[PESCIA, Toscana] Giornalista di InsideOver. Si occupa di vicende asiatiche. Tra i suoi libri, La rivoluzione ignota. Dentro la Corea del Nord (2019, La Vela) e Geopolitica dei vaccini (2021, La Vela).
Corea del Sud: l’era di Moon Jae-in finisce qui
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Questo articolo è stato pubblicato sul numero di marzo/aprile di eastwest.
Confermare la linea politica esistente, ovvero quella tracciata dall’attuale presidente progressista Moon Jae-in, oppure affidarsi a una scelta di rottura e restituire il Paese ai conservatori. La Corea del Sud si trova di fronte a un bivio politico delicatissimo. Le elezioni presidenziali sono imminenti, e tutto, adesso, è nelle mani dei cittadini, chiamati alle urne per scegliere il prossimo Presidente della Repubblica in un clima internazionale sempre più teso e in un contesto socio-economico interno scricchiolante.
Già, perché oltre il 38esimo parallelo la Corea del Nord è tornata a lanciare missili, la concorrenza economica con il Giappone, nell’ottica di conquistare preziose quote di mercato in Cina, è sempre più sfrenata e in patria aleggia un vento di forte sfiducia. A pesare sugli umori dei sudcoreani sono l’immoralità, il nepotismo e la corruzione di numerosi esponenti politici di spicco, mentre lo scenario è ulteriormente complicato dalle varie incertezze commesse proprio da Moon Jae-in, in primis non essere stato in grado di forgiare un delfino riconoscibile e capace di traghettare il partito verso una vittoria assicurata.
Lee Jae-myung, copia sbiadita di Moon e volto nuovo del Partito democratico, è apparso fin da subito troppo velleitario, soprattutto se paragonato al ruspante Yoon Seok-yeol, l’uomo del più grande partito di opposizione, il conservatore People Power Party. È vero che i sondaggi lasciano sempre il tempo che trovano, ma numeri e percentuali aiutano a prevedere quale potrebbe essere la tendenza degli elettori. Ebbene, lo scorso 24 gennaio i dati mostravano il signor Lee fermo al 36,8% delle preferenze, distaccato di oltre 5 punti da Yoon, in crescita al 42%. Alle loro spalle, con pochissime speranze di vittoria, troviamo due possibili outsider: il centrista Ahn Cheol-soo del People Party, terzo nei sondaggi con circa il 10% dei consensi, e la signora Sim Sang-jung del Justice Party, sinistra liberale, 2,5%. I media sudcoreani, non a caso, ripetono che queste sono “le elezioni generali più imprevedibili” ma anche – come vedremo − “le più sgradevoli” dalla democratizzazione della Corea del Sud a oggi. Il punto fondamentale è che sia Lee che Yoon non hanno dimostrato di avere una grande presa sull’elettorato, che molto probabilmente si ritroverà costretto a decidere il male minore più che il candidato ideale per guidare il Paese nella fase post pandemica. Difficile fornire una chiave di lettura diversa, visto e considerato che i due principali contendenti hanno passato gran parte del tempo a fare campagna elettorale gestendo molteplici controversie.
Chi è Yoon Seok-yeol
Yoon, un ex procuratore generale, ha mantenuto per mesi uno stretto vantaggio nei sondaggi d’opinione, sfruttando soprattutto la disillusione pubblica per i fallimenti politici del presidente Moon e il fatto di aver contribuito a far arrestare l’ex presidente Park Geun Hye; in un secondo momento l’intensificarsi dei conflitti interni al People Power Party ha vanificato il bottino acquisito, rimettendo in corsa gli alleati. In più, lo sfidante di Lee è stato travolto da uno scandalo che ha coinvolto sua moglie, Kim Keon-hee, che in una registrazione resa pubblica ha minacciato di voler perseguire tutti i media che hanno criticato suo marito, una volta che Yoon sarebbe divenuto presidente. Lee, avvocato in pensione, è stato governatore di Gyeonggi, la provincia più popolosa del Paese. Anche il suo entourage si è ritrovato a gestire scandali spinosi, come quello sul gioco d’azzardo illegale del figlio sollevato dal quotidiano Chosun, un presunto collegamento – smentito – a un caso di speculazione immobiliare avvenuto sotto la sua sorveglianza, le polemiche derivanti dall’aver sostenuto nelle vesti di avvocato difensore un nipote accusato di aver ucciso due donne – la ragazza e la di lei madre − nel lontano 2006, e, infine, le voci secondo cui avrebbe aggredito sua moglie, Kim Hye-gyeong, rompendole un osso e causandole un intervento chirurgico.
