A vent’anni dal suo ingresso nell’Unione Europea in Austria è tempo di bilanci. Sui media nazionali imperversa il dibattito su quanto sia cambiato il Paese da quel 1 gennaio 1995 che ne decretò l’entrata in Europa, a fronte di un referendum tenutosi nel giugno 1994, che raccolse il favore del 66,6% dei votanti. Un dibattito quanto mai acceso, viste le forti spinte anti-europeiste e nazionaliste che guadagnano sempre più terreno in molti dei Paesi membri dell’Unione.
L’economia austriaca ci ha perso, o ci ha guadagnato?
La sensazione generale è che l’Austria ci abbia guadagnato, moltissimo. Fino all’ingresso nell’Unione, l’economia austriaca è rimasta imbrigliata in un complesso e rigido insieme di regole e vincoli che hanno impedito de facto concorrenza e libero mercato.
“Sintetizzerei con una sola parola: velocità. Entrare in Europa ha impresso sicuramente più velocità all’economia austriaca -racconta il Prof. Peter Rosner docente di Economia Politica all’Università di Vienna- Il contatto con Paesi più ricchi, ma anche la successiva apertura verso Paesi più poveri dell’Est, sono elementi che hanno cambiato l’Austria, da sempre caratterizzata da un’estrema lentezza nel recepire i cambiamenti. Uno dei risultati più evidenti è stato proprio il forte aumento della competitività e un’accresciuta differenziazione dei prodotti” sottolinea il Prof. Rosner.
Un mercato in balia di monopoli, corporazioni e sindacati
Dal 1945 al 1995 il libero mercato in Austria è stato alterato nei suoi naturali equilibri dalla massiccia presenza di corporazioni, di veri e propri cartelli, e dall’azione debordante quanto tentacolare dei sindacati che hanno bloccato qualunque forma di libera concorrenza e liberalizzazione del mercato, in favore di una rigida stabilizzazione dei prezzi. Un ruolo centrale, quello dei sindacati, che si è via via consolidato dal dopoguerra in avanti, per perdere gradualmente il suo potere sul finire degli anni ’80.
“Esistevano delle incomprensibili stranezze, soprattutto nel settore lattiero-caseario –spiega il Prof. Rosner- Per esempio in passato a Vienna non era possibile comprare yogurt proveniente dal Tirolo. Sono cose che oggi appaiono totalmente prive di senso”. Tutto il settore lattiero-caseario era strettamente regolamentato. Tutto era deciso a livello centrale: produzione, distribuzione, prezzi. Qualsiasi eventuale deroga aveva bisogno di autorizzazioni da parte del Fondo dell’Industria Casearia e della Camera dell’Economia e dell’Agricoltura. Anche la produzione di formaggio prevedeva un meccanismo di imposizioni a livello centrale che stabilivano le zone abilitate e quelle che non lo erano. Nella Bassa Austria, per esempio, era proibito produrre formaggio. Un dirigismo centralistico che aveva come obiettivo il controllo dei prezzi, attraverso due tipi d’intervento: legislativo, applicato solo a generi di prima necessità e al petrolio; e consociativo, attraverso una commissione gestita di concerto dalla Camera del Lavoro e dai sindacati, per tutto il resto. “In genere nessun aumento di prezzo aveva speranza di essere approvato -aggiunge il Prof. Rosner- Le corporazioni hanno sempre agito come veri e propri cartelli”. L’Associazione per la protezione dei Birrai delle Alpi, nata nel 1907, per esempio, nel 1977 era arrivata a gestire il 97,7% dell’intero mercato austriaco, stabilendo centralmente le quote di bottiglie spettanti a ciascun produttore di birra, le aree di smercio del prodotto e la distribuzione sul territorio. Praticamente un monopolio. Sfuggiva al suo controllo solo il 2,3% della produzione.
