[LONDRA] Giornalista che scrive di Europa e affari internazionali. Vive a Londra, ha lavorato a Bruxelles e a Pechino.
Uk, Londra si prepara a reinventarsi
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Scintillante ed eccentrica, audace e battagliera, riservata e inafferrabile, ma soprattutto aperta. “London is open”, Londra è aperta, è lo slogan della campagna per promuovere la città voluta dal sindaco Sadiq Khan dopo che il Regno Unito ha votato per l’uscita dall’Unione europea. Un modo per dire che la capitale britannica rimane cosmopolita e allettante, nonostante la Brexit, le politiche anti-immigrazione del governo e ora anche le restrizioni dovute alla pandemia.
Nata dall’unione della City of London e di Westminster, a lungo centri del potere finanziario e politico mondiale, Londra sta vivendo un momento di ridefinizione, certo non il primo della sua storia. “Come le maree del Tamigi, le fortune di Londra vanno e vengono nel corso dei secoli,” scrive un rapporto del Centre for London, un think tank nato dieci anni fa per discutere il futuro della città.
Lungo il Tamigi si trova il cuore pulsante della metropoli, per secoli uno dei porti più importanti del mondo e centro globale di affari, commerci e cultura. Oggi sul fiume si affacciano appartamenti di lusso con un passato di moli e banchine, porticcioli con barche abitate e gli uffici della City e del Canary Wharf, le due principali aree cresciute in maniera verticale.
Ultima aggiunta allo skyline londinese è lo Shard, il grattacielo piramidale con la cima a forma di vele che l’architetto italiano Renzo Piano ha progettato ispirandosi agli alberi delle navi e alle guglie delle chiese cittadine.
Non lontano, Soho e il West End, il quartiere dei divertimenti che fino a prima della pandemia non dormiva mai. Anche qui bar, ristoranti e locali notturni hanno visto scorrere storie di vita per secoli. Solo nel 2018 i 38 teatri del quartiere hanno accolto oltre 15 milioni di spettatori. E poi Piccadilly, Regent Street e le vie dei commerci, i grandi parchi e i giardini privati di cui solo i residenti custodiscono le chiavi, le strade aristocratiche attorno ai palazzi reali a ovest e i vicoli degli ex quartieri industriali a est, ora alla moda grazie ad artisti, mercatini, ristoranti etnici e il recupero post-olimpico.
Londra cambia continuamente e si fa conoscere poco per volta. Molte delle sue relazioni si coltivano ancora in club privati, ma anche nei pub e in attività di svago o di volontariato. È anche così che fiorisce la vita di comunità, punto di riferimento in una città che nel 2018 contava circa 9 milioni di abitanti.
Dagli anni Novanta la popolazione della capitale ha continuato a crescere e si prevede che entro il 2050 raggiunga i 12 milioni grazie a un’offerta di occupazione senza pari in servizi professionali e finanziari, startup tecnologiche, istruzione e industrie creative, dice uno studio del Centre for London. Servizi efficienti, una rete di trasporto capillare, un sistema snello per la creazione d’impresa, l’attrazione dell’immobiliare e politiche fiscali favorevoli da decenni attraggono investimenti da tutto il mondo e l’ambiente multiculturale fa sì che tutti possano sentirsi in qualche modo a casa.
La storia personale del sindaco dice molto sulla città. Avvocato di origini pakistane, figlio di un autista di autobus, primo musulmano a diventare primo cittadino di una capitale europea (Rotterdam ha però preceduto Londra con Ahmed Aboutaleb), il laburista Sadiq Khan è l’esempio che Londra premia determinazione, fatica e talento.
Quella del sindaco per elezione diretta, in realtà, è una carica istituita nel 2000, assieme all’assemblea dell’area metropolitana, con cui forma la Greater London Authority. L’ufficio del sindaco garantisce la pianificazione strategica della città e governa trasporti, polizia, sviluppo economico e piani di emergenza in un’area che rappresenta il 14% della popolazione del Regno Unito e il 24% della sua economia.
Questa egemonia fa di Londra una capitale rispettata ma poco amata dal resto del Paese. Il voto sulla Brexit ne è anche il risultato, mentre cresce la pressione per limitarne il centralismo, e quindi anche le risorse.
