“Cosa vale di più, un CD pirata usato venduto su una bancarella o un’azione della Petrobras?” “Chi scambia due azioni Petrobras con un McMenu?”. Queste sono solo due delle centinaia di prese in giro con cui i caustici brasiliani hanno chiuso su Twitter il loro 2014, un anno duro per l’economia del paese del samba anche a causa di quello che un tempo era considerato con la Seleção il simbolo dell’essere brasiliano, la Petrobras per l’appunto.

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Dodici mesi prima le stesse battute acide i social network del paese del samba le avevano dedicate ad Eike Batista, proprietario della petrolifera OGX. Nel 2012 era l’uomo più ricco del Brasile ed aveva annunciato in un’intervista ormai diventata cult concessa aVeja, il settimanale più diffuso a Copacabana, che per le Olimpiadi di Rio del prossimo anno, lui puntava a superare Bill Gates e Carlos Slimper diventare il Paperon de Paperoni planetario.
“Sotto l’equatore tutto è permesso”.
È il detto che va per la maggiore a Brasilia e non stupitevi dunque che oggi la OGX sia già fallita assieme ad Eike, che si è lasciato dietro una marea di piccoli azionisti inferociti che hanno perso tutto solo per aver creduto nel suo sogno di “fare concorrenza a Petrobras”, estraendo petrolio da pozzi che alla fine si sono dimostrati solo “virtuali”. Petrobras non è però OGX bensì un gigante che dà lavoro direttamente ad 80mila persone cui si devono sommare i 220mila dipendenti dell’indotto. Difficile insomma che fallisca anche se i numeri fanno paura. Anche se il petrolio dovesse tornare a 40 dollari al barile come a fine 2008-inizio 2009.
Nel maggio del 2008 Petrobras valeva 737 miliardi di reais, l’equivalente di 200 miliardi di euro al cambio dell’epoca. A fine 2014 dell’impresa petrolifera il cui maggior azionista con il 55% dei diritti di voto è lo Stato brasiliano rimanevano appena 115 miliardi di reais, pari a 35 miliardi di euro al cambio attuale. Un sesto in meno.

Tutta colpa del prezzo del petrolio sotto i 60 dollari di fine 2014?
Sicuramente la quotazione del barile incide sul valore delle petrolifere. Non a caso quando nel maggio 2008 le azioni Petrobras alla borsa di San Paolo toccarono il loro massimo di 51 reais – hanno chiuso il 2014 sotto i 10 reais – il barile aveva superato i 140 dollari USA, un record assoluto. Sei mesi dopo però la quotazione del greggio era affondata a 40 dollari, un crollo superiore all’attuale, ma le azioni Petrobras in quell’occasione tennero bene. A tal punto che la multinazionale brasiliana riuscì di lì a poco, nel 2010, a raccogliere 70 miliardi di dollari in quella che ancora oggi è la più grande emissione obbligazionaria della storia.

