Sinologa, ha collaborato con l’Agi e l’agenzia cinese Xinhua. Gestisce il portale d’informazione China Files, collabora con diverse testate tra cui il Manifesto e Left.
Cina: tutti pazzi per AI, specialmente il governo
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Baidu non è l’unica azienda cinese ad aver fiutato l’affare: anche Alibaba, Meituan, SenseTime, e iFlyTek, hanno sviluppato software analoghi. Tutti pazzi per l’IA. Presentando Ernie, il Ceo di Baidu Robin Li ha ammesso che, nonostante la tecnologia fosse ancora immatura, il lancio del chatbot rispondeva alla necessità di giocare di anticipo sui competitor: “ È il mercato che lo chiede”, ha detto senza giri di parole. A dire il vero, non è solo il mercato a chiederlo. Come per altri settori, anche nel caso dell’IA, l’interesse della comunità imprenditoriale ha ricevuto una poderosa spinta dall’alto: politiche nazionali e generosi investimenti statali da anni puntano a rendere la Cina leader mondiale nella tecnologia. È quindi il governo a chiederlo, spesso anche più del mercato.
Tutto è cominciato nel 2017, quando il governo Xi Jinping ha lanciato il “Piano per lo sviluppo della nuova generazione di intelligenza artificiale” con l’obiettivo di trasformare il paese asiatico nel principale centro di innovazione dell’IA entro il 2030.
La corsa alla leadership globale
Secondo la roadmap, la Cina avrebbe dovuto investire 150 miliardi di yuan (circa 22,5 miliardi di dollari) nell’IA entro il 2020 per poi raggiungere un valore di mercato di mille miliardi di yuan (circa 150 miliardi di dollari) nel decennio successivo. La data non casuale. Proprio nel 2017, l’arrivo di Trump alla Casa Bianca segna l’inizio della guerra commerciale tra Cina e Stati Uniti, delle tariffe incrociate, della competizione tecnologica. Insomma, di tutto quello che ha posto le basi per la cosiddetta “nuova guerra fredda” tra le due superpotenze.
Va detto che le ritorsioni americane sono il catalizzatore, non l’innesco, della corsa cinese all’IA. Pechino sembrava avere le idee chiare già da tempo. Esattamente dal maggio 2015, quando il Consiglio di Stato cinese include l’IA tra i dieci settori compresi nel Made in China 2025, piano lanciato con l’obiettivo di assicurare al gigante asiatico l’autosufficienza nelle tecnologie più avanzate, tra cui il 5G, i semiconduttori, i veicoli elettrici e le biotecnologie. Uno sforzo che, come esplicitato nel tredicesimo e quattordicesimo piano quinquennale, doveva aiutare la Cina ad abbandonare il modello “fabbrica del mondo”, basato sulla produzione di beni a basso costo. Finita l’era della manodopera a prezzi stracciati, con la nuova strategia Pechino mirava a migliorare la capacità produttiva del Paese puntando sulle industrie ad elevata capacità tecnologica. Quelle in cui da decenni gli Stati Uniti detengono un primato quasi incontrastato.
Il bello del “capitalismo di Stato” è che permette di mobilitare risorse in tempi rapidissimi, il brutto è che rasenta la concorrenza sleale. Così, intorno al 2018, il Made in China 2025 sparisce dai comunicati ufficiali in risposta alle critiche di Unione europea e Stati Uniti. Ma il suo spirito continua a vivere sotto altre forme. Con l’arrivo di Joe Biden alla Casa Bianca – e il passaggio da trade war a tech war – IA e semiconduttori diventano il nuovo vero terreno di scontro per la leadership globale. Uno scontro che ora Washington teme di perdere.
La Cina è uno dei principali attori globali nello sviluppo di sistemi informatici intelligenti; vanta numerose imprese e istituti di ricerca impegnati nella creazione di tecnologie avanzate. Nel 2021, il gigante asiatico ha realizzato il numero maggiore di pubblicazioni sull’IA, pari al 27,6%, del totale contro il 16,9% prodotto dagli Stati Uniti. Secondo un rapporto pubblicato dalla società di analisi CB Insights, le principali start-up dell’IA in Cina includono – oltre alle big tech Tencent, Baidu, Alibaba, e Huawei – nomi meno noti come iFlyTek, SenseTime e Horizon Robotics. Sono proprio queste aziende private, ma foraggiate da sussidi statali, ad aver investito di più nella ricerca e nello sviluppo dell’IA mettendo la tecnologia al servizio dell’economia reale.
