Giornalista de Il Manifesto e insegna giornalismo all’Università di Napoli Suor Orsola Benincasa.
Elezioni amministrative: l’autunno elettorale italiano
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Le fibrillazioni da semestre bianco di una maggioranza anomala, la partenza in surplace della corsa per il Quirinale e più di tutto l’infinita emergenza Covid hanno tenuto le elezioni amministrative di inizio ottobre sotto la soglia dell’attenzione. Eppure si tratta di un appuntamento di grande importanza, di un passaggio fondamentale non solo per decidere chi guiderà le prime quattro città italiane ma anche per definire gli equilibri politici nazionali. Equilibri mai così mutevoli come in questa legislatura che ha già visto tre governi e tre maggioranze diverse. E potrebbe non essere ancora finita, magari proprio in ragione di come andrà il voto (eccezionalmente) autunnale.
La volta precedente, cinque anni fa, fu proprio il successo dei grillini a Roma e Torino e in altre 17 città medio-piccole a segnare il cambio di fase, preludio all’esito delle politiche del 2018. Allora i principali quotidiani uscirono con lo stesso identico titolo di prima pagina, tre parole: “Trionfo 5 Stelle”. Ecco, questa volta si può star certi che non andrà così. Dunque proprio dal dissolvimento di quell’originale patrimonio 5 Stelle conviene partire. Prima però vediamo qualche numero per inquadrare la portata delle prossime elezioni.
Gli elettori chiamati alle urne il 3 e 4 ottobre (ballottaggio dopo due settimane) sono oltre 14,2 milioni, il che significa poco meno di un terzo del totale nazionale. È molto più che un test. Le urne si aprono per tre diversi tipi di elezioni. Ci sono le amministrative per rinnovare i consigli comunali ed eleggere i sindaci in 1.352 comuni distribuiti in tutte le venti regioni italiane (nell’unico comune della Valle d’Aosta si vota prima, il 19 e 20 settembre, mentre in 145 comuni della Sicilia e della Sardegna si vota dopo, il 10 e 11 ottobre). Ci sono poi, sempre il 3 e 4 ottobre, le elezioni regionali in Calabria e le elezioni suppletive per due seggi della camera dei deputati assegnati con l’uninominale nel collegio di Siena e di Roma-Primavalle. La gran parte del corpo elettorale (il 72,5%) è concentrato in cinque regioni: in ordine decrescente Lazio, Lombardia, Calabria (in ragione del voto per la regione), Campania e Piemonte. Le sfide più importanti sono quelle in venti comuni capoluogo, tra cui quattro tra i primi cinque (Roma, Milano, Napoli e Torino) e altri sei tra i primi trenta per popolazione (Bologna, Trieste, Ravenna, Rimini, Salerno e Latina). La situazione di partenza nei capoluoghi vede il centrodestra e il centrosinistra in perfetta parità: otto tra sindaci e sindache uscenti appartengono a coalizioni a guida Pd, otto a coalizioni variamente centrate su Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia, un sindaco (De Magistris a Napoli) a capo di una lista personale e tre sindache, Paola Massidda a Carbonia, Chiara Appendino a Torino e Virginia Raggi a Roma elette per i 5 Stelle. Di queste tre, solo l’ultima si ricandida e non ha tante speranze.
La situazione
I 5 Stelle sono in affanno ovunque. Giuseppe Conte, eletto senza avversari presidente del Movimento solo ad agosto, nel mese di settembre girerà il paese alla ricerca di un po’ di visibilità per i suoi candidati. Che ha faticato persino a reperire, al punto che in alcune città importanti i 5 Stelle hanno rinunciato a presentare le liste. E’ successo ad esempio a Caserta e a Benevento, in quella Campania che nel 2018 aveva consegnato ai grillini oltre il 50% dei consensi. Altrove, come a Milano, la candidata è arrivata all’ultimo minuto e solo per onore di firma. Nel capoluogo lombardo Conte ha voluto che corresse l’imprenditrice Layla Pavone, all’epoca consigliera d’amministrazione della Società editrice del Fatto quotidiano, malgrado un’assemblea di attivisti avesse indicato da tempo Elena Sironi. Il cambio in extremis non è servito a convincere il sindaco uscente Sala a stringere un accordo e così i 5 Stelle potranno solo accodarsi in un eventuale ballottaggio. Lo stesso accade a Torino, dove le primarie del Pd hanno selezionato il candidato più ostile ai 5 Stelle, Stefano Lorusso, che però ha discrete possibilità al ballottaggio. I contiani hanno così ripiegato su una candidata, Valentina Sganga, scelta da appena 339 militanti nelle “primarie” online, davvero pochi per una città che il Movimento ha guidato.
