
[BUENOS AIRES] Giornalista e docente italo-argentino. Collabora con Limes, El Pais
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Questo articolo è pubblicato anche sul numero di maggio/giugno di eastwest.
L’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina ha creato condizioni inattese nella periferia del sistema internazionale. Nella maggior parte dei Paesi latinoamericani si è aperto il dibattito intorno alla creazione di nuove imposte per tassare i ricavi straordinari ottenuti dai comparti della produzione alimentare ed energetica grazie all’impennata dei prezzi di cereali e idrocarburi. Il Venezuela in particolare mira ad approfittare della congiuntura per migliorare la propria posizione internazionale di fronte alle potenze occidentali. E in parte ci sta riuscendo.
A inizio marzo una delegazione di alti funzionari Usa guidata da Juan González, Consigliere per l’America Latina della Casa Bianca, ha incontrato a Caracas i rappresentanti del Governo di Nicolás Maduro per discutere un allentamento delle sanzioni che pesano sull’export del petrolio venezuelano dal 2019. I contenuti di quella riunione non sono stati rivelati, ma alcune mosse fatte in seguito permettono di interpretarne l’indirizzo: il governo venezuelano ha rilasciato, pochi giorni dopo l’incontro, due dei cinque direttori statunitensi della Citgo Petroleum Corporation arrestati nel 2017 per frode ai danni della statale Petróleos de Venezuela (Pdvsa). In California, intanto, la multinazionale petrolifera Chevron Corp ha creato un gruppo di esperti per negoziare col Tesoro a Washington la riattivazione delle proprie attività nelle quattro joint venture che condivide con la Pdvsa. Prima delle sanzioni imposte dalla Casa Bianca, il tandem venezuelano-statunitense produceva circa 200.000 barili di petrolio al giorno, oggi ridotti a poco più della metà. Le conversazioni includerebbero anche la cessione a Chevron del controllo di diversi settori della produzione da parte delle autorità di Caracas, oltre alle autorizzazioni oil-for-debit per aziende internazionali che mantengono debiti con gli Usa dovuti alla sospensione delle proprie attività in Venezuela, tra cui la spagnola Repsol e l’italiana Eni SpA.
A prima vista, l’equazione sembra semplice: dopo aver sospeso le importazioni di greggio dalla Russia a causa della guerra, l’amministrazione Biden sarebbe disposta a mettere in soffitta le accuse di violazione ai diritti umani contro Caracas pur di sostituire il petrolio russo con quello venezuelano. Eppure la questione è molto più complessa. In parte perché le importazioni di petrolio dalla Russia rappresentano una minima parte del fabbisogno statunitense, che ben potrebbe essere rimpiazzato per altre vie. E poi perché il Venezuela tarderebbe anni a raggiungere una produzione sufficiente a sopperire le necessità del mercato Usa. Secondo le più rosee previsioni, una cancellazione delle sanzioni sul petrolio permetterebbe al Venezuela di produrre circa 1,5 milioni di barili al giorno a fine 2023, appena sufficienti a ridurre l’impatto della carenza energetica sul prezzo della benzina nei distributori degli Usa. Il tracollo dell’industria petrolifera venezuelana è infatti gigante. Nel 2016 il Venezuela produceva circa 2,3 milioni di barili di petrolio al giorno. Nel marzo del 2022 la media era di 755.000. Il Paese con le più grandi riserve al mondo di greggio ha dovuto importare petrolio dall’Iran nel 2019 per far fronte alla crisi. Senza la collaborazione tecnica delle imprese straniere dunque, l’oro nero venezuelano resterà sottoterra.