L’IA tra applicazioni virtuose e non
Applicazioni pratiche dei sistemi informativi intelligenti le ritroviamo nella robotica, nella guida autonoma nonché nel riconoscimento vocale e facciale impiegato tanto negli smartphone di Huawei quanto nel sistema di videosorveglianza che Hikvision ha installato nelle principali città cinesi. Sempre più diffuso è anche l’impiego dell’IA nella medicina, in particolare nella diagnosi e nel trattamento di malattie come il cancro, l’Alzheimer e la depressione, mentre nel settore finanziario le banche cinesi utilizzano sistemi informatici intelligenti per la gestione dei rischi e il rilevamento delle frodi. Negli ultimi anni, è stato sottolineato anche il peso che l’IA avrà all’interno del sistema giudiziario, nel lavoro delle corti, nelle procedure e nella raccolta delle prove.
Ma come altrove, anche in Cina la tecnologia non ha solo funzioni virtuose. Il settore militare – in cui il governo cinese sta investendo massicciamente anche fuori dal bilancio ufficiale cooptando proprio il comparto civile – si presta particolarmente alla sperimentazione tecnologica con l’obiettivo di migliorare le capacità difensive (e offensive) del Paese. Applicazioni dell’IA nel settore militare cinese le ritroviamo nel campo della sorveglianza, della comunicazione e dell’elaborazione dei dati. Oppure nell’analisi e nell’interpretazione dei dati raccolti dai satelliti militari e dai droni per identificare potenziali minacce e migliorare la precisione dei sistemi di arma. Persino nella formazione del personale e nella simulazione, l’impiego della tecnologia può servire a migliorare le capacità di addestramento dei soldati e a meglio valutare le tattiche militari. La Cina sta anche sviluppando robot e veicoli a guida autonoma, con l’obiettivo di aumentare l’efficienza e la sicurezza delle operazioni in contesti di guerra.
Ma cosa succede se l’IA finisce nella fabbricazione di armi autonome capaci di causare danni irreparabili in caso di errore o di uso improprio? Sono domande che circolano spesso anche alle nostre latitudini. Ma in Cina, dove il partito unico esercita un controllo strettissimo sulla popolazione, l’ascesa dell’IA è particolarmente controversa: la tecnologia va considerata uno strumento per incrementare la qualità della vita delle persone o un’arma in mano a un regime illiberale ossessionato dalla stabilità sociale?
Un istituto di Hefei, nella provincia cinese dello Anhui, ha affermato di aver sviluppato un software in grado, grazie all’IA, di misurare la lealtà dei membri del partito. Alcuni esperti sostengono che il governo cinese utilizzi i sistemi informatici intelligenti per monitorare la popolazione, non solo in funzione anti-crimine. Un esempio è l’uso discriminatorio del riconoscimento facciale per sorvegliare le minoranze etniche di fede islamica che popolano la regione occidentale dello Xinjiang, a prescindere dalla veridicità dei legami al jihadismo internazionale. Nel 2017 la megalopoli di Shenzhen ha installato la tecnica biometrica a un incrocio molto trafficato che, monitorando gli attraversamenti pedonali 24h, ripropone immediatamente la foto del contravventore in uno schermo elettronico esponendo l’incauto pedone al pubblico giudizio degli astanti. L’anno successivo ha fatto molto discutere la decisione della scuola media n. 11 di Hangzhou di installare uno smart classroom behavior management system in grado di leggere espressioni e movimenti facciali dei ragazzi per studiare i loro livelli di attenzione e identificare sentimenti come felicità, rabbia, repulsione, paura e confusione. Il piano è stato sospeso prima di vedere la luce in risposta all’ondata di polemiche che ha travolto il web.
Una strada lastricata di ostacoli
La strada che conduce alla leadership tecnologica è lastricata di ostacoli. La Cina dovrà affrontare problematiche relative alla carenza di talenti, alle sanzioni americane, alle possibili restrizioni europee, nonché al controllo stringente del governo cinese sulle aziende private, vero motore dell’innovazione made in China. Secondo un libro bianco pubblicato congiuntamente dal think tank governativo China Center for Information Industry Development e dalla China Semiconductor Industry Association (CSIA), solo quest’anno la Repubblica popolare si troverà a fronteggiare una carenza di circa 200.000 lavoratori nel settore dei chip, indispensabili per sostenere la produzione e lo sviluppo dell’industria tecnologica e dell’IA nel paese.
E se da una parte la centralizzazione delle risorse nelle mani delle autorità permette di accelerare lo sviluppo del settore, dall’altra la pioggia di sussidi statali contribuisce ad alimentare la corruzione, fenomeno a cui Xi Jinping ha dichiarato guerra fin dall’alba del suo primo mandato presidenziale. Ci sono già dei precedenti: al collasso di Tsinghua Unigroup, la maggiore società di chip cinese, controllata dallo Stato, è seguita una campagna di arresti tra i dirigenti del National Integrated Circuit Industry Investment Fund, fondo governativo per lo sviluppo dei circuiti integrati. Commentando l’euforia generata da ChatGPT, ad aprile l’Economic Daily, testata fondata dal Consiglio di Stato cinese, ha messo in guardia dal rischio di una nuova bolla speculativa: il motivo è che, nonostante “un’ampia base di utenti, non esiste un’applicazione commerciale matura” della tecnologia, spiega l’articolo che cita tra i possibili problemi sociali anche la diffusione di fake news. Termine che il China Daily, il principale quotidiano cinese in lingua inglese, associa senza mezzi termini alla “disinformazione statunitense”. Secondo l’ente per la regolamentazione di internet, nella Cina “rossa” di Xi, anche i chatbot devono “riflettere i valori socialisti”.