“Anche il settore bancario prima dell’ingresso nell’UE ha patito molto la mancanza di concorrenza e di competizione” sottolinea il Prof. Rosner, soffrendo di un livellamento verso il basso sia della qualità di prodotti e servizi finanziari, sia dei tassi d’interesse. Per ragioni storiche anche le banche austriache erano organizzate in associazioni sindacali di settore e in sfere d’influenza politica e controllavano i cartelli, quasi 200 prima della guerra.
Ancora oggi in settori quali quello farmaceutico, quello degli spazzacamino addetti alla manutenzione e alla pulizia delle canne fumarie e quello delle compagnie di taxi ci sono residui corporativi che persistono, per tutelare, così dicono, la sicurezza dei clienti e la certificazione dei servizi.
L’economia austriaca gode di buona salute
Malgrado abbia subito per molti anni un’impostazione del sistema economico di marcata impronta socialdemocratica, l’Austria è un Paese ricco. Il suo reddito pro capite rapportato al potere d’acquisto è tra i più alti dell’Unione Europea (al quarto posto nell’UE, superando del 24% la media europea). Inoltre il PIL austriaco è sempre cresciuto, registrando una battuta di arresto solo nel 2009 (-3,0% contro il -5,6% della Germania), a causa della crisi globale. Attualmente le esportazioni di beni e servizi in Austria superano il 50% del PIL, con punte del 58,8% nel biennio 2007-08. Prima dell’ingresso nell’UE, al contrario, l’export non superava il 35,1% del PIL. Settori molto forti sono l’industria pesante e quella metallurgica, ma anche la produzione di energia idroelettrica è un fiore all’occhiello.
Chi ha tratto più vantaggio dall’ingresso nell’UE e chi ci ha rimesso?
Le liberalizzazioni del comparto industriale successive all’ingresso nell’UE sono un’indubbia vittoria per il Paese. Anche l’agricoltura che non era competitiva oggi va molto meglio. Si sono tra l’altro sviluppati settori di eccellenza come la produzione di vino. Mentre il settore lattiero-caseario (l’Austria soddisfa ampiamente il proprio fabbisogno interno), che tanto temeva l’entrata in Europa, è diventato un altro settore di eccellenza. Dalle 84.000 fattorie esistenti prima dell’ingresso nell’UE, si è passati alle attuali 33.000, che però producono un terzo di più e sono 2 volte e mezza più grandi del passato. Dei 2,2 miliardi di euro provenienti dal settore lattiero-caseario che l’Austria ricava ogni anno, la metà derivano dalle esportazioni. Anche la produzione di formaggi, sebbene ancora di nicchia, rappresenta un’eccellenza. Sotto il marchio Agrarmarkt Austria Marketing (AMA) si garantiscono qualità e tracciabilità dei prodotti alimentari austriaci dentro e fuori dall’UE.
In generale i prezzi si sono mantenuti su livelli contenuti. Un esempio su tutti un quarto di chilo di burro a metà degli anni ’90 costava 23,50 scellini, oggi sarebbe inimmaginabile pagare 7 euro per un simile quantitativo. Il costo del lavoro, però, è molto alto in Austria, e incide pesantemente sul prezzo finale di beni e servizi.
Tra gli sconfitti ci sono i salari dei lavoratori che hanno subito un’erosione del 14% dall’ingresso nell’UE. Forse è anche per questo che in Austria si registra ora un alto tasso di euroscetticismo.
A vent’anni dal suo ingresso nell’Unione Europea in Austria è tempo di bilanci. Sui media nazionali imperversa il dibattito su quanto sia cambiato il Paese da quel 1 gennaio 1995 che ne decretò l’entrata in Europa, a fronte di un referendum tenutosi nel giugno 1994, che raccolse il favore del 66,6% dei votanti. Un dibattito quanto mai acceso, viste le forti spinte anti-europeiste e nazionaliste che guadagnano sempre più terreno in molti dei Paesi membri dell’Unione.