durante il viaggio. Si tocca con mano l’emergenza delle persone che attraversano il mare per sopravvivenza. Entrare in quel deposito ti cambia sicuramente la sensibilità.
Il logo della mostra Touroperator ha una grafica che ricorda la famigerata insegna «Arbeit macht frei» dei campi di concentramento nazisti. È un modo per rimarcare la necessità di una testimonianza storica?
Sì, è una risposta a quella porzione della società che si è dimenticata di salvaguardare i diritti dell’uomo. Nell’esposizione, ad esempio, c’è un timone che ho prelevato e sulla cui base ho voluto scrivere l’articolo 4 della Convenzione di Strasburgo del 1963, in cui si dice chiaramente che «le espulsioni collettive di stranieri sono vietate». Nella parte interna, quella del timoniere, la scritta è in arabo; in quella esterna, in italiano. L’Unione Europa di oggi ha paura degli altri, si difende ergendo muri. In Danimarca sequestrano i monili dei migranti, in Germania li selezionano, in Austria e Ungheria vogliono costruire blocchi, mentre i politici sono in ostaggio della Turchia. Dobbiamo essere più coerenti con le nostre coscienze.
E l’Italia come si sta comportando con i migranti?
Non malissimo, però bisogna rivedere il sistema dei CIE e vigilare sulla trasparenza. Non è possibile che ci siano persone che intascano tangenti alle spalle degli altri.
Parliamo delle opere: sono quasi tutte in legno, con elementi che ricordano il numero di naufraghi.
Considero il legno una memoria necessaria, lo uso spesso nei miei lavori. Queste imbarcazioni hanno solcato il Mediterraneo, ma fra un po’ non ne avremo più una testimonianza fisica perché vengono distrutte o abbandonate in prossimità delle coste libiche. Rappresentano uno dei più grandi esodi del nostro periodo storico. Le opere, circa 50, sono un racconto di viaggio. Si tratta, prevalentemente, di pannelli di legno che ricordano i fondali marini su cui sono incollati elementi semplici, come stelle, cuori, soli. Elementi universali in tutte le civiltà. Il titolo di ogni opera corrisponde alla data di un naufragio, mentre la quantità di elementi sul pannello fa riferimento al numero di vittime.
Il legno degli elementi è quello originale delle barche?
Sì, completamente al naturale. C’è stata anche una buona dose di ricerca per trovare tonalità che dessero armonia. Ho studiato i colori dei fondali per poterli abbinare con il materiale originale delle barche, che al 90% sono di colore azzurro. Ho quindi scelto alcuni dettagli rossi, verdi o gialli per creare uno sguardo positivo sulla questione. Nella mostra ci sono anche sculture, fotografie, spazi interattivi e testuali.
L’esperienza alla Fondazione Zoli di Forlì sta andando bene: le opere sono in vendita?
Al momento, no. Ci sono diversi enti interessati ad ospitare l’esposizione e vorrei che continuasse a essere itinerante, arrivando anche a Roma e Lampedusa. Finora è stata ospitata dai Musei San Domenico di Forlì e al Parlamento Europeo di Bruxelles. Adesso, invece, si trova sia alla Fondazione Zoli che nella sede dell’Assemblea Legislativa della Regione Emilia-Romagna, a Bologna. Quella di Forlì sarà prorogata fino al 15 maggio, considerato il successo di pubblico.
Massimo Sansavini – l’unico artista autorizzato dal Tribunale di Agrigento ad entrare nel cimitero delle barche di Lampedusa – racconta ad Eastwest come ha trasformato le barche dei migranti in arte.
Quali sensazioni ha provato all’ingresso del “cimitero delle barche”?
È un’esperienza che dovrebbero provare tutti. Il luogo in sé potrebbe essere già un museo. È difficile non commuoversi. Ci sono ancora i vestiti dei bambini e gli oggetti personali dei migranti: di quelli che ce l’hanno fatta e di quelli che hanno perso la vita durante il viaggio. Si tocca con mano l’emergenza delle persone che attraversano il mare per sopravvivenza. Entrare in quel deposito ti cambia sicuramente la sensibilità.
Il logo della mostra Touroperator ha una grafica che ricorda la famigerata insegna «Arbeit macht frei» dei campi di concentramento nazisti. È un modo per rimarcare la necessità di una testimonianza storica?
Sì, è una risposta a quella porzione della società che si è dimenticata di salvaguardare i diritti dell’uomo. Nell’esposizione, ad esempio, c’è un timone che ho prelevato e sulla cui base ho voluto scrivere l’articolo 4 della Convenzione di Strasburgo del 1963, in cui si dice chiaramente che «le espulsioni collettive di stranieri sono vietate». Nella parte interna, quella del timoniere, la scritta è in arabo; in quella esterna, in italiano. L’Unione Europa di oggi ha paura degli altri, si difende ergendo muri. In Danimarca sequestrano i monili dei migranti, in Germania li selezionano, in Austria e Ungheria vogliono costruire blocchi, mentre i politici sono in ostaggio della Turchia. Dobbiamo essere più coerenti con le nostre coscienze.
E l’Italia come si sta comportando con i migranti?
Non malissimo, però bisogna rivedere il sistema dei CIE e vigilare sulla trasparenza. Non è possibile che ci siano persone che intascano tangenti alle spalle degli altri.
Parliamo delle opere: sono quasi tutte in legno, con elementi che ricordano il numero di naufraghi.
Considero il legno una memoria necessaria, lo uso spesso nei miei lavori. Queste imbarcazioni hanno solcato il Mediterraneo, ma fra un po’ non ne avremo più una testimonianza fisica perché vengono distrutte o abbandonate in prossimità delle coste libiche. Rappresentano uno dei più grandi esodi del nostro periodo storico. Le opere, circa 50, sono un racconto di viaggio. Si tratta, prevalentemente, di pannelli di legno che ricordano i fondali marini su cui sono incollati elementi semplici, come stelle, cuori, soli. Elementi universali in tutte le civiltà. Il titolo di ogni opera corrisponde alla data di un naufragio, mentre la quantità di elementi sul pannello fa riferimento al numero di vittime.
Il legno degli elementi è quello originale delle barche?
Sì, completamente al naturale. C’è stata anche una buona dose di ricerca per trovare tonalità che dessero armonia. Ho studiato i colori dei fondali per poterli abbinare con il materiale originale delle barche, che al 90% sono di colore azzurro. Ho quindi scelto alcuni dettagli rossi, verdi o gialli per creare uno sguardo positivo sulla questione. Nella mostra ci sono anche sculture, fotografie, spazi interattivi e testuali.
L’esperienza alla Fondazione Zoli di Forlì sta andando bene: le opere sono in vendita?
Al momento, no. Ci sono diversi enti interessati ad ospitare l’esposizione e vorrei che continuasse a essere itinerante, arrivando anche a Roma e Lampedusa. Finora è stata ospitata dai Musei San Domenico di Forlì e al Parlamento Europeo di Bruxelles. Adesso, invece, si trova sia alla Fondazione Zoli che nella sede dell’Assemblea Legislativa della Regione Emilia-Romagna, a Bologna. Quella di Forlì sarà prorogata fino al 15 maggio, considerato il successo di pubblico.
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