La censura, un’arma a doppio taglio
Sono preoccupazioni che in realtà precedono la nascita di ChatGPT. Nel 2022 è entrata in vigore una legge che impegna le piattaforme a promuovere “algoritmi per il bene”, e in questa breve formula è contenuto anche l’implicito ordine di non sfruttare queste tecnologie per aggirare le normative del partito. Come fanno notare su Agenda Digitale, Riccardo Berti e Franco Zumerle, “che la censura cinese sia un ostacolo e una sfida verso la realizzazione di una IA efficace appare indubbio e non si può certo dubitare del fatto che sia mancato ad Ernie l’’effetto wow’ anche perché gli sviluppatori hanno dovuto dedicare molto tempo (e risorse) a rimodulare il loro modello di intelligenza artificiale per non fargli dire cose sgradite al partito”. La censura – avvertono gli esperti – rischia di limitare eccessivamente la circolazione delle informazioni necessarie ad addestrare gli algoritmi compromettendo così il prodotto finale.
La competizione con gli Usa e le barriere europee
Nonostante i successi della Cina nell’IA, ci sono dunque alcune sfide che il Paese deve affrontare. E non sono solo sfide interne. Pensiamo alla concorrenza globale: altri Paesi, come gli Stati Uniti, il Giappone e la Corea del Sud, stanno investendo generosamente nella ricerca e nello sviluppo della tecnologia. Contestualmente, l’introduzione in Occidente di politiche restrittive – per certi versi persino protezionistiche – potrebbe frenare drasticamente lo sviluppo del settore in Cina.
A ottobre 2022 l’amministrazione Biden ha annunciato misure che impediscono ai principali produttori americani di chip per l’IA, come Nvidia e AMD, (ma anche le aziende straniere che si avvalgono di componentistica statunitense) di vendere al gigante asiatico i loro circuiti integrati di fascia alta per l’IA e il supercalcolo. Secondo New Street Research, Nvidia controlla il 95% delle GPU utilizzate nel machine learning a livello mondiale. Sebbene generalmente più cauta, anche l’Europa sta pianificando disposizioni che incrementeranno il controllo delle autorità comunitarie più di quanto sia già previsto dalle restrizioni sull’export di tecnologia critica introdotte nel 2021. A inizio aprile la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, ha ribadito la necessità di migliorare la regolamentazione degli investimenti europei all’estero là dove esiste “il rischio di fuga di tecnologie sensibili che potrebbero essere utilizzate per scopi militari.” Indovinate un po’ a quale paese si riferiva?
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di Luglio/Settembre di eastwest
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Cina, il pensiero di Xi Jinping sbarca in Africa
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Se alla fine di luglio vi foste recati a Wangfujin avreste assistito a uno spettacolo sconcertante: per giorni l’iconico viale di Pechino, noto per il claustrofobico struscio domenicale, è rimasto pressoché deserto. Niente musica assordante, niente ressa all’uscita della metro. È bastata la chiusura del Legendale Hotel per Covid a tenere lontana la folla.
Nonostante le rigidissime misure preventive, il virus è tornato nella capitale cinese il 23 luglio, quando il vicepresidente dello Zimbabwe, Constantino Chiwenga, è atterrato a Pechino con un jet charter insieme ad altri quattro funzionari, di cui uno risultato positivo al coronavirus. Con la Cina ancora semi-blindata agli ingressi internazionali, l’arrivo di uno straniero infetto nel centro politico del paese non ha mancato di suscitare qualche alzata di sopracciglio.
I favoritismi concessi all’élite africana sono il sintomo di un’amicizia di lunga data.
Chiwenga − venuto a Pechino (come molte altre volte) per sottoporsi a cure mediche − appartiene alla lunga lista di leader del continente a vantare rapporti personali con l’establishment cinese. Una tradizione che risale alla metà del secolo scorso, quando Mao Zedong sostenne i movimenti indipendentisti africani per esportare il comunismo nel quadrante regionale. Appena ventenne, negli anni ’60, l’attuale presidente Emmerson Mnangagwa fu tra i primi funzionari dello Zimbabwe a ricevere un training militare oltre la Grande Muraglia.