Al netto delle chiare divergenze biografiche e politiche, tra Yoon e Lee esistono numerose affinità che non riguardano soltanto gli scandali. Ad esempio, i due principali contendenti alla carica presidenziale, per la prima e fin qui unica volta nella storia coreana, non hanno esperienza legislativa nell’Assemblea nazionale, il parlamento monocamerale della Corea del Sud. Questo aspetto rispecchia appieno l’insoddisfazione dei sudcoreani, che hanno, in sostanza, rigettato l’establishment politico preferendo affidarsi a personaggi inediti situati al di fuori delle tradizionali sale del potere. Sia il candidato democratico che quello conservatore, inoltre, hanno mostrato di possedere una leadership politica affine a quella dell’”uomo forte populista”, in auge un po’ ovunque in questo XXI secolo. Ricordiamo che in Corea del Sud i progressisti considerano la generazione di conservatori che ha progettato la crescita economica come la vecchia élite, mentre i conservatori vedono la generazione di attivisti progressisti e pro-democrazia come la nuova élite. Ciascuno accusa quindi l’altro di rappresentare il male assoluto e veicola i propri messaggi politici quasi esclusivamente verso i propri sostenitori. In un’atmosfera così polarizzata, le qualifiche di ciascun candidato come leader politico passano in secondo piano.
Il contesto interno
I temi dell’agenda del futuro presidente della Corea del Sud sembrano però essere abbastanza evidenti. Oltre all’impellenza di far uscire definitivamente Seul dalla pandemia di Covid-19, il successore di Moon dovrà affrontare la crescente disuguaglianza e una crisi del costo della vita che ha quasi strangolato la decima economia più grande del mondo. Il problema più grosso si trova nel mercato immobiliare, dove il prezzo medio delle case nella grande area di Seul è raddoppiato negli ultimi cinque anni. Per quanto riguarda la disuguaglianza, Lee ha paventato l’idea di introdurre un reddito di base universale, progetti per alloggi di base e programmi finanziari pensati per le persone più bisognose. I conservatori di Yoon hanno invece altri piani, a cominciare dal sostegno alle politiche economiche liberali − le stesse che supportano i chaebol, e cioè i grandi conglomerati industriali che si spartiscono l’economia sudcoreana − per passare a posizioni conservatrici sulla sicurezza nazionale, Corea del Nord compresa.
A questo proposito, sarà interessante capire come verrà sfruttata l’eredità di Moon, fautore di uno storico disgelo con Pyongyang, dello stop alle esercitazioni militari congiunte con gli Stati Uniti e dell’abbandono graduale dell’industria dell’energia nucleare civile. In caso di vittoria, Lee potrebbe ripercorrere la stessa strada del predecessore, aggiungendo però più durezza nelle relazioni con il Nord. Il candidato progressista ha parlato di un piano di salvataggio di emergenza di 100 giorni che fornirebbe una pesante iniezione finanziaria per rivitalizzare l’economia sudcoreana colpita dalla pandemia. Yoon cambierebbe invece ogni carta in tavola, puntando su un revival del nucleare in campo energetico, sulla linea durissima nei confronti di Kim Jong-un e sulla revisione del rapporto con la Cina, considerata sì strategica ma in ambito economico. Alcuni dei più grandi critici di Yoon provengono però dall’interno del suo stesso partito, in particolare tra i sostenitori di Park, i quali lo considerano – come effettivamente è stato – uno dei protagonisti delle indagini che hanno portato alla sua caduta e all’ascesa di Moon. Il futuro Presidente della Corea del Sud, qualunque esso sia, immaginava senza dubbio di sfruttare al meglio l’eredità del suo predecessore. Che, al contrario di quanto si possa pensare, ha alternato luci (apertura alla Corea del Nord, lotta al Covid) e ombre (processo di pace con Pyongyang rimasto incompleto, poca lotta alla corruzione). È anche per questo motivo, dunque, che la campagna elettorale, serrata ma banale, partorirà un candidato che dovrà per forza di cose iniziare a immaginare un Paese diverso.