Non tutto è oro quel che luccica
Eppure in città non tutto è oro quel che luccica. Il Centre for London nota che per molti lavoratori gli stipendi sono rimasti bassi mentre i prezzi delle case hanno continuato ad aumentare, le diseguaglianze sociali si sono ampliate (ci sono più persone in situazioni di povertà a Londra che in qualsiasi altra parte del Regno Unito), sicurezza, sanità e qualità dell’aria sono motivi di preoccupazione e la concorrenza di altre ‘città globali’ come New York, Parigi e Singapore avanza.
C’è poi la questione dei cambiamenti climatici. Nonostante gli stereotipi sul meteo, Londra è soggetta sia a inondazioni sia a siccità ed entro il 2050 potrebbe avere un deficit giornaliero di 520 milioni di litri d’acqua. Le paratie sul Tamigi, costruite a est di Greenwich, sono state finora in grado di regolare il livello del fiume e proteggere il centro cittadino, ma l’innalzamento dei mari rappresenta comunque un pericolo. Davanti a questa urgenza il comune ha adottato una serie di programmi per ridurre a zero le emissioni di diossido di carbonio entro il 2050.
Ora la pandemia ha forzato una riflessione profonda sul futuro della metropoli. Si stima che centinaia di migliaia di persone abbiano lasciato la città durante i lockdown: britannici in cerca di spazio, verde e una vita più economica, ed europei rientrati in patria dopo essersi trovati senza lavoro davanti all’ostilità della Brexit. Non si sa se e quanti ritorneranno.
Che cosa ne sarà allora dei quartieri di uffici ora che si può lavorare da casa? Quanti negozi e teatri sopravvivranno al Covid? Da dove arriverà lo staff di ristoranti e bar ora che i giovani europei devono chiedere un visto e avere un reddito garantito prima di potersi trasferire? Come riprendere le attività economiche senza ritornare ai livelli d’inquinamento del passato? E soprattutto, come garantire una città più equa e accessibile a tutti?
Sono questi alcuni dei temi su cui Londra s’interroga. Dopo la prima ondata di contagi da Covid-19, il sindaco Khan ha annunciato uno studio per capire i trend che influenzeranno l’economia e la cultura delle aree centrali.
Il London Recovery Board, il comitato municipale che guiderà la ripresa, punta su otto “missioni”: lotta ai cambiamenti climatici ed economia verde, costituzione di una rete di supporto per aiutare i cittadini a superare le difficoltà finanziarie, nuove destinazioni per edifici sottoutilizzati, occupazione di qualità, attività e mentoring per i giovani, salute mentale e benessere, cibo sano, connettività e competenze digitali per tutti.
Del futuro della capitale si sta occupando anche il Centre for London con London Futures, un progetto che mira a creare una visione condivisa della città per il 2050. Alla consultazione, i cui risultati saranno pubblicati in autunno, sono stati invitati londinesi, imprese, autorità pubbliche e organizzazioni della società civile.
“Per gli esperti le questioni principali sono la sostenibilità, le disuguaglianze e l’economia. I londinesi chiedono invece che gli eventi della pandemia non si ripetano, sicurezza per le strade, abitazioni economicamente accessibili – un tema ancor più sentito del cambiamento climatico – meno inquinamento, soluzioni per il problema dei senzatetto,” ha riportato Rob Whitehead, direttore dei progetti strategici dell’organizzazione.
“La pandemia ci ha costretti a scomporre l’identità di Londra. Abbiamo chiesto che cosa definisce la città ed è emerso che parte della sua essenza consiste nel lavorare in un ufficio e spostarsi con la metro. Ma con le persone che lavorano da casa ed evitano i trasporti pubblici, che cosa rimane?” dice Whitehead del progetto.
“La risposta è che Londra è relazione, i rapporti umani sono il motore della città. Le reti sociali sono alla base di commerci, industria, divertimento, e questo rimarrà anche se il lavoro ibrido diventerà la norma,” continua Whitehead. “Una volta capito questo concetto, potremo potenziarlo e farne la risposta per tutto il resto. Connessione e prendersi cura l’uno dell’altro potranno così essere la base della ripartenza.”
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di settembre/ottobre di eastwest.
Green pass: come funziona la card per riaprire le frontiere
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“Questo certificato non è un passaporto, non è un documento di viaggio e non è un requisito per poter viaggiare”, ha detto Alfredo González, segretario generale presso il servizio sanitario nazionale spagnolo.
E allora che cos’è il certificato verde digitale che la Commissione europea sta preparando per riaprire i viaggi in Europa? È un sistema che dovrebbe consentire di muoversi tra Stati a pari condizioni, per chi abbia fatto o no il vaccino contro il Covid-19, e per chi viva o sia solo ospite in un certo Paese. Ad esempio, se uno Stato europeo deciderà di accettare la prova di vaccinazione come alternativa a test o quarantene per poter viaggiare, dovrà accettare anche la prova di vaccinazione rilasciata da altri Paesi Ue.