Tutt’ora il Governo cinese offre programmi di formazione che hanno coinvolto, tra gli altri, il Jubilee Party, il partito di Governo keniota, l’etiope People’s Revolutionary Democratic Front e il sudafricano African National Congress. Queste sinergie, fin dai primi scambi con i movimenti di liberazione, vengono gestite dal Dipartimento internazionale del Pcc, incaricato di tenere i contatti con tutte le forze politiche. Anche con l’opposizione, in ottemperanza al principio della non ingerenza negli affari interni degli altri paesi. Ma la scelta degli “studenti” di solito rispecchia le priorità economiche di Pechino: a beneficiare dei fondi elargiti sono quegli stati dove i capitali cinesi sono già più presenti.
Stando al Piano d’azione Cina-Africa 2018-2021, annunciato durante l’ultimo Forum on China-Africa Cooperation (FOCAC), il gigante asiatico negli scorsi tre anni si è impegnato a ricevere 60.000 studenti africani l’anno (più di Stati Uniti e Regno Unito); a distribuire 50.000 borse di studio governative per i dipendenti pubblici e a offrire circa 5.000 opportunità formative per i professionisti militari; oltre il doppio rispetto ai 2.000 previsti nel periodo 2015-2018.
Normalmente il training segue una struttura fissa in tre step che comprende: lezioni presso alcune strutture educative cinesi, scambi diretti con le amministrazioni locali su questioni legate all’agricoltura e al business, e attività per avvicinare i leader africani alla cultura cinese. I corsi offerti spaziano dalla riduzione della povertà, alla governance partitica, passando per il controllo dell’opinione pubblica e la gestione dei media. Tutte specialità in cui il Partito unico cinese eccelle. Non è un caso che la lezione sia stata recepita meglio nei paesi accomunati dalla presenza di regime autoritari. Un esempio? L’Etiopia di Abiy Ahmed, di cui il partito di maggioranza − il Fronte democratico rivoluzionario del popolo etiope − è un assiduo frequentatore della Cina fin dal 1995. Quello di Addis Abeba può essere considerato un caso esemplare. Secondo gli analisti, infatti, è proprio ispirandosi al paradigma di sviluppo cinese che il paese dell’Africa orientale ha optato per utilizzare zone economiche speciali e infrastrutture come volano per l’economia nazionale.
Ma, al mutare delle circostanze, negli ultimi tempi sono state introdotte anche nuove materie. “Il ruolo guida del partito nella promozione della prevenzione e del controllo delle epidemie e dello sviluppo economico e sociale” è il tema del workshop organizzato nel settembre 2020 dal Partito comunista cinese insieme al Partito congolese del Lavoro, la principale forza politica di ispirazione socialista che governa il Congo-Brazzaville. L’iniziativa, che ha coinvolto una cinquantina di alti funzionari africani e quadri di livello medio, è servita a rilanciare il partenariato davanti all’emergenza epidemica nella cornice della cosiddetta “Via della seta sanitaria”, utilizzata da Pechino per distribuire forniture mediche tra i Paesi partner. Nulla di inusuale: la cooperazione sanitaria vanta una storia che risale all’era maoista. Ma incluso nel programma troviamo anche lo studio del “pensiero di Xi Jinping”, il lascito ideologico del presidente cinese che ormai in Cina permea ogni ramo dello scibile, dalla politica estera allo stato di diritto.
Il perché è presto detto. Mentre un tempo l’estroversione del Partito comunista cinese era finalizzata alla ricerca di legittimità, ormai la molla delle relazioni politiche è piuttosto il desiderio di condividere il proprio know-how e coltivare rapporti amichevoli con le future generazioni di leader per infondere una visione favorevole del gigante asiatico.
Come spiega la ricercatrice Lina Benabdallah in Shaping the Future of Power, questi scambi relazionali – ancora più degli investimenti a nove zeri − hanno un effetto politico fondamentale: permettono di controbilanciare la narrazione “diffamante” veicolata dalla stampa occidentale, conquistando il supporto dell’establishment africano. Un aspetto riscontrabile soprattutto quando si prendono in esame i dossier più spinosi del momento. “Xinjiang in the Eyes of African Ambassadors to China” è il nome di un evento tenuto a marzo con la partecipazione degli ambasciatori in Cina di Sudan, Burkina Faso e Repubblica del Congo. Nonostante circa il 40% della popolazione africana sia di religione islamica, nessuno dei Paesi del continente ha mai sostenuto le risoluzioni con cui l’Onu ha condannato le politiche etniche di Pechino nello Xinjiang, dove − secondo diversi studi indipendenti − 1 milione di persone di fede musulmana è sottoposto a detenzioni extragiudiziali, lavori forzati e forme invasive di sorveglianza. Pratiche che il governo cinese non nega completamente, ma giustifica nell’ambito della lotta all’estremismo islamico. Per quanto controversi, i programmi di modernizzazione ed emancipazione delle minoranze xinjianesi godono di una notevole popolarità tra la classe politica africana che aspira a replicare il miracolo economico cinese. Un buon motivo per spalleggiare la Cina nel momento del bisogno.