Le ragioni di un possibile disgelo nelle relazioni tra Washington e Caracas bisogna dunque cercarle nelle proiezioni dell’emisfero a medio e lungo termine. E in questo ambito, il Governo di Maduro sta cercando di mostrare un volto più tollerabile per la Casa Bianca. A partire dal 2019 si assiste a una dollarizzazione de facto dell’economia locale: il 70% delle transazioni commerciali avvengono in valuta statunitense col beneplacito delle autorità locali. L’inflazione annua è piombata così dal 2.295.981% del 2017 al 250% previsto per il 2022. Il Governo ha progressivamente liberalizzato l’importazione in alcuni comparti dell’economia, ha stipulato nuovi contratti con attori privati e incentivato la nascita di una nuova élite economica, meno legata all’opposizione conservatrice tradizionale.
Anche sul piano politico il chavismo ha fatto concessioni tese a migliorare il proprio posizionamento internazionale: ha avviato un tavolo di negoziazioni con l’opposizione in Messico con la mediazione del Governo norvegese; ha richiesto l’invio di una Missione di Osservazione Elettorale dell’Unione europea durante le elezioni legislative del 2021, le prime con la partecipazione della maggioranza dell’opposizione in anni; e ha recentemente riaperto l’ufficio della Corte penale internazionale a Caracas, tribunale che ha tra le mani diverse denunce per violazione dei diritti umani contro le autorità venezuelane. Rappresentanti venezuelani hanno incontrato a marzo anche l’Alto rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, e si sono mostrati disposti al dialogo per la revisione delle sanzioni che Bruxelles ha imposto dal 2019.
E poi, il contesto regionale è certamente cambiato. Il Gruppo di Lima, che dal 2017 riuniva i Governi conservatori del continente in chiave anti-venezuelana si è praticamente sciolto, e i falchi che chiedevano la cacciata di Maduro come condizione per ristabilire le relazioni col Venezuela oggi sono sempre meno. A metà aprile un messaggio importante è arrivato da Buenos Aires: il Presidente argentino Alberto Fernandez, che detiene la presidenza temporale della Comunità di Stati Latinoamericani e dei Caraibi (Celac), ha lanciato assieme al Presidente ecuadoriano Guillermo Lasso l’appello per integrare nuovamente Caracas a pieno nella diplomazia latinoamericana.
In questo contesto, l’invasione russa in Ucraina apre nuove possibilità per il Venezuela. Difficile ancora parlare di un vero e proprio disgelo con la Casa Bianca. Gli ostacoli per un accordo sono molti. Washington pretende la celebrazione di elezioni trasparenti nel breve termine per allentare le sanzioni mentre Caracas vuole la sospensione immediata delle restrizioni imposte alla propria economia. E poi c’è il fattore russo. Dallo stabilimento dell’Alleanza Strategica siglata dall’ex Presidente Hugo Chavez e Vladimir Putin nel 2005, il Cremlino si è trasformato in uno dei principali sostenitori del Governo venezuelano. Fino al 2010 è stato il principale rifornitore di materiale militare di Caracas, superato poi dalla Cina. In Venezuela è attivo il sistema antiaereo S-300, che oltre all’uso di munizioni di fabbricazione russa prevede la presenza di personale militare russo in territorio venezuelano per il mantenimento e addestramento degli addetti locali. Fare pressione sul principale alleato del Cremlino nell’emisfero – disposto comunque a lasciarsi tentare – potrebbe portare qualche risultato a favore di Washington nel futuro.
Sta di fatto che la Casa Bianca sembrerebbe aver compreso che la linea dura nei confronti di Maduro non porta da nessuna parte, ed evidentemente vorrebbe evitare il protrarsi della tensione a lungo termine nel “giardino di casa”, come nel caso cubano. La differenza tra la gestione Trump e quella di Biden è che oggi è ormai chiaro a chiunque che qualsiasi cambiamento in Venezuela deve includere il chavismo come un attore politico di peso. L’intransigenza di Juan Guaidó, riconosciuto in passato come legittimo presidente sia da Trump sia da Biden, e delle comunità di espatriati in Florida non hanno più lo stesso effetto sugli interessi della Casa Bianca, per il semplice fatto che questi si sono dimostrati inconcludenti ed inaffidabili. Le pressioni per la sospensione delle sanzioni sul comparto petrolifero venezuelano oggi giungono anche dai settori impresari del Paese sudamericano, dalle multinazionali del settore, e la sospensione ha ormai il beneplacito di dirigenti politici democratici e repubblicani.