“Con il certificato verde digitale, stiamo adottando un approccio europeo per garantire che i cittadini della Ue e i loro familiari possano viaggiare in sicurezza e con restrizioni minime quest’estate,” ha detto il Commissario per la giustizia, Didier Reynders, nel presentare la proposta.
L’idea del pass è stata spinta da Paesi mediterranei come Grecia e Spagna per salvare la stagione turistica, dopo un anno di costrizioni e chiusure decise per far fronte alla pandemia. L’obiettivo della Commissione, però, è anche di farne beneficiare lavoratori transfrontalieri e cittadini che vivono all’estero.
Come funziona il certificato verde digitale
Come funzionerà questo sistema? Tutte le persone che vivono nell’Unione europea, cosi come i visitatori che hanno il diritto alla libera circolazione, potranno chiedere il certificato. Secondo la proposta della Commissione, anche i cittadini Ue che vivono in Paesi terzi potranno farne richiesta se saranno in grado fornire alle autorità competenti prova di aver ricevuto uno dei vaccini autorizzati nell’Ue. Il certificato sarà rilasciato gratuitamente e in formato digitale, ma potrà anche essere richiesto in forma cartacea.
Il documento servirà a dimostrare che il titolare è stato vaccinato contro il Covid-19, o è stato contagiato ed è guarito, o è risultato negativo a un test NAAT/RT-PCR o a un test rapido antigenico. Il pass conterrà un codice QR che include informazioni come nome, data di nascita, Paese del titolare, codice d’identificazione unico e firma digitale dell’ospedale o dell’autorità sanitaria che l’ha emesso. Specificherà inoltre dati e risultati di vaccini e test.
La sua validità sarà determinata dalle informazioni scientifiche disponibili e sulla base di norme nazionali. Dovrebbe ad esempio durare 180 giorni per chi è guarito dalla malattia. Oltre ai Paesi Ue, il certificato verde digitale sarà aperto a Islanda, Liechtenstein, Norvegia, Svizzera e potrà essere rilasciato a cittadini o residenti di Andorra, Monaco, San Marino e Città del Vaticano.
Il programma è di collegarlo anche ad altre iniziative internazionali, ad esempio se sarà sviluppato un passaporto vaccinale dall’Organizzazione internazionale per l’aviazione civile (ICAO) per facilitare il trasporto aereo. La Commissione potrà inoltre dichiarare in linea con gli standard europei sistemi simili predisposti da paesi terzi, come Regno Unito ed Israele, e riconoscerli alle stesse condizioni dei certificati Ue.
La Commissione insiste sul fatto che il pass “non sarà un prerequisito per la libera circolazione né l’essere vaccinati sarà un prerequisito per viaggiare”. “Tutti i cittadini dell’Ue hanno il diritto fondamentale alla libera circolazione nell’Ue e questo vale indipendentemente dal fatto che siano vaccinati o meno”, ha detto in un comunicato.
Il pass ha ricevuto il benvenuto dal settore aereo e dall’industria del turismo. Ma sta anche sollevando diverse preoccupazioni. In una serie di dibattiti al Parlamento europeo, i deputati hanno espresso la preoccupazione che il certificato possa diventare la condizione per poter viaggiare in Europa, quando in pratica nemmeno i documenti d’identità sono più richiesti. L’eurodeputata socialdemocratica tedesca Birgit Sippel ha sottolineato che i certificati non devono reintrodurre controlli alle frontiere “dalla finestra” né “imporre condizioni per l’attraversamento dei confini nell’area Schengen”.
C’è inoltre il rischio di discriminazione. Un sondaggio dell’associazione europea dei consumatori Euroconsumers ha mostrato che benché il 59% delle persone consultate sia favorevole al pass, il 64% ritiene che i test per chi non è stato vaccinato debbano essere gratuiti, come i vaccini, per garantire un’effettiva uguaglianza di trattamento.
Liberties, un gruppo europeo per i diritti civili, teme che il certificato possa “aggravare le disuguaglianze esistenti” e “creare una società a due livelli” in cui alcune persone godono di ampie libertà mentre altre vengono deprivate dei loro diritti alla libera circolazione.