La stessa esternazione di solidarietà è riscontrabile in riferimento a Hong Kong, l’ex colonia britannica ritornata alla Cina nel 1997 con la promessa di ampia autonomia, ma da diversi anni sottoposta alle misure sempre più invasive del governo centrale. Nel giugno 2020, quando il Human Right Council condannò l’introduzione nella città di una legge sulla sicurezza nazionale, 25 nazioni africane presero pubblicamente le difese della Cina, il numero più alto per singolo continente. Non è difficile intravedere una sorta di connivenza opportunistica. Chiamiamola pure “etica della reciprocità”. D’altronde, si sa, il rispetto delle libertà personali non è un valore diffuso nel continente.
Va detto, però, che quando si prende in esame la popolazione più giovane le iniziative cinesi non sempre sortiscono l’effetto sperato. Secondo quanto confidatoci da alcuni ex borsisti, al loro ritorno a casa i giovani africani riconoscono il valore professionale ed educativo dell’esperienza in Cina, ma complessivamente conservano un ricordo amaro del soggiorno a causa della scarsa empatia e accettazione dimostrata dai cinesi nei confronti dei popoli “colorati”, associati a un’immigrazione talvolta ai margini della legalità. Non solo. Chi accoglie l’offerta formativa di Pechino ha normalmente la piena consapevolezza che non si tratta di un’amicizia disinteressata, ma di un’operazione politica. Con tutti i rischi del caso.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di settembre/ottobre di eastwest.
Himalaya: sfida ad alta quota lungo il confine sino-indiano
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Nuove mappe, confini mobili e alchimie diplomatiche ad alta quota. C’è questo e molto altro dietro alle schermaglie che scuotono il confine sino-indiano da sette anni a questa parte. Ogni qualvolta India e Cina sono arrivate alle armi (o alle mani) le turbolenze lungo la frontiera condivisa hanno provocato riverberi nel vicinato himalayano. Stiamo parlando di Nepal e Bhutan, gli Stati cuscinetto che delimitano a nord-est il subcontinente indiano, tenendo a distanza la Repubblica popolare cinese.
Animati da personali amori e dissapori nei confronti dei giganti regionali, i due staterelli da secoli influenzano la geometria variabile delle alleanze sul Tetto del Mondo. Con il ritorno delle ostilità lungo la linea di controllo effettivo − la zona contesa che delimita il territorio della Cina da quello dell’India – per Pechino e Nuova Delhi conquistare la fedeltà dei due piccoli Paesi è diventato un fattore di importanza cruciale per mantenere un vantaggio competitivo e difendere la propria sovranità dalle rivendicazioni della potenza rivale. Un’impresa resa più difficile dalle mosse di alcuni player esterni sullo scacchiere himalayano. Se un tempo erano gli invasori britannici a cambiare le carte in tavola − legittimando le pretese territoriali dell’uno o dell’altro a proprio piacimento − oggi sono gli Stati Uniti a ricoprire il ruolo di terzo incomodo.
Cosa è successo in passato
Per capirci qualcosa dobbiamo riavvolgere il nastro al giugno 2017, quando la costruzione di una strada cinese sull’altopiano di Doklam, incastonato tra Bhutan, Sikkim (India) e Tibet (Cina), innescò il primo confronto tra le truppe cinesi e indiane dalla guerra del 1962. Da secolo oggetto del contendere tra Pechino e Thimphu, l’area in questione non rientra tra i territori rivendicati da New Delhi. Ma possiede un valore geostrategico fondamentale. Chi controlla la vicina strettoia di Siliguri controlla l’unico passaggio stradale che collega l’India settentrionale all’appendice degli Stati del nordest: 27 km che per Nuova Delhi rappresentano l’unica via per spostare le truppe nell’eventualità di un conflitto con la Cina. Questo spiega perché davanti al pressing cinese il Governo indiano abbia optato per un intervento armato, come previsto dal trattato di amicizia che dal 1949 attribuisce a New Delhi responsabilità difensive (fino al 2007 anche diplomatiche) nei confronti del Regno himalayano. Di più. L’accordo stabilisce che “nessuno dei due Governi consentirà l’uso del proprio territorio per attività dannose per la sicurezza nazionale e gli interessi dell’altro”.
Si tratta di un’affermazione tutt’altro che scontata. Il Bhutan persegue ufficialmente una politica della “neutralità”, riconosce i cinque principi di coesistenza pacifica e intrattiene relazioni diplomatiche con appena 54 stati. Cina e Stati Uniti esclusi. Ma con Nuova Delhi è diverso. Per questa sua naturale introversione, Thimphu costituisce la pietra angolare della “Neighbourhood First Policy“, la strategia estera lanciata dal premier indiano Narendra Modi per contenere l’avanzata cinese nel cortile di casa. Per ora pare abbia funzionato alla grande. Tutt’oggi il Bhutan è tra i pochi paesi asiatici − insieme all’India − ad aver snobbato la famigerata Belt and Road (BRI), il mega progetto infrastrutturale con cui Pechino punta a estendere la propria influenza economica e politica a livello internazionale. Ma il posizionamento del Regno himalayano nell’orbita indiana ha un suo costo. Soprattutto alla luce delle tensioni che dalla scorsa estate interessano nuovamente la linea di controllo effettivo tra i due giganti asiatici.