Per il Venezuela il principale obiettivo è rompere l’isolamento a cui è condannato da quasi 5 anni. Mantenere, anche solo dal punto di vista della retorica, il proprio allineamento a favore della Russia non sembra bastare per frenare il lento cammino verso la normalizzazione delle relazioni con il resto del sistema internazionale. Processo ormai visto come una necessità anche fuori dal Venezuela.
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Nel 2011, in uno dei momenti più algidi delle proteste degli universitari cileni contro il modello privato di educazione superiore, il Presidente Sebastián Piñera, allora al suo primo mandato, si rifiutò di ricevere i leader del movimento studentesco. Dieci anni più tardi Piñera è costretto ad accogliere al Palacio de la Moneda uno di quei dirigenti rigettati perché considerati violenti e sovversivi, come Presidente eletto. Gabriel Boric sarà, a partire dall’11 marzo, il Presidente più giovane della storia del Cile, e anche quello più votato, dopo aver battuto per più di 11 punti il candidato dell’estrema destra José Antonio Kast al ballottaggio di domenica. Il Boric del 2021 è il rappresentante di un movimento a cui lo stesso Piñera, in un’ennesima dimostrazione della miopia dell’élite conservatrice cilena, aveva apertamente “dichiarato la guerra” verso la fine del 2019, quando le piazze di Santiago straripavano di giovani che chiedevano la fine del modello sociale ed economico impiantato dalla dittatura di Augusto Pinochet, e sostenuto dai Governi democratici eletti a partire dal 1990.
Il programma del nuovo Presidente è infatti diametralmente opposto ai cardini del sistema attuale cileno: aumento delle imposte fino all’8% del Pil, riforma del sistema pensionistico oggi totalmente privatizzato, legalizzazione dell’aborto, maggior partecipazione di donne e popoli indigeni nelle istituzioni di Governo, aumento del salario minimo, riduzione della giornata di lavoro e gratuità dei sistemi di salute e sanità. Un programma ambizioso, tenendo in conto che Apruebo Dignidad, la coalizione di Partito comunista e Frente Amplio che sostiene Boric, avrà solo 37 deputati su 155, e che in un congresso fortemente polarizzato il Governo faticherà molto per approvare riforme radicali. In parte questo problema ha segnato la campagna di Boric al secondo turno. L’ex leader delle manifestazioni studentesche ha moderato di molto il proprio discorso, cercando di captare il voto di centro e promettendo un Governo di compromessi con tutti i settori della politica.
Il Cile è uno dei Paesi coi migliori indicatori di uguaglianza economica dell’America Latina, in cui però le fasce medie non possono accedere a servizi basici come salute, educazione, o addirittura l’acqua, senza indebitarsi vita natural durante. È questa la pesantissima eredità lasciata dagli alunni cileni di Milton Friedman, approdati alle più alte cariche dello Stato cileno grazie al sanguinoso golpe portato avanti da Pinochet nel 1973, primo fra tutti José Piñera, fratello dell’attuale presidente e ministro dell’economia durante la dittatura. I “Chicago Boys” del guru di Capitalismo e Libertà hanno impostato un sistema profondamente liberista, blindato dalla Costituzione del 1980, che gira intorno all’idea di sussidiarietà dello Stato: la gestione della vita economica delle persone deve essere integralmente consegnata in mano ai privati e i poteri pubblici intervengono solo se questi non possono garantire le prestazioni pattuite.
La vittoria di Gabriel Boric, che aveva solo quattro anni quando Pinochet abbandonò il potere, rappresenta l’ennesimo colpo a questo modello spesso osannato dalle élite latinoamericane e occidentali, ma che la maggior parte dei cileni considera evidentemente esaurito. La retorica della realizzazione personale a partire dallo sforzo individuale si scontra in Cile con una realtà di privilegi ormai insostenibili. Secondo il Peterson Institute for International Economics, il 67% dei multimilionari in Cile deve la propria ricchezza all’eredità famigliare, il 17% alle proprie connessioni col mondo della politica e solo il 16% ha generato la propria fortuna a partire da investimenti produttivi o finanziari. Ed è questo il Cile che la generazione del nuovo Presidente conosce.