Facendosi paladina di questa causa, l’eurodeputata liberale olandese Sophie in ‘t Veld ha scritto alla Commissione europea chiedendo di rendere i test gratuiti e di stabilire un tetto per il loro prezzo, che può variare in modo significativo a seconda dei paesi raggiungendo in alcuni casi livelli “proibitivi”. I Governi dell’Ue, tuttavia, non sembrano appoggiare la proposta.
La questione della privacy
Un’altra questione riguarda la privacy dei titolari dei certificati, visto il trasferimento internazionale di dati sensibili legati alla salute delle persone.
In una riunione con i deputati europei, il Commissario Reynders ha spiegato che la Commissione creerà il gateway, la porta di collegamento che consentirà di verificare i certificati emessi in tutta l’Unione, ma non sarà creato nessun database centralizzato con i dati dei certificati. Anche gli stati membri che dovranno verificare i certificati non potranno conservarne i dati personali, ha detto il Commissario. Il Comitato europeo per la protezione dei dati, un organo indipendente composto dai rappresentanti delle rispettive autorità nazionali, ha inoltre chiesto garanzie sull’utilizzo dei dati da parte dei Paesi terzi che saranno collegati al sistema.
Ci sono infine questioni procedurali per l’urgenza con cui è stata trattata l’iniziativa. L’italiana Eleonora Evi, del gruppo dei Verdi, ha detto che questo approccio non ha consentito un “adeguato dibattito… per chiarire i punti critici sulla gestione dei dati personali, sulle incertezze scientifiche esistenti e recepire le richieste della società civile”, nonostante la decisione “andrà a impattare, direttamente o indirettamente, sulla vita di milioni di persone”. La procedura, tuttavia, procede rapidamente. La Commissione europea ha presentato la proposta legislativa a marzo e sia il Parlamento europeo che il Consiglio, che la devono approvare, ne hanno accettato un’approvazione accelerata in modo che i certificati siano pronti per l’estate.
Nel frattempo, i Paesi dell’Ue hanno iniziato a lanciare i rispettivi programmi nazionali. Islanda e Polonia stanno già emettendo ‘passaporti sanitari’. Svezia, Danimarca, Lituania ed Estonia stanno sviluppando i propri. Grecia e Spagna si preparano ad aprire le frontiere ai turisti che possano provare vaccinazione, test negativo o immunità da maggio e giugno, rispettivamente. Italia e Francia si stanno muovendo per istituire direttamente il certificato europeo. Tutti questi sistemi dovranno essere interoperabili affinché i certificati funzionino oltre confine. È questo in fondo l’obiettivo del regolamento europeo in discussione. La Commissione prevede che il sistema, e quindi il settore turistico, possa partire dalla metà di giugno.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di maggio/giugno di eastwest.
Identità digitale: una silenziosa rivoluzione
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Quella che si sta attuando in Europa è una rivoluzione silenziosa e invisibile perché avviene nei dedali del mondo virtuale. Ma avvicinerà come mai prima i cittadini dell’Unione europea alla pubblica amministrazione facilitandone anche l’accesso a servizi privati.
Almeno questo è l’intento di una proposta legislativa sull’identità digitale che la Commissione europea presenterà nella prima metà del 2021.
L’identità digitale (eID, per electronic identity) è un sistema di credenziali elettroniche e password che identifica un utente e gli consente di accedere in modo sicuro ai servizi online di diverse amministrazioni, invece di dover creare un profilo per ciascuna. Funziona come i codici che si utilizzano per fare operazioni in rete sul proprio conto bancario, ma può avere più livelli di sicurezza ed essere usata per più servizi.
In Italia il Servizio pubblico di Identità digitale (Spid) è salito di recente agli onori della cronaca perché richiesto a chi intende beneficiare degli incentivi per la ripresa post coronavirus, come il cashback. Ma molte amministrazioni già lo richiedevano per il pagamento di tributi, multe o per distribuire sussidi come il bonus diciottenni.
L’ambizione dell’Ue è che ogni cittadino possa avere – se lo desidera – un’identità digitale sicura. La rivoluzione sta nel fatto che questa identità digitale, rilasciata dal Paese d’origine, dovrebbe permettere di accedere ad amministrazioni pubbliche e servizi privati in tutti i Paesi dell’Unione, ad esempio per fare la dichiarazione dei redditi, iscriversi all’università, aprire un’impresa, effettuare pagamenti o partecipare a gare d’appalto. Ma anche per aprire un conto in banca, comprare un’assicurazione o accedere ai social media.