Ma cosa è successo allora a Petrobras che nel 2007 viaggiava sull’onda dell’euforia per la scoperta di riserve da 50 miliardi di barili nel “Pre-sal”, lo strato formatosi oltre 100 milioni di anni fa nelle profondità marine di fronte a Rio de Janeiro e Santos mentre oggi è diventata lo zimbello dei brasiliani su Twitter e dei mercati?
La via crucis della petrolifera è dovuta in primis ad investimenti sbagliati, come la raffineria di Pasadena, in Texas, acquistata ad un prezzo gonfiato ed incompatibile con i parametri di mercato, o come quella di Abreu e Lima, nel Pernambuco, nata come progetto congiunto col Venezuela e che secondo il quotidiano Valor Economico sinora ha causato già 10 miliardi di dollari di perdite a Petrobras.
Già a fine 2013 Forbes stimava al 32% la probabilità che la compagnia andasse addirittura in bancarotta anche se, a detta di tutti gli esperti sentiti da East, “Petrobras is too big to fail”, ovvero “è troppo grande per essere lasciata fallire” dallo Stato.
Rispetto ad allora però le cose oggi sono ulteriormente peggiorate perché nella primavera del 2014 è deflagrata una mega-operazione di Polizia, la “Lava Jato”, che sinora ha portato in carcere ex direttori e dirigenti della statale oltre al gotha delle principali multinazionali brasiliane che costruiscono dighe, ponti e strade in giro per il mondo, ma anche piattaforme petrolifere, cantieri navali e raffinerie proprio per Petrobras. A guidare l’inchiesta il giudice Sérgio Moro, eletto personaggio dell’anno dalla rivista Istoé.
Oltre alla quarantina di imprenditori finiti in carcere, anche 28 politici sono nel mirino dell’inchiesta.Tra questi l’ex ministro dell’Economia Antonio Palocci, già coordinatore della campagna elettorale della presidente Dilma Rousseff nel 2010. Secondo Moro il valore totale della corruzione avrebbe condizionato appalti per un valore complessivo di oltre 20 miliardi di dollari mentre si sta indagando su oltre 4 miliardi di euro di “tangenti vive”.
“Sino a pochi anni fa Petrobras era considerata la blue chip -“bene rifugio” per eccellenza in Brasile, oggi non è più così” spiega l’economista brasiliano Eduardo Giannetti per cui “il 2015 sarà anche peggio e già evitare la recessione sarà un mezzo miracolo”. “Il crollo Petrobras, assieme a quello di Elettrobras”, l’altra grande compagnia statale dell’energia che per la prima volta a fine 2014 non ha distribuito dividendi contravvenendo al suo statuto “è una delle cause principali della fine del ‘miracolo’ brasiliano”. Il paradosso, sottolinea Giannetti “è che a distruggere i due gioielli statali con politiche di prezzi controllati assurde è stato il governo più statalista mai avuto”.
Nell’ambito dei paesi produttori di petrolio, il Brasile rappresenta dunque un caso a parte. Certo con il barile sotto i 60 dollari è meno lucrativo estrarre dai giacimenti scoperti sotto il mare nel 2007 ma, a differenza dello shale gas Usa il cui break-even è sopra i 60 dollari, il punto di pareggio del “Pre-sal” è tra 41 ed 57 dollari, a seconda della profondità da trivellare.
Inoltre, anche quando il barile era a 100 dollari, il prezzo dell’energia – sia da petrolio che elettrica – era tenuto artatamente basso dal governo brasiliano per spingere la domanda interna ma, così facendo, sia Petrobras che Elettrobras hanno operato per anni in perdita in casa loro.
Non a caso, l’indebitamento della petrolifera è passato da 117 miliardi di reais nel 2010 ai 307 del bilancio del secondo trimestre 2014. Non del terzo che è stato rinviato sine die dato che con un’inchiesta che ogni giorno che passa s’ingrossa come una palla di neve nessuna società è disposta a certificarne il bilancio. Oggi i debiti della Petrobras sono tre volte la sua liquidità e le conseguenze dello squilibrio si sono già sentite sui fornitori, molti dei quali hanno reclamato il mancato pagamento per i servizi prestati alla statale.

Insomma, il crollo del valore di Petrobras dell’85% rispetto al 2008 – molto più di tutte le altre compagnie di settore – è dovuto in massima parte al miss-management – usando un eufemismo – che l’inchiesta Lava Jato ha evidenziato.
Per questo a fine 2014 Petrobras, quotata anche a Wall Street, è stata messa sotto la lente della SEC, S&Ps ha ribassato a “BB” il “grade” dei suoi bond, livello considerato “spazzatura”, mentre dieci tra i principali studi legali statunitensi hanno iniziato azioni legali collettive (class actions) contro la statale verde-oro.
Per l’economista José Roberto Mendonça de Barros “la situazione è molto grave anche perché la compagnia tra 2014 e 2018 aveva programmato il maggior schema di investimenti del mondo, pari a 200 miliardi di dollari”. Investimenti che rischiano di rimanere solo sulla carta, proprio come le previsioni fattemi dall’ex presidente Petrobras, Sérgio Gabrielli nel 2007: “raddoppieremo la nostra produzione di petrolio e nel 2015 arriveremo a 4,5 milioni di barili. La metà della produzione attuale dell’Arabia Saudita. Abbiamo una visione molto poderosa del suo futuro”.
Fra poco saremo nel 2015 e potremo catalogare come mero wishful thinking queste parole di Gabrielli che, invece, da metà dicembre 2014 è indagato dalla giustizia carioca che ha chiesto il blocco dei beni e che sia tolto il segreto bancario dai conti dell’uomo che guidò Petrobras dal 2005 al 2012.
“Cosa vale di più, un CD pirata usato venduto su una bancarella o un’azione della Petrobras?” “Chi scambia due azioni Petrobras con un McMenu?”. Queste sono solo due delle centinaia di prese in giro con cui i caustici brasiliani hanno chiuso su Twitter il loro 2014, un anno duro per l’economia del paese del samba anche a causa di quello che un tempo era considerato con la Seleção il simbolo dell’essere brasiliano, la Petrobras per l’appunto.