Un Governo di sinistra e una chiara egemonia delle diverse espressioni della sinistra cilena anche nella Convenzione Costituente, insediatasi a luglio, potrebbero essere la garanzia di una svolta storica per il Paese. La sinergia tra Governo e costituenti, sorti entrambi dai movimenti che hanno animato le proteste del 2019, sarà uno dei punti forza del nuovo esecutivo, il quale però dovrà fare i conti con pressioni domestiche ed esterne considerevoli affinché le riforme non modifichino l’assetto macroeconomico del Paese.
Il Cile è il principale produttore di rame del mondo. È il secondo alleato di Washington in America Latina dopo la Colombia. Vanta una proiezione naturale verso il commercio con l’Asia sul Pacifico e verso i territori antartici. È il Paese col maggior numero di trattati di libero scambio della regione e il primo sudamericano a entrare nell’Osce. Negli ultimi quarant’anni il Cile – così come il Messico a partire dagli anni ’80 – si è chiaramente differenziato dal resto dei Paesi latinoamericani che hanno cercato nell’integrazione regionale uno strumento per il proprio inserimento economico e politico nel sistema internazionale. Il Cile ha privilegiato gli accorti bilaterali con le principali potenze del mondo occidentale e il rendiconto garantito dai patti commerciali al di sopra dei legami di solidarietà coi propri vicini. Eppure, anche i capisaldi della politica estera cilena sembrerebbero esser messi in discussione dopo il risultato di domenica.
Il senatore Juan Ignacio Latorre, principale consulente in politica estera del nuovo Presidente, ha chiarito le principali linee guida della visione internazionale del nuovo Governo: nessun allineamento con l’asse bolivariano (Venezuela e Nicaragua in primis, da cui Boric ha già preso le distanze in campagna elettorale), equidistanza e autonomia nella relazione con Usa e Cina (divenuto il principale partner commerciale di Santiago) e ricerca di spazi di consenso e integrazione coi soci latinoamericani, specialmente coi Governi progressisti.
Il primo viaggio all’estero di Boric, secondo quanto trapelato finora, sarà Buenos Aires, con cui le tensioni per la sovranità del mare antartico sono scalate negli ultimi mesi, e parte del repertorio della campagna della destra di Kast. Il primo grande gesto verso la regione del nuovo Governo poi, oltre all’affermazione dell’asse con Buenos Aires, potrebbe essere la ratifica del Trattato di Escazú, primo accordo vincolante sull’ambiente in America Latina, proposto dal Cile di Bachelet e rifiutato in toto dal Governo Piñera. Dunque, un allontanamento dal cammino intrapreso finora, ma non una chiara rottura.
Quello di Boric è l’ennesimo trionfo della sinistra latinoamericana negli ultimi due anni, dopo quelli di López Obrador in Messico, Fernández in Argentina, Arce in Bolivia, Castillo in Perù e Xiomara Castro in Honduras. E c’è già chi lancia previsioni rosee per il progressismo latinoamericano viste le chiare possibilità di vittoria di Gustavo Petro in Colombia e Lula da Silva in Brasile nel 2022. Le condizioni attuali però sono molto diverse da quelle della “marea rosa” del decennio 2005-2015 in cui la stragrande maggioranza del continente era governata da movimenti appartenenti al Foro de São Paulo.
Le iniziative più innovatrici di quell’epoca (l’Unasur, la Banca del Sur o Petrocaribe) sono fallite miseramente appena è cambiato il vento a favore dei prezzi internazionali delle materie prime. I vizi del regionalismo latinoamericano, come l’estremo presidenzialismo, la subordinazione delle relazioni diplomatiche alle simpatie politiche dei Presidenti, o la sovrapposizione di organismi diversi con i medesimi compiti, rallentano ancora oggi i tiepidi processi di integrazione. L’estrazione politica dei movimenti al Governo oggi nei diversi Paesi latinoamericani, poi, è molto diversa e spesso slegata dall’andamento delle problematiche regionali. Molti dei Presidenti di sinistra sono duramente contestati in patria (da Fernández a Castillo, per non parlare del Nicaragua di Ortega) e hanno dimostrato scarsissima capacità di attrazione a livello latinoamericano.
Sebbene dunque sia molto presto per parlare di una nuova ondata progressista latinoamericana, l’arrivo di Boric al potere modifica chiaramente l’assetto del continente a favore di Governi che propongono politiche fiscali espansive, l’ampliamento del welfare, una nuova agenda verde e il sostegno alle rivendicazioni dei movimenti femministi.
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La decisione della Commissione europea di porre un freno all’importazione di prodotti provenienti da zone sospette di disboscamento ha provocato durissime reazioni in Brasile. Si tratta di un chiaro rafforzamento della politica ambientale dell’Unione, in linea col Green Deal europeo lanciato da Junker nel 2019 e le prerogative presenti nella Next Generation EU, ma che tende anche a cercare di riparare un danno di cui Bruxelles deve certo occuparsi: secondo il WWF, l’Ue è responsabile del 16% della deforestazione mondiale legata al commercio internazionale. Se approvato come previsto, il nuovo regolamento imporrebbe agli importatori europei di presentare una certificazione di “disboscamento zero” all’ingresso di materie prime generalmente associate al degrado forestale nel mondo. I prodotti sono proprio quelli più sensibili per il paniere commerciale brasiliano: soia, manzo, olio di palma, legno, cacao e caffè.
In un’intervista rilasciata al Financial Times, il Ministro degli Esteri brasiliano Carlos Alberto Franco França ha definito “miopi” e “protezioniste” le misure in discussione nel seno dell’Ue. “Quello che non possiamo accettare è che si usi l’ambiente per applicare forme di protezionismo commerciale. É un male per i consumatori e per i flussi commerciali. Penso che ci sia una certa miopia da parte dell’Ue”, ha sostenuto. Il coro di proteste levatosi a Brasilia è unanime. La misura è “inaccettabile e inammissibile”, secondo il Ministro dell’Ambiente, Joaquim Leite, nominato quest’anno per sostituire Ricardo Salles, indagato per contrabbando illegale di legno proveniente dall’Amazzonia.
“Protezionismo climatico” è invece la definizione usata dalla Ministra dell’Agricoltura, Tereza Cristina, soprannominata anni fa “la musa del veleno” per la sua crociata a favore dell’uso dei pesticidi industriali nel Paese. La reazione più dura però è stata quella dell’Associazione Brasiliana dei Produttori di Soia (Aprosoja), che in un comunicato ufficiale ha definito la misura dell’Ue come un affronto alla sovranità nazionale: “L’Europa non è più la padrona del mondo e il Brasile non è più una colonia”, avverte la potentissima confederazione agricola.
Per il Brasile in effetti un divieto simile potrebbe significare un duro colpo all’economia, già duramente provata dagli effetti della pandemia al commercio internazionale. O’Globo stima che le perdite potrebbero addirittura arrivare alla metà dei 47 miliardi di dollari annui derivati dalle esportazioni di materie prime dal Paese, se sommate alle ulteriori limitazioni introdotte a causa delle misure sanitarie durante gli ultimi mesi. L’Ue è il secondo partner commerciale del Paese dopo la Cina con più di 24 milioni di euro annui in esportazione di materie prime. L’apparente risolutezza con cui l’Ue ha deciso di subordinare la propria politica economica all’approvazione di riforme all’impianto dell’agrobusiness brasiliano è un duro colpo per il Governo Bolsonaro e approfondisce il distacco del gigante sudamericano dall’Europa, già evidente durante la crisi degli incendi nella foresta amazzonica del 2019.