Gli Stati cuscinetto
Nel mese di luglio, tra accuse incrociate e botte da orbi, Pechino non ha perso l’occasione di sfruttare la distrazione generale per reclamare come propria la zona protetta di Sakteng, un’area del Bhutan orientale mai rivendicata prima. Alcuni segnali lasciano intendere che al bastone seguirà la carota. Da anni, a margine dei colloqui sulla delimitazione dei confini, il governo cinese cerca di stabilire contatti ufficiali con Thimphu. Acrobati, giocatori di calcio e migliaia di turisti sono stati spediti nel paese per coltivare il soft power cinese. Pechino da parte sua apprezza la discrezione con cui il Bhutan − uno dei pochi Paesi buddhisti a non aver ancora ricevuto il Dalai Lama − gestisce la questione tibetana, limitando l’espansione della comunità in esilio nei propri territori. Al momento la bilancia pende ancora a favore di Nuova Delhi che, contando per il 75% dell’import e l’85% dell’export bhutanese, controlla tanto l’agenda estera di Thimphu quanto il portafoglio. Ma Pechino non demorde. D’altronde, c’è già un precedente.
Nel 2018, commentando la visita dell’allora vice Ministro degli Esteri Kong Xuanyou, il tabloid nazionalista cinese Global Times affermava che anche se “finora il Bhutan non è riuscito a sbarazzarsi completamente dell’influenza dell’India su politica, economia, diplomazia e sicurezza”, “la Cina spera possa almeno mantenersi indipendente come il Nepal “. Il vicino himalayano è il chiaro esempio di come con un mix di diplomazia, aiuti economici e minacce militari Pechino sia riuscito a conquistare un vecchio alleato di Nuova Delhi. Nel 2015, Kathmandu è entrato a far parte della BRI con la firma per la costruzione di una rete di trasporto trans-himalayana che gli ha dato l’accesso ai porti cinesi, rendendo superflui gli scali marittimi indiani. Ma la speranza di replicare la stessa strategia con Thimphu non tiene conto di un fattore fondamentale.
Secondo Christian Wagner del German Institute for International and Security Affairs, in Nepal il fascino dei capitali cinesi ha estremizzato un sentimento anti-indiano latente, che l’esperto attribuisce alla massiccia ingerenza di Delhi nella politica interna dagli anni ‘50 e durante tutta la guerra civile. Dalla fine della monarchia, la “carta cinese” è stata giocata a fasi alterne per diluire la dipendenza dall’India o per screditare la fazione politica rivale. Mentre durante gli ultimi scontri sino-indiani Kathmandu ridisegnava i confini nazionali con una nuova mappa, rosicchiando parte del territorio indiano (in risposta alla revoca dell’autonomia del Kashmir), l’opposizione politica nepalese accusava la Cina di aver cominciato a costruire oltre la propria frontiera.
L’attivismo americano sull’Himalaya
A complicare il quadro si aggiunge il rinnovato attivismo americano sul Tetto del Mondo. Nonostante “l’America First”, l’amministrazione Trump ha dato un’importanza senza precedenti al quadrante, inaugurando una nuova strategia dell’Indo-Pacifico che, come dice il nome, individua nel subcontinente il centro nevralgico del nuovo “pivot to Asia” in chiave anticinese. Per stessa ammissione dell’ex ambasciatore statunitense a New Delhi, negli ultimi mesi, Usa e India hanno agito “in stretta coordinazione” per rispondere “all’aggressione cinese lungo il confine”.
Washington non è nuovo agli intrighi himalayani. Pechino guarda con sospetto all’attivismo americano fin da quando negli anni ‘50 i servizi segreti a stelle e strisce supportarono la lotta armata del popolo tibetano contro l’occupazione cinese. Proprio di recente l’introduzione al Congresso di due nuove bozze di legge preannuncia un’ingerenza statunitense ancora maggiore nella gestione della questione tibetana, tanto in riferimento alla successione del Dalai Lama (esiliato in India) quanto alla diaspora tibetana in Nepal. Se la rivalità tra le due superpotenze dovesse trasformarsi in un’altra guerra fredda, “il Nepal potrebbe diventare il nuovo Afghanistan”, commenta ai microfoni del South China Morning Post Ashok Swain, ricercatore della Uppsala University.
E il Bhutan? La conclamata neutralità lo rende meno permeabile ai calcoli strategici di Washington. Come dicevamo, i due paesi non hanno relazioni ufficiali. Ma il ritorno di John Kerry – che nel 2015 è diventato il primo segretario di Stato a visitare Thimphu – potrebbe aprire la strada a nuove sinergie. Oltre alla gestione dei disastri e dei rifugiati di origini nepalesi, i settori in cui la collaborazione con Washington è più avanzata comprendono le politiche energetiche e la riforestazione. Con la nomina di Kerry a “Mr. Clima” non è escluso che l’amministrazione Biden riesca ad avviare una frequentazione più assidua con l’introverso Regno himalayano, da tempo in prima linea nella lotta alle emissioni. Un punto questo dove si intersecano i destini di Cina e India, tra i principali emettitori del mondo. Il “grande gioco himalayano” è soltanto all’inizio.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di marzo/aprile di eastwest.
Taiwan: “l’altra Cina” che fa innervosire Pechino
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Un bombardiere H-6 si alza in volo dalle desertiche province della Cina occidentale alla volta del Pacifico. Missione: colpire la base americana di Guam, uno degli avamposti con cui gli Stati Uniti tengono sotto controllo l’espansionismo cinese nell’oceano più esteso del mondo. È il video promozionale pubblicato dall’aeronautica militare cinese lo scorso settembre, all’apice di una nuova escalation tra Washington e Pechino. Tra tariffe incrociate, accuse di spionaggio e minacce di un decoupling tecnologico, negli ultimi mesi l’attenzione degli analisti si è spostata nelle acque agitate che separano le due sponde del Pacifico. Qui, a portata di missili cinesi, sorge l’isola di Taiwan, “l’altra Cina”, che la leadership comunista vuole riannettere ai propri territori da quando al termine della guerra civile (1927-1950) fu scelta come riparo “temporaneo” dal Governo nazionalista in fuga.
Gli Stati Uniti la resero un baluardo dell’anticomunismo al tempo della Guerra fredda e un anello fondamentale della “prima catena di isole”, dottrina formulata dall’analista John Foster Dulles che negli anni Cinquanta individuò nella cintura insulare dalle Curili – tra l’estremità nordorientale dell’isola giapponese di Hokkaidō e la penisola russa della Kamčatka – fino al Borneo un avamposto per circondare l’Unione Sovietica e la Cina. L’Andersen Air Force Base di Guam ha rappresentato un tassello fondamentale nella strategia difensiva di Washington nell’Asia-Pacifico e continua a esserlo di fronte alla crescente assertività di Pechino nella regione. Soprattutto nei confronti di Taipei, che la leadership comunista considera un Governo illegittimo e di cui gli stessi Stati Uniti ignorano ufficialmente la statualità tenendo fede al Trattato di San Francisco, l’accordo che alla fine della Seconda guerra mondiale sancì la rinuncia della sovranità giapponese sull’isola dopo cinquant’anni di dominazione senza tuttavia definirne chiaramente lo status internazionale.
Le incursioni cinesi
Negli ultimi mesi il gigante asiatico ha aumentato le sue incursioni nella zona di identificazione aerea di Taiwan (AIDZ) con voli quasi giornalieri di aerei spia e jet militari arrivando persino ad attraversare la linea mediana, la frontiera simbolica tra le due Cine rimasta inviolata per settant’anni. In risposta, Washington ha dispiegato i suoi bombardieri parcheggiati a Guam. Il rischio non è (ancora) quello di uno scoppio deliberato della guerra, ma nessuno può escludere che da un semplice incidente si venga alle armi. Accogliendo per la prima volta Trump a Pechino, nel 2017 il Presidente cinese Xi Jinping ha definito Taiwan “la questione più importante e delicata nelle relazioni tra Cina e Stati Uniti”.
Quella dell’ex Formosa è una piaga mai rimarginata tornata a dolere dopo la vittoria di Tsai Ing-wen alle presidenziali taiwanesi del 2016. L’ascesa della leader del filo-indipendentista Democratic Progressive Party ha coinciso con un raffreddamento dei rapporti tra le due sponde dello Stretto dopo otto anni di tregua sotto l’amministrazione filocinese del nazionalista Ma Ying-jeou. Sull’onda del “China-bashing” trumpiano, negli ultimi dodici mesi la vecchia alleanza tra Washington e Taipei ha tagliato traguardi storici in termini di rifornimenti bellici, scambi economici e rapporti diplomatici. L’eventualità che, in virtù del sostegno statunitense, Taipei decida di dichiarare l’indipendenza de iure agita il sonno dei leader comunisti.
Negli ultimi mesi di countdown verso le presidenziali americane oltre la Grande Muraglia si è riaffacciata con insistenza l’ipotesi di un’annessione manu militari. Diversi segnali suggeriscono un parziale ripensamento di Pechino davanti al pressing americano e alla scarsa persuasività della vecchia strategia pacifica a base di isolamento internazionale e corteggiamento economico. La perdita di sette alleati e l’offerta di una semi-autonomia in stile Hong Kong non hanno ammorbidito la posizione di Taipei. E il tempo stringe.
Il ritorno alla madrepatria “non può aspettare di generazione in generazione”, aveva sentenziato Xi nel 2013. In quello stesso anno prendeva forma il “sogno cinese”, concetto evocativo che sintetizza l’impegno della leadership comunista non solo ad assicurare benessere economico per la popolazione, ma anche a ripristinare lo standing internazionale dell’ex “malata d’Asia” dopo l’umiliazione subita nell’Ottocento per mano delle potenze imperialiste. Concludere definitivamente la guerra civile è strumentale al raggiungimento dell’agognata “rinascita nazionale”. Un obiettivo che passa per la difesa della sovranità territoriale e l’assoggettamento delle aree periferiche del paese ancora refrattarie all’autorità del governo centrale. Ma i fatti di Hong Kong e la sinizzazione forzata del Tibet e della regione islamica dello Xinjiang hanno reso la prospettiva di un’assimilazione politica anche più invisa alla popolazione taiwanese.
Guerra poco probabile
L’ipotesi di un intervento armato vedrebbe la Cina in netto vantaggio: non solo l’esercito cinese è meglio addestrato ed equipaggiato − la spesa militare del gigante asiatico supera di circa 25 volte quella di Taiwan. Nell’ultimo anno, l’arsenale cinese è stato arricchito da una prima nave d’assalto anfibia che, secondo la stampa nazionalista cinese, “ha come massima priorità una possibile operazione di riunificazione con la forza”. Dando per buone le previsioni più ottimistiche, l’offensiva cinese comincerebbe con un attacco cibernetico e la manomissione delle infrastrutture strategiche per poi annientare la leadership politica taiwanese con un’operazione aerea mirata contro il palazzo presidenziale. Le isole Kinmen, Pratas e Penghu, a pochi chilometri dalla terraferma, sarebbero le prime a cadere in mano cinese. Nella realtà dei fatti, l’impervia natura dell’isola e le capacità acquisite dall’esercito taiwanese per far fronte a un’ipotetica guerra asimmetrica renderebbero un’invasione cinese estremamente dispendiosa quanto a costi economici e perdite di vite umane. Opinione condivisa anche da alcuni falchi in divisa, tanto che, secondo l’ex maggiore generale Qiao Liang, Pechino farebbe meglio a risparmiare le risorse per “migliorare il tenore di vita della popolazione cinese”.
A scatenare o meno un intervento cinese sarà probabilmente la postura di Washington. Pechino mal tollera l’ingerenza americana nelle relazioni tra le due sponde dello Stretto. Mentre il ricambio ai vertici della Casa Bianca non frenerà il riavvicinamento a Taipei – che gode di appoggio bipartisan –, è sensato prevedere il ritorno a una politica più prudente e coerente dopo le capriole di Trump, amico-nemico della Cina a giorni alterni. In un editoriale pubblicato sul World Journal, vagheggiando la rottamazione delle vecchie alleanze asiatiche, il Presidente eletto Joe Biden ha preannunciato “un rafforzamento dei legami con Taiwan”, definita “leader della democrazia, un’economia importante, una potenza tecnologica e un esempio di società aperta in grado di gestire il Covid-19″. Ma non sembrano esserci segnali di un allontanamento dal principio cardine dell’”ambiguità strategica” che, in caso di un attacco contro Taiwan, solleva la controparte americana dagli obblighi difensivi contenuti nel Sino-American Mutual Defense Treaty, l’accordo interrotto nel 1980, un anno dopo la normalizzazione dei rapporti diplomatici con Pechino. Con un intervento statunitense per nulla scontato è improbabile che Taipei opti per provocare Pechino dichiarando formalmente l’indipendenza.
D’altronde, sulla terraferma l’ipotesi di una guerra è altrettanto poco auspicabile. Mentre Pechino minaccia periodicamente di impugnare la legge anti-secessione ratificata nel 2005 (ergo passare dalle parole alle armi), difficilmente la leadership cinese gradirebbe fronteggiare le ricadute di un inevitabile isolamento diplomatico in questo momento storico. Soprattutto in vista del preannunciato ritorno di Washington ai tavoli multilaterali. A ciò si aggiungono considerazioni di politica interna. Il biennio 2021-2022 vedrà succedersi a stretto giro il centenario e il 20° Congresso del partito comunista, che sancirà un parziale ricambio ai vertici della nomenklatura cinese. Un momento delicato non proprio adatto a spargimenti di sangue. Continuare a sperare che Taiwan accetti di diventare una seconda Hong Kong è illusorio, certo, ma ancora preferibile.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/febbraio di eastwest.