Cadrebbero così i confini che ancora separano gli utenti del mercato interno digitale. In realtà l’Unione europea è dotata di un regolamento sull’identità digitale già dal 2014. Il regolamento eIDAS è nato per garantire il riconoscimento oltre frontiera dei sistemi d’identità digitale che stavano emergendo nei vari Paesi, ma privi di interoperabilità e di una base giuridica comune. Questa situazione a lungo andare sarebbe diventata un ostacolo per lo sviluppo del mercato unico. Primo sistema di riconoscimento d’identità digitale a scala internazionale, il regolamento eIDAS è stato applicato in primo luogo a servizi fiduciari come firme e sigilli elettronici, certificazioni di posta elettronica e autenticazioni online, ora riconosciuti legalmente in tutta l’Ue.
Dal 2018 il riconoscimento delle eID tra i Paesi dell’Unione europea è diventato obbligatorio. L’Italia, con Germania, Estonia, Spagna, Croazia e Lussemburgo, ha fatto parte del primo gruppo di paesi che hanno consentito ad altri cittadini Ue di utilizzare le rispettive eID. E dal settembre 2019 l’identità digitale italiana SPID può anche essere utilizzata per i servizi offerti da altre amministrazioni nella Ue.
Nonostante i passi avanti, però, il riconoscimento transnazionale dell’identità digitale è ancora limitato. Secondo il rapporto della Commissione europea sui servizi di eGovernment (l’offerta di servizi digitali da parte della pubblica amministrazione), solo 15 dei 27 Stati Ue, corrispondenti al 58% della popolazione dell’Unione, offrono eID valide oltre confine. Il rapporto ha inoltre rivelato che solo il 9% dei servizi accessibili con una eID nazionale possono essere utilizzati anche da utenti di altri paesi. L’estensione della eID al settore privato è inoltre ancora carente. Di qui, la decisione di rivedere l’attuale normativa con la nuova proposta che sarà presentata l’anno prossimo.
“Dal completare la dichiarazione dei redditi all’apertura di conti bancari o alla domanda d’iscrizione per istruzione all’estero, il 78% dei servizi pubblici può ora essere effettuato online e semplificarci la vita. Questo deve essere accompagnato da un’identità digitale che funzioni ovunque in Europa proteggendo i dati degli utenti,” ha detto presentando il rapporto Margrethe Vestager, vice Presidente della Commissione europea responsabile per l’agenda digitale.
A dare un’ulteriore spinta al progetto è stata la pandemia di Covid-19, che ha costretto a casa la popolazione di interi paesi generando una domanda senza precedenti di servizi online. I dati sono evidenti: ai primi di marzo il sistema d’identità digitale Spid aveva 6 milioni di utenti, mentre a fine novembre il numero era salito a 13,4 milioni, secondo l’Agenzia per l’Italia digitale. La media settimanale delle identità rilasciate nei primi cinque mesi del 2020 è stata di circa 76 mila, mentre nel mese di novembre è stata di circa 274 mila. E se lo Spid è stato utilizzato oltre 55 milioni di volte nel 2019 per accedere a servizi in rete, la cifra ha superato i 34 milioni solo nel mese di novembre 2020.
Thierry Breton, Commissario Ue per il mercato interno, ha aggiunto: “Questa crisi ha mostrato quanto i cittadini facciano affidamento sui servizi pubblici online. Mentre sempre più governi seguono queste tendenze, dobbiamo andare oltre e lavorare per un’identità digitale europea sicura”.
Molte questioni però rimangono ancora aperte, in primo luogo la protezione dei dati personali. In risposta a una consultazione pubblica organizzata dalla Commissione prima della proposta legislativa, diverse organizzazioni hanno sollevato i problemi di sicurezza e privacy. Su questo si basa la fiducia di cittadini e imprese che decidono di aprire una eID.
L’autorità francese per la privacy, la CNIL (Commission nationale de l’informatique et des libertés), ha affermato che ogni entità in contatto con l’identità digitale di un individuo dovrebbe avere accesso solo alle informazioni personali di cui “ha strettamente bisogno” e le persone dovrebbero essere informate di come vengano elaborati i loro dati.
L’associazione dei notai olandesi (Royal Dutch Association of Civil-law Notaries) ha chiesto che l’identità digitale escluda in modo netto la possibilità di raccogliere dati personali per fini commerciali, onde evitare che le varie piattaforme digitali possano usare la eID per profilare gli utenti.