In quel frangente fu il Presidente francese Emmanuel Macron a erigersi a portavoce dell’indignazione internazionale per la distruzione del cosiddetto “polmone verde del mondo”. Un ruolo dovuto non solo al fatto di considerarsi il portavoce dell’Accordo di Parigi, ma anche all’interesse diretto rappresentato dai 730 chilometri di frontiera che la Francia condivide col Brasile proprio nella zona amazzonica della Guayana Francese. E non a caso il principale rivale di Bolsonaro alle elezioni del prossimo ottobre, l’ex Presidente Luiz Inácio Lula da Silva, ha scelto proprio Parigi (e proprio Macron) per dare uno slancio internazionale alla propria campagna per il ritorno al Palácio do Planalto.
La Francia, insieme ad Austria e Irlanda, guida anche la cordata di Paesi europei che nel 2019 hanno imposto un veto all’implementazione dell’accordo di libero scambio tra Ue e Mercosur, negoziato per più di vent’anni e presentato come un trionfo diplomatico da parte dell’amministrazione Bolsonaro. La controparte europea teme proprio che l’azzeramento dei dazi all’ingresso delle merci sudamericane fungano da incentivo per il disboscamento e la distruzione ambientale, specialmente in Brasile. Il ritorno alle alleanze internazionali tradizionali, promesso dall’attuale Governo dopo l’avvento delle relazioni Sud-Sud promosse dagli esecutivi Lula e Rousseff (di cui il Brics è esempio principale), aveva retto fin lì grazie anche al sostegno dell’allora Presidente Trump. Ma per il Brasile la musica è decisamente cambiata: sia l’Ue sia gli Usa di Biden hanno posto in cima alle priorità della relazione bilaterale la questione amazzonica, su cui Bolsonaro però sembra non voler cedere.
Bolsonaro ha esordito nell’ambito della discussione sulle problematiche ambientali globali col ritiro del proprio Paese come sede della Cop25 nel 2018. Negazionista del cambiamento climatico, il Presidente brasiliano ha di fatto svuotato i meccanismi di controllo istituzionale volti a ridurre l’impatto dell’attività agricola sulla foresta pluviale e le popolazioni indigene che vi abitano. Sotto il suo Governo sono stati registrati i tassi più alti di disboscamento della storia recente del Brasile: 729.000 chilometri quadrati solo nel 2020, e per il 2021 si stima un aumento vicino al 20% rispetto a quella cifra.
Un disastro che però non porta solo la firma dell’attuale Presidente: nel 1985 solo il 6% della foresta amazzonica era stata sostituita dall’agricoltura, mentre nel 2020 si tratta ormai del 14,5%. Secondo la maggior parte dei ricercatori internazionali, a partire dal 20% di distruzione dell’estensione originale si supererebbe la soglia di irreversibilità del danno prodotto al complesso ecosistema amazzonico. Negli ultimi 35 anni sono stati rasi al suolo 74,5 milioni di ettari, e l’industria mineraria è cresciuta del 656%.
Un lento processo solo accelerato sotto l’attuale Governo. Proprio questa settimana è stato approvato un decreto che autorizza l’estrazione di oro in una vasta zona vergine a ridosso delle frontiere con Venezuela e Colombia, dove vivono 23 popolazioni indigene considerate “protette”. In un recente incontro a Dubai con potenziali investitori internazionali, Bolsonaro ha addirittura assicurato che l’Amazzonia è un “paradiso terrestre” che si trova oggi esattamente nelle stesse condizioni in cui l’hanno scoperta i conquistatori portoghesi nel 1500.