Corea del Nord, cosa ha in mente Kim Jong-un
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Nel 2011, in seguito alla morte di Kim Jong Il, c’era chi pensava che la dinastia dei Kim fosse giunta al capolinea, ormai incapace di trovare un degno erede al quale affidare le redini della Corea del Nord: un Paese abitato da 24 milioni di abitanti, formalmente ancora in guerra con Stati Uniti e Corea del Sud, dotato di armi nucleari e colpito da innumerevoli sanzioni economiche. Dal 2006, infatti, la Repubblica popolare democratica di Corea, questo il suo nome ufficiale, è economicamente isolata dalla comunità internazionale per impedirle di sviluppare sistemi d’arma non convenzionali e la proliferazione nucleare. Un bel grattacapo per Kim Jong-un, il prescelto, diventato Presidente della Corea del Nord pochi giorni dopo i funerali del padre. Dieci anni più tardi, e dopo innumerevoli test missilistici, il giovane Kim è ancora al suo posto. Con l’unico supporto della Cina, principale sponsor dell’isolatissima Corea del Nord, il “Grande Leader” è riuscito a trasformare una delle nazioni più isolate al mondo in uno dei più importanti attori geopolitici presenti sullo scacchiere globale.
L’esistenza stessa di Pyongyang, la capitale del Paese, si regge su un equilibrio sottile, salvaguardato in parte dall’arsenale nucleare interno e in parte dall’ombra di Pechino. Per il Partito comunista cinese è fondamentale che il regno di Kim resti in piedi, se non altro per poter contare su uno “Stato cuscinetto” capace di ammortizzare la pressione americana lungo i confini settentrionali, ed esercitata da Washington mediante gli alleati sudcoreani e giapponesi. La Cina sa però di correre un rischio calcolato, visto che Kim Jong-un risulta molto più intraprendente − e quindi meno controllabile – dei suoi predecessori. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, l’elezione alla Casa Bianca di Joe Biden, strenuo sostenitore dei diritti umani e, a differenza di Donald Trump, per niente incline al compromesso con i leader autoritari, ha sospeso definitivamente il bizzarro tentativo statunitense di addomesticare la Corea del Nord. Gli Usa, al momento, continuano a chiedere la denuclearizzazione della penisola coreana, dicendosi pronti a riprendere il dialogo diplomatico con Pyongyang. Ma una condizione del genere sarà sempre e comunque respinta da Kim Jong-un, terrorizzato che la sua Corea possa fare la fine di Libia e Siria
La strategia di Kim Jong-un
Se, dal punto di vista economico e sociale, la Corea del Nord di Kim non ha fatto progressi sostanziali, in chiave geopolitica Pyongyang ha ottenuto diversi punti a suo favore. La strategia del Grande Leader sembra avere tre obiettivi, due concreti e uno ideale. Il primo: evitare a qualunque costo il collasso del Paese. Il secondo: ottenere valuta estera per rafforzare gli armamenti ed effettuare test missilistici a ripetizione. Il terzo: tenere alto il morale dei cittadini spingendo sulla leva del nazionalismo, immaginando una improbabile riunificazione con la Corea del Sud.
Il giovane e moderno Kim – si pensava un paio di anni fa – avrebbe allentato la tensione sospendendo le attività nucleari e concentrandosi su nuove forme di cooperazione e apertura economica. La pandemia di Covid-19 ha tuttavia congelato ogni possibile scenario, vanificato i progressi diplomatici e spinto Kim Jong-un a cambiare registro. Dal 2020 in poi, infatti, il “regno eremita” è tornato ad essere impermeabile. Se possibile ancora più di prima, perché Pyongyang ha subito blindato a doppia mandata i propri confini, tanto in entrata quanto in uscita, per scongiurare l’ingresso nel Paese di Sars-CoV-2. Ancora oggi, le autorità continuano a ripetere che sul territorio nordcoreano non esistono casi di Covid-19, anche se si fatica a credere a questa versione, tanto per le fitte relazioni commerciali ufficiali intrattenute tra Pyongyang e Pechino – sospese solo a causa dell’emergenza sanitaria − quanto per i tanti scambi informali sommersi che hanno sempre caratterizzato i confini sino-coreani.
La Corea del Nord ha attuato provvedimenti anti Covid rigidissimi per un motivo molto semplice: il suo sistema sanitario non è in grado di fare i conti con una simile pandemia. Eppure Pyongyang non ha neppure avviato la campagna vaccinale, rifiutando prima i vaccini cinesi poi quelli concessi dall’Organizzazione mondiale della sanità, e spiegando di voler combattere l’epidemia “a modo suo”. Una perifrasi, forse, per sottolineare che sono sufficienti le politiche attuate dal Partito dei Lavoratori di Corea per stoppare l’allarme coronavirus.
Non bastasse la pandemia a rovinare i piani di Kim, la scorsa estate il Paese ha dovuto fare i conti con fenomeni atmosferici straordinari. Le ingenti piogge torrenziali e gli allagamenti hanno infatti provocato gravi danni all’agricoltura del Paese, contribuendo a generare una presunta carenza alimentare, accresciuta dall’isolamento auto indotto per il Covid.
Perché il rafforzamento dell’arsenale militare?
A corto di idee per placare una eventuale insoddisfazione del popolo, e impossibilitato a dialogare con Biden, Kim ha messo in campo due importanti cambiamenti. In politica estera ha rispolverato il vecchio asso nella manica del rafforzamento dell’arsenale militare, a conferma della volontà nordcoreana di esibire i suoi continui progressi in campo bellico. Il 15 settembre, la Corea del Nord ha testato un missile da crociera definito “strategico”, un termine impiegato per sottolineare la sua compatibilità con testate nucleari. Ma per quale motivo Kim ha ripreso a sparare missili nel bel mezzo di una pandemia globale? Possiamo fare alcune ipotesi. È possibile che il Governo nordcoreano voglia mandare un messaggio agli Stati Uniti sulla ripresa dei negoziati, visto che alcune indiscrezioni non confermate parlano di una Corea del Nord allo stremo per i motivi sopra citati.
Non è da escludere neppure una nuova alleanza nordcoreana con la Cina scaturita in seguito all’avvento di Aukus, il patto di sicurezza stipulato tra Stati Uniti, Australia e Regno Unito per arginare le mire di Pechino nell’Indo-Pacifico; se così fosse, gli ultimi lanci non sarebbero altro che pura spavalderia. Il secondo cambiamento riguarda invece la politica interna della Corea del Nord. Dopo la prima “scomparsa”, Kim Jong-un ha mostrato una leadership diversa. Il Presidente è stato spesso accompagnato agli eventi ufficiali dall’enigmatica sorella Kim Yo-jong, mentre nel vertice del sistema politico nordcoreano sono apparsi nuovi personaggi chiave, proprio come Jo Yong-won, 63 anni, fresco primo segretario del Partito dei Lavoratori di Corea e considerato il numero due del Paese.
L’avvento del Covid, i possibili problemi di salute del Presidente e le continue tensioni mai risolte con Washington, potrebbero aver spinto Kim a serrare i ranghi rilanciando il centralissimo ruolo dello Stato in campo economico (e non solo). Soprattutto per tenere saldo il timone del Paese, ritrovatosi improvvisamente nel bel mezzo di una tempesta internazionale e sanitaria senza precedenti. A questo proposito, è interessante chiedersi quale sarà il futuro della Corea del Nord. Nel caso in cui non dovesse esserci un’implosione interna, appare difficile immaginare sia un regime change imposto dall’esterno (troppo stringente il controllo interno) che la ripresa delle ostilità militari con Seul e Washington (troppo alto il rischio di scatenare la Terza guerra mondiale).
Considerando, poi, che Kim Jong-un non accetterà mai di smantellare il proprio arsenale nucleare, e a meno che tutto non resti in un equilibrio logorante, gli Stati Uniti potrebbero fare una mossa inedita. Poiché Pyongyang ha già ottenuto le armi atomiche che voleva, c’è chi plaude all’idea di accompagnare i nordcoreani nel “club dei Paesi nucleari”. Sembra una follia, ma riconoscere la Corea del Nord come potenza atomica potrebbe garantire a Kim Jong-un il riconoscimento d’immagine che andava cercando da tempo (e che, ricordiamolo, nessuno della sua famiglia ha mai conseguito) e, al tempo stesso, annullare l’ipotesi di pericolose escalation.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/febbraio di eastwest.