La società di telecomunicazioni tedesca Deutsche Telekom ha fatto anche notare che, per essere accettata, la eID dovrebbe essere “facile da configurare e da usare”. Questa, tuttavia, è una realtà ancora lontana, specie per persone con scarse competenze digitali.
Un sondaggio Eurobarometro effettuato a marzo, all’inizio della pandemia, ha mostrato che il 64% dei partecipanti considererebbe utile disporre di un’identità digitale sicura per tutti i servizi online, purché possano mantenere il controllo sull’uso dei propri dati. La stragrande maggioranza (74%) degli intervistati che utilizza i propri dati di accesso ai social media per collegarsi con altri servizi online desidera inoltre sapere come vengono utilizzate le proprie informazioni personali.
Il 59% degli intervistati sarebbe infine disposto a condividere in sicurezza alcuni dei propri dati pur di migliorare i servizi dell’amministrazione pubblica, in particolare per quando riguarda la ricerca e l’assistenza medica (42%), la risposta alla pandemia (31%) o i trasporti pubblici e la riduzione dell’inquinamento atmosferico (26%).
Con un’identità digitale riconosciuta su scala europea si aprirebbe poi un nuovo capitolo della partecipazione democratica, un’altra priorità di questa Commissione. Potrebbe infatti diventare più facile interagire con autorità pubbliche nazionali ed europee, partecipare alle decisioni e anche votare in altri Paesi, ad esempio per l’elezione del Parlamento europeo (evitando il doppio voto).
Ma per questo potrebbero essere necessari tempo e nuove competenze. Creare uno spazio unico anche per la cittadinanza virtuale sarebbe una vera rivoluzione che, com’è spesso accaduto per i grandi salti in avanti dell’integrazione europea, sembrerà cosa naturale e scontata tra un paio di decenni.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/febbraio di eastwest.
Artico: il diritto al freddo
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L’inizio di questo decennio sarà ricordato per molte ragioni, prima fra tutte la pandemia che ha messo a dura prova i sistemi sanitari ed economici di interi Paesi. Ma una serie di record sono stati infranti anche nel contesto dell’altra grande emergenza globale: il cambiamento climatico.
Il luogo in cui le tragiche conseguenze del surriscaldamento del pianeta si stanno manifestando in modo più evidente è l’Artico. Qui le temperature stanno aumentando più rapidamente che altrove, il ghiaccio si scioglie velocemente mentre gli incendi nella tundra dilagano. I primi a pagare per questo dramma ambientale sono i popoli indigeni, che già vedono mutare in modo irrimediabile il proprio stile di vita.
Il record delle temperature
Ma veniamo prima di tutto ai record. Nel maggio del 2020 la quantità di diossido di carbonio (CO2) presente nell’aria, la principale causa dei cambiamenti climatici, ha raggiunto una media di poco superiore a 417 parti per milione (ppm). Si tratta del valore mensile più alto mai registrato, e il dato è in continua crescita nonostante gli sforzi per rimanere sotto la soglia di sicurezza di 350 parti per milione.
Secondo il Gruppo Intergovernativo sul Cambiamento Climatico (Intergovernmental Panel on Climate Change, IPCC), il foro scientifico che informa le Nazioni Unite, le attività umane hanno già causato un aumento delle temperature medie di 1 grado Celsius rispetto al periodo che ha preceduto l’industrializzazione.
Nell’Artico, tuttavia, le temperature stanno aumentando a una velocità almeno due volte superiore alla media globale. Il 2020 è stato il secondo anno più caldo registrato nella regione dal 1900, dice un rapporto della National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA) statunitense. Le temperature superficiali medie del mare in agosto erano da 1 a 3 gradi centigradi più alte della media registrata nello stesso mese tra il 1982 e il 2010. Lo scioglimento dei ghiacci in estate è iniziato prima del solito e ha toccato minimi storici, mentre la formazione dei ghiacci in autunno è cominciata più tardi del previsto.
Dal ghiaccio alla neve alle attività umane, quasi tutto nell’Artico sta cambiando a una tale velocità che la regione potrebbe essere irriconoscibile fra trent’anni, dicono gli autori dello studio.
Le comunità etniche
Spesso si pensa all’Artico come un ambiente di mari gelati e distese di ghiaccio in cui la vita umana è pressoché impossibile. Ma al circolo polare vivono 4 milioni di persone, di cui 400.000 appartenenti a popolazioni indigene di 40 diversi gruppi etnici. Per loro, il cambiamento climatico rappresenta una radicale trasformazione di cultura, economia e società, e una vera minaccia alla sopravvivenza.
A queste popolazioni e alla loro storia, il British Museum di Londra ha dedicato una mostra, aperta il 22 ottobre 2020 e prevista fino al 21 febbraio 2021, ma disponibile solo online quando questo articolo viene scritto, a causa delle misure di controllo del coronavirus. https://www.britishmuseum.org/exhibitions/arctic-culture-and-climate
L’esposizione rivela come queste comunità abbiano potuto vivere nella regione per 30.000 anni, nonostante le condizioni impervie, grazie a una profonda conoscenza dell’ambiente naturale che le circonda e a una forte capacità di adattamento.
Ora però il costo causato dalle disfunzioni del sistema economico globale a una comunità relativamente piccola rischia di essere troppo alto. Gli scienziati prevedono che tra 80 anni l’Artico sia senza ghiacci, una trasformazione che sconvolgerà le comunità della regione e l’intero pianeta.
Cacciatori, pescatori e allevatori di renne: per le popolazioni indigene dell’Artico il rapporto con l’ambiente naturale è di interdipendenza e riguardo, la mostra rivela. Gli animali sono considerati esseri consapevoli che si concedono solo ai cacciatori che li rispettano. Allevatori e cacciatori pensano che se gli animali saranno trattati con dignità, le loro anime continueranno a rinascere e garantire sussistenza. Le loro pelli diventano abiti che proteggono e aiutano a sopravvivere nel freddo estremo.
Quanto al clima rigido, non è vissuto come un ostacolo ma come uno strumento di orientamento: il vento consente di prevedere quando viaggiare o cacciare, lo spessore del ghiaccio offre possibilità di trasporto. Ma con condizioni meteorologiche imprevedibili, viaggiare e cacciare diventano attività sempre più pericolose.
In un evento collegato alla mostra, Sheila Watt-Cloutier, pluripremiata attivista canadese rappresentante degli Inuit, uno dei popoli indigeni dell’Artico, ha sottolineato che il cambiamento climatico è una questione di diritti umani. “Non si tratta solo di una questione di orsi polari e ghiaccio”, Watt-Cloutier ha detto. “Si tratta dei nostri figli, di come cerchiamo di prepararli mantenendo il nostro modo speciale di insegnare le opportunità e le difficoltà della vita”.
Il diritto al freddo
Nel libro The right to be cold (Il diritto al freddo), Sheila Watt-Cloutier descrive l’impatto della trasformazione del clima sugli Inuit. L’erosione costiera e lo scioglimento del terreno perennemente ghiacciato – il permafrost – obbligano a spostare le abitazioni su suoli più stabili. L’arrivo di nuove specie, come gli insetti, viene recepita come un’invasione di entità estranee “di cui non si conoscono i nomi”. L’imprevedibilità delle condizioni climatiche diventa un ostacolo alla trasmissione delle conoscenze per “leggere le nuvole, il meteo e il ghiaccio” alle nuove generazioni.
C’è un valore culturale, emotivo e spirituale nello stile di vita delle popolazioni indigene dell’Artico, spiega Watt-Cloutier. La caccia serve alla formazione delle competenze e del carattere dei giovani, ad esempio. Quando si caccia si impara a valutare la situazione del momento, nell’attesa degli animali e del passaggio dei venti si impara la pazienza, nel far fronte alla pressione si impara ad essere coraggiosi e audaci, a misurare il rischio senza essere impulsivi, dice.
Eppure la mancanza di speranza per il futuro sta rendendo le comunità indigene dell’Artico particolarmente fragili. Tra queste popolazioni si registra il più alto tasso di suicidi del Nord America. Il dato, secondo Watt-Cloutier, è dovuto a “traumi storici” derivanti dall’“approccio coloniale con cui sono state avvicinate queste comunità”, ma anche ai rapidi cambiamenti causati dal riscaldamento globale e alla perdita di un “insegnamento olistico” per i bambini che passano alla scuola istituzionale.
La situazione è simile in Europa. Uno studio svolto in Svezia ha rivelato che circa la metà degli adulti Sami, comunità indigena di circa 80.000 persone nel nord della Scandinavia, soffre di depressione o problemi di salute mentale. Coloro che hanno pensato al suicidio sono il doppio in proporzione rispetto alla popolazione svedese.
Nell’area abitata dai Sami in Finlandia, la temperatura media è aumentata di 2,3 gradi centigradi dal periodo pre-industriale, ricorda il WWF.
L’impatto di questi cambiamenti è anche culturale. Nella lingua di questa popolazione almeno 360 parole indicano la neve. La parola ‘guohtun’, per esempio, descrive sia la neve che le condizioni nutrizionali per le renne, dice al WWF Klemetti Näkkäläjärvi, antropologo presso l’Università della Lapponia. Ma ora le condizioni di ‘guohtun’ non sono più prevedibili: la neve arriva più tardi, la quantità e la struttura variano e alcuni pastori hanno iniziato a dare cibo aggiuntivo alle renne perché possano sopravvivere. Più i mezzi di sussistenza cambiano, più la lingua Sami rischia di scomparire, spiega Näkkäläjärvi.
In una serie di testimonianze raccolte dal Consiglio Artico (Arctic Council), le comunità di pescatori Athabaskan dell’Alaska lamentano lo spostamento degli stock ittici e una crescente presenza in mare di plastica e rifiuti tossici provenienti da altre aree del pianeta.
Gli Aleuti, anch’essi dipendenti da caccia e pesca, hanno i loro insediamenti sulla rotta delle navi che potranno fare la mitica traversata tra l’Atlantico e il Pacifico tramite il passaggio a nord-ovest, per secoli inaccessibile a causa dei ghiacci ma presto navigabile grazie al loro scioglimento. Qui il villaggio di Adak, che conta appena 330 abitanti, potrebbe diventare un hub internazionale del trasporto marittimo. Il cambiamento climatico è “un altro assalto a una situazione molto vulnerabile”, dice Sheila Watt-Cloutier.
Le comunità indigene della regione, ricorda, sono in passato state coinvolte nel commercio delle pellicce, per poi essere abbandonate a se stesse quando il mercato è crollato. Gli Inuit hanno subito la rilocalizzazione forzata nelle aree dell’estremo nord decisa negli anni Cinquanta dal Governo canadese. Negli anni Ottanta sono state trovate nel fragile ecosistema dell’Artico sostanze tossiche usate in pesticidi e insetticidi prodotti e usati in altre parti del mondo, un’emergenza che nel 2001 ha portato all’adozione della Convenzione di Stoccolma sull’eliminazione degli inquinanti organici persistenti. Ora i cambiamenti climatici rappresentano un’altra enorme, forse fatale, minaccia. “Questi sono problemi enormi da affrontare per un piccolo numero di persone e in un breve lasso di tempo,” ha detto l’attivista.
Il ruolo del Circolo Artico
Dal 1996 il Consiglio Artico promuove la cooperazione dei Paesi affacciati sul Circolo polare (Russia, Stati Uniti, Canada, Danimarca, Norvegia, Svezia, Finlandia e Islanda) coinvolgendo le comunità indigene e altri abitanti della regione. Il Consiglio Artico tratta in particolare di questioni ambientali e sviluppo sostenibile. Ma gli interessi geopolitici nella regione vanno ben al di là di quelli delle popolazioni indigene.
Anche l’Europa cerca un ruolo in quest’area del pianeta e la Commissione europea aggiornerà nel 2021 la propria strategia per l’Artico. La proposta si concentrerà sulla lotta al cambiamento climatico, la protezione dell’ambiente e lo sviluppo sostenibile seguendo la traccia di una comunicazione del 2016. Ma in quell’occasione, nelle nove pagine dedicate allo sviluppo sostenibile, sono state delineate azioni su innovazione, investimenti, attività marittime e cooperazione internazionale, con appena due paragrafi riservati alle popolazioni indigene.
Eppure da questi popoli bisognerebbe imparare, dice Sheila Watt-Cloutier. Cosi come il pianeta, le comunità dell’Artico hanno subito traumi profondi che hanno portato a “comportamenti erratici”, come autolesionismo, violenza o dipendenza da sostanze.
Allo stesso modo la Terra è stata “traumatizzata” da uno sviluppo insostenibile che causa inquinamento e alterazioni climatiche all’origine di altri “comportamenti erratici”, come uragani, siccità e incendi. “Si tratta di reazioni perfettamente normali a situazioni anomale”, ha detto Watt-Cloutier. “Noi siamo la Terra e la Terra siamo noi. Se riusciremo a trattarla con rispetto e cortesia, potremo cambiare il corso degli eventi che si stanno verificando con il cambiamento climatico”, è il suo appello.
Le popolazioni dell’Artico hanno sotto tale aspetto “molto da offrire”, dice l’attivista. “La saggezza indigena è la medicina che il mondo sta cercando”, ha concluso.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/febbraio di eastwest.