Con queste premesse, non sorprende che le iniziative per la protezione ambientale in Brasile siano piuttosto deludenti. Secondo un’editoriale di Folha de San Paulo pubblicato in occasione del summit della Cop26 di Glasgow, il Brasile non ha compiuto nessun progresso dai compromessi assunti dall’allora presidente Dilma Rousseff alla Cop del 2015. Di fatto, il “nuovo corso” della politica ambientale annunciato a Glasgow dal Ministro Leite non contiene altro che una ripresa degli impegni presi dal Brasile ai tempi della firma degli Accordi sul Clima di Parigi, alcuni giudicati poco credibili dallo stesso Bolsonaro (come quello di azzerare la deforestazione illegale entro il 2030) che hanno come principale obiettivo quello di alleviare la pressione internazionale su Brasilia. Proprio mentre Leite annunciava al mondo le misure adottate dall’esecutivo, l’Istituto nazionale di ricerche spaziali del Brasile (Inpe), incaricato del monitoraggio dell’estensione dell’Amazzonia, annunciava un nuovo record negativo: 13.235 chilometri quadrati di selva rasi al suolo tra agosto del 2020 e luglio del 2021.
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Il Cile dovrà scegliere il prossimo Presidente per il periodo 2022-2026 tra il rappresentante dell’estrema destra, José Antonio Kast, politico che in più di un’occasione ha rivendicato la dittatura militare di Augusto Pinochet, e Gabriel Boric, giovanissimo rappresentante della sinistra sorta dal movimento studentesco di inizio dei 2000 di cui è stato a lungo leader. Per la prima volta dal ritorno della democrazia nel 1990, le due coalizioni tradizionali di centrodestra, con a capo il Presidente attuale, Sebastián Piñera, e quella di centrosinistra guidata dalla Commissaria per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, Michelle Bachelet, non saranno presenti al secondo turno delle presidenziali.
Una svolta che ormai stupisce poco in realtà. Il risultato di domenica infatti solo può comprendersi se analizzato alla luce di quanto successo nell’ottobre del 2019, quando migliaia di studenti dei licei di Santiago (nell’enorme maggioranza studentesse, fatto tutt’altro che secondario) lanciarono un appello sui social a scavalcare i tornelli della metropolitana dopo la decisione del Governo di autorizzare l’ennesimo aumento dei biglietti. “Non sono trenta pesos, sono trent’anni”, divenne il leit motiv delle immense manifestazioni scatenate da quel gesto, e che hanno messo in scacco l’intera architettura istituzionale e politica costruita nel Paese dopo la caduta del regime di Pinochet. Il risultato di domenica dunque, segna ormai la fine di quel progetto, ma apre grandi interrogativi sul futuro.
Il Cile è stato durante anni il Paese modello del neoliberalismo latinoamericano. Primo Paese sudamericano a essere ammesso all’Osce, ha vantato durante più di vent’anni una crescita costante (circa il 7% del Pil annuo fino al 2011) e si è differenziato chiaramente dal resto dei Paesi della regione: mentre l’America latina cercava nel regionalismo e l’integrazione uno strumento per migliorare le proprie condizioni di inserimento nell’economia internazionale, il Cile ha teso sempre all’apertura nei confronti dei mercati internazionali e ai rapporti bilaterali con le grandi potenze, specialmente gli Usa. Proprio in questi giorni a Santiago si è conclusa la trattativa per l’ammodernamento del partenariato Cile-Ue, in controtendenza con il resto dei Paesi del Cono Sud, impantanati nell’accordo Ue-Mercosur da anni. Di fatto il Cile è il Paese col maggior numero di trattati di libero scambio del continente.
I pilastri dello sviluppo economico sono stati posti proprio durante il Governo di Pinochet. Uno di essi è rappresentato chiaramente dalle Afp, acronimo di Amministratrici di Fondi Pensione, gestite da privati che sfruttano il modello di capitalizzazione individuale per assicurarsi fondi d’investimento. Un sistema che ha cementato la fortuna di alcuni pochi speculatori e la condanna della maggioranza dei pensionati, che ricevono in media poco più di 300 euro al mese e sono obbligati in molti casi a lavorare in nero anche ben oltre i 65 anni per garantirsi la sopravvivenza.
Negli anni la logica delle Afp è stata applicata a buona parte degli aspetti della vita: l’accesso alla salute, all’educazione, all’alloggio o altri servizi è condizionato dalla capacità di contribuzione economica degli individui, che per garantirsi una vita dignitosa ricorrono ai prestiti. Secondo la Banca centrale del Chile, nel 2020 il 75% del reddito familiare nel Paese era interamente dedicato a pagare debiti. L’altro grande pilastro del modello cileno è contenuto nella Costituzione emanata nel 1980 sotto il regime di Pinochet, che sancisce il principio di sussidiarietà: lo Stato solo dovrà intervenire in quei comparti in cui il settore privato non possa prestare i servizi essenziali alla popolazione.
L’eliminazione delle Afp e del lucro sui servizi fondamentali sono il cavallo di battaglia del candidato della sinistra, il 35enne Gabriel Boric, che sebbene abbia moderato in buona parte il proprio discorso dai tempi in cui era Presidente della Fech, la Federazione universitaria cilena, raccoglie attorno a sé i principali movimenti che hanno animato le proteste contro il modello economico nazionale negli ultimi vent’anni. Riforma tributaria in senso progressivo, con patrimoniale inclusa, la creazione di un fondo universale di garanzia sanitaria, e l’allargamento dei diritti sociali per le minoranze etniche, la popolazione LGBTI e dei diritti delle donne sono alcuni dei punti forti del programma con cui cercherà di arrivare alla Moneda.
Per farlo però, sa di dover sedurre i votanti più moderati, quel 12% che ha scelto la candidata del centrosinistra Yasne Provoste, ma anche parte di coloro che hanno optato per opzioni più conservatrici. La netta virata verso il centro da parte di Boric, già collaudata negli ultimi mesi, ha però alimentato un certo disincanto nei movimenti di piazza, espresso anche attraverso l’astensione di domenica (superiore al 50% degli aventi diritto), e che permette di presumere che la conflittualità sociale che tiene banco ormai da due anni nel Paese potrebbe non smorzarsi nemmeno con l’arrivo della sinistra al potere.
Nel 2019 il Governo Piñera si è detto incapace di poter garantire la sicurezza per la realizzazione dei summit della Cop25 e dell’Asia-Pacific Economic Cooperation (Apec) nel 2019, un colpo duro anche per l’immagine internazionale del Paese, a causa delle manifestazioni e la repressione scatenata dalle forze dell’ordine. Sul piano domestico, per molti fu un’ammissione di incapacità. L’inizio di un processo di riforma della Costituzione del 1980, poi, è stato un colpo duro anche per buona parte della coalizione di Governo, che trent’anni fa partecipò attivamente alla redazione di quel testo costituzionale. Le concessioni fatte dopo la sconfitta alle elezioni della Convenzione costituente hanno infine calato il sipario sulle aspirazioni del settore che fa capo a Piñera di continuare nel potere, disfatta confermata col quarto posto raggiunto dal candidato del Governo, Sebastián Sichel, domenica scorsa.
È Antonio Kast il principale esponente della reazione più conservatrice all’ondata di protesta. Il fulcro del pensiero dell’estrema destra cilena sta nel voler porre limiti all’allargamento dei diritti garantiti dalla democrazia liberale a quelle minoranze escluse dalla vita politica cilena degli ultimi trent’anni. Indigeni, movimenti studenteschi e di sinistra, gruppi LGBTI, posti al margine de facto dal sistema istituzionale e giuridico, sono espressamente considerati un pericolo per la stabilità del Paese. Kast emerge, in termini di Alvaro Ramis, come rappresentante di quel pinochetismo sociologico che si può considerare trasversale alla società cilena – e precedente anche al golpe del 1973, come descritto da Isabel Allende ne “La casa degli spiriti”-, basato sui valori dell’individualismo, la meritocrazia, il rispetto per le tradizioni e le gerarchie, la concezione del diritto nella sua accezione più punitiva, e che appella alla destra come ultimo scoglio per la difesa di quella cosmo visione considerata al di sopra di qualunque discussione politica o elettorale. Ed