Situazione simile a Trieste, dove però il candidato Pd, Franco Russo, parte svantaggiato rispetto al sindaco uscente di centrodestra, Roberto Dipiazza: la candidata 5 Stelle Alessandra Richetti potrebbe entrare in gioco solo in appoggio, in un ballottaggio che forse non ci sarà. Dove invece 5 Stelle e centrosinistra hanno raggiunto un accordo per una candidatura comune, ed è accaduto tra le grandi città solo a Bologna e a Napoli, il candidato sindaco lo ha scelto il Pd e in entrambi i casi con buone possibilità di successo a prescindere dal poco traino che garantiranno le liste grilline. Vale sia per Matteo Lepore a Bologna che per Gaetano Manfredi a Napoli. E vale anche, saltando a elezioni diverse, per le regionali visto che in Calabria i 5 Stelle hanno deciso di appoggiare la ricercatrice indicata dal Pd Amalia Bruni. La sintesi interessante in chiave elezioni politiche è che la coalizione giallo-rossa, quella che ha tenuto Conte per un anno e mezzo a Palazzo Chigi, si ripropone a livello municipale ma con i 5 Stelle sempre in posizione di rincalzo.
Fa eccezione Roma, dove il rapporto del Pd con Virginia Raggi è di aperta ostilità. Nella capitale non ci sono né accordo né prospettiva di apparentamento, come a ricordare che l’alleanza giallo-rossa sarà forse strategica ma non è certo stabile. Pesano anche fattori personali, non è un mistero che Raggi non è la candidata che avrebbe voluto Conte così come Gualtieri non è la prima scelta di Letta che avrebbe puntato su Zingaretti. Ma intanto il segretario Pd – impegnato lui stesso in un turno suppletivo a Siena niente affatto scontato – può guardare con uno strano ottimismo alle amministrative. Il suo partito può persino sognare il bottino pieno e approfittare del momento di debolezza dei 5 Stelle per aumentare il peso specifico nella coalizione di centrosinistra. E tutto questo malgrado nei sondaggi nazionali il centrodestra resti saldamente in testa, anche oltre la maggioranza assoluta.
La stranezza si spiega in buona parte con la natura di elezioni politiche di medio termine che hanno tutte le amministrative e le prossime in particolare, essendo le coalizioni ben attente a pesarsi innanzitutto al loro interno. Così, Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia hanno finito per scegliere quasi ovunque candidati non competitivi. Persino a Roma, dove in teoria gli elettori di centrodestra dovrebbero banchettare sopra gli errori di Raggi e le incompiute del Pd, il tribuno radiofonico Michetti è riuscito a consumare il vantaggio, penalizzato dalla sfida per la leadership della destra che si gioca anche sopra la sua testa. A Salvini e Meloni interessa non perdere prima che vincere e così il primo ha scaricato sulla seconda la scelta romana e Meloni ha ricambiato la cortesia evidenziando che la candidatura di Bernardo a Milano l’ha voluta Salvini. Guerra sotto al tavolo anche a Napoli, dove Salvini e Berlusconi hanno prima spinto il “civico” Maresca, così da nascondere la debolezza dei loro partiti in città e fare un dispetto a Meloni. Poi, un minuto prima di consegnare i simboli, si sono inventati una lista nuova e comune, prova generale della sfida – fratricida – delle politiche. Altro che elezioni locali.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di settembre/ottobre di eastwest.
Il popolo di Giorgia
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“Io sono Giorgia” garantisce l’autobiografia, un libro che vale per lei più di una battaglia vinta. Ma “Giorgia chi è?” si chiedono gli osservatori stranieri da quando è arrivata la notizia che Brothers of Italy, le prime parole dell’inno nazionale, sono adesso anche il nome del (probabile) primo partito italiano. La stampa internazionale ci gira poco attorno, sono post-fascists come da presentazione del New York Times, tre anni e mezzo fa: “Sono gli eredi del partito nato dalle ceneri del fascismo di Mussolini”. La discendenza di Fratelli d’Italia dal Movimento sociale del resto è esibita e rivendicata nella fiamma a tre colori che ne costituisce il simbolo. Politico spiega che “il partito ha le sue radici nel Movimento sociale italiano costituito dagli alleati di Mussolini nel 1945, ma queste origini non sono state un ostacolo verso il potere. Gli eredi del fascismo sono entrati da tempo nel panorama politico mainstream avendo fatto parte dei governi di destra a partire dagli Anni ‘90”. Mentre secondo il Guardian il partito è solo adesso sul punto di fare il salto nel campo delle forze “accettabili” – “Italian post-fascists heading for the mainstream?” – e questo grazie alla capacità di Giorgia Meloni di polarizzare gli schieramenti lanciando “guerre culturali”. “Una versione xenofoba del cristianesimo, marce contro l’aborto e i matrimoni gay, l’allarme per l’islamizzazione, una retorica “Dio, patria e famiglia”, la richiesta del blocco navale” sono, secondo il quotidiano inglese, le ragioni del successo di Fratelli d’Italia.
Chi è Giorgia Meloni
Ma chi è l’artefice di questo successo, chi è Giorgia? Nel libro parla di sé in questo modo: “Se veniste a suonare alla mia porta senza preavviso rischiereste di trovarmi così: felpa con orsacchiotto di peluche, capelli tenuti alla rinfusa con un fermaglio e aspirapolvere in mano”. La presentazione dimessa non deve però ingannare. Certo, Giorgia Meloni ogni volta che può riesce a farsi forte della sua estrazione sociale popolare. Ha raccontato di aver fatto da babysitter alla figlia di Fiorello e ha aggiunto orgogliosa di aver lavorato come cameriera per aiutare la madre con le spese, approfittandone per attaccare “la sinistra snob” che per questo la guarderebbe dall’alto in basso. Ma Giorgia Meloni ha frequentato troppo Silvio Berlusconi per non sapere che un’immagine pubblica sciatta non conduce mai al successo e, infatti, per i suoi ritratti ufficiali sui social sta ben attenta a esaltare ordine, nettezza e pulizia. Pochi colori: sfondo azzurro, capelli biondi, camicia bianca (talvolta nera). Anche troppo attenta, visto che un paio di volte per i grandi manifesti elettorali ha esagerato con il fotoritocco al punto da essere quasi irriconoscibile. Ma anche in quelle occasioni è stata capace di girare la gaffe in suo favore, con una specie di auto ironia: “È ufficiale, il mondo mi considera una cozza”.
Dunque quell’immagine da casalinga disperata ha un preciso obiettivo tattico. Basta girare una pagina nel libro autobiografico ed ecco che la leader con la forcina e l’aspirapolvere può scagliarsi contro “quelli che discettano del popolo e delle sue disgrazie comodamente seduti nelle loro ville a Capalbio, sorseggiando champagne a piedi nudi, con lunghi vestiti bianchi di lino”. Non manca proprio niente, pazienza se i radical chic inquadrati in questo ritratto sono troppo caricaturali per essere veri. I nemici si devono riconoscere e Giorgia Meloni questo lo sa fare bene. Ha la capacità di costruire avversari anche quando non ci sono e sa raccontarsi sempre come chi si deve, con coraggio, difendere. L’ha visto fare con successo, almeno fino a quando proprio lei non ha iniziato a scavargli il terreno sotto ai piedi, da Salvini. E tutti e due hanno imparato a farlo – di nuovo – da chi il centrodestra italiano l’ha inventato, Silvio Berlusconi.
Per una che ha il mito di Leonida e vorrebbe che un libro sulla storia della Termopili diventasse materia di un corso scolastico sulla “educazione al coraggio” (lo è già, ma a West Point) è chiaro che essere accerchiata dai nemici è una grande opportunità (e, certo, molto onore). Meloni indica una lunga lista: da chi la insultava quando era una ragazzina a quelli che oggi l’accusano di familismo perché il capogruppo di Fratelli d’Italia Francesco Lollobrigida è il marito di Arianna Meloni, la sorella di Giorgia a sua volta collaboratrice del gruppo alla regione Lazio. Da quelli che le danno della bigotta perché “difendo la famiglia naturale”, anche se non è sposata, agli haters che l’attaccano su Twitter (dove però lei può scrivere che la Ministra dell’Interno è in preda alla “furia immigrazionista”). Dai “buonisti” alla immancabile “intellighenzia” alla cancel culture che adesso, lo sapevate, “sta minacciando la torta di mele”. L’importante è creare steccati, polarizzare. Funziona ovunque, in Italia di più. Un recente studio francese (fondapol.org, maggio 2021) ci informa che rispetto a Francia, Germania e Inghilterra il nostro è il Paese dove una percentuale maggiore della popolazione si definisce di destra (44% contro la media del 39%) o di sinistra (31% contro la media del 27%) e una minore di centro (13% contro la media del 20%). Siamo già i più “polarizzati”.
Il boom nei sondaggi
Per salire nei sondaggi fino ad arrivare al 20%, Fratelli d’Italia non ha avuto bisogno di moderare alcunché. Con il percorso inverso, quello della rinuncia ai simboli dell’identità post fascista, Alleanza nazionale è riuscita al massimo a sfiorare il 16%. Meloni offre adesso una versione assai poco convinta e tutta tattica della svolta di Gianfranco Fini. In sostanza, Fiuggi “era un modo per rendere più appetibili le nostre istanze”. La sua scalata politica, da leader degli studenti di destra a ministra della Repubblica in dodici anni, è avvenuta tutta all’interno del nuovo corso finiano. Meloni è stata sempre d’accordo con Fini, anche quando l’ex Presidente ha spinto il partito nella confluenza con Forza Italia in un unico movimento. La divisione tra i due è arrivata quando Fini ha rotto con Berlusconi e lei ha scelto invece di restare nel Popolo delle libertà. Almeno fino a quando il Cavaliere ha perso il Governo. Nel 2012, recuperata la fiamma, Meloni con Guido Crosetto e Ignazio La Russa ha lanciato la sua operazione nostalgia. Che tale è rimasta per diversi anni, fino alle ultime elezioni politiche del 2018. Anni durante i quali le liste di Fratelli d’Italia non sono andate oltre il 4% in ogni tipo di elezione, politiche, europee o regionali che fossero. Nelle urne l’exploit è recentissimo. La doppia cifra il partito di Meloni l’ha toccata solo a fine 2019 alle regionali in Umbria, per poi ripetersi pochi mesi dopo in Calabria, Liguria, Marche, Puglia e (quasi) in Emilia Romagna e Veneto.
Secondo il politologo Piero Ignazi, che ne ha scritto su Domani il 4 giugno scorso, il boom nei sondaggi si deve anche al fatto che “Giorgia Meloni continua a essere coccolata dalla grande stampa”. La rassegna della camera dei deputati restituisce dodici interviste a Meloni nei cinquanta giorni dal 1° maggio al 20 giugno scorso, di cui tre al Corriere della Sera, e dieci articoli di suo pugno (uno di nuovo sul Corriere). Nella comoda posizione di unica opposizione al Governo Draghi, Meloni copre con la sua immagine quella di un partito che in giro per l’Italia è ancora pieno di donne e uomini che cantano “Faccetta nera” alla radio, si fanno sorprendere su Zoom con i gagliardetti del ventennio, definiscono l’Associazione partigiani “una montagna di merda”, il 25 aprile vanno sulle tombe dei repubblichini, si chiamano tra loro “camerati”, organizzano cene per ricordare la marcia su Roma o direttamente Benito Mussolini (il cui pronipote è stato candidato al parlamento europeo). Identificato sulla scena nazionale e internazionale solo con la sua presidente (che è anche presidente dei Conservatori europei), oggi Fratelli d’Italia è il partito italiano più leaderistico che c’è, e questa leader è una donna. Il che per il nostro Paese è una novità certamente positiva, ma per lei – come per molti altri prima di lei – può diventare un limite. “La nostra crescita non dipende dall’opposizione – ha detto il cofondatore Crosetto a Libero il 3 giugno scorso – No, dipende solo da Giorgia Meloni e semmai questo potrebbe essere il problema”. Già. “Io sono Giorgia”, ma gli altri chi sono?
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di luglio/agosto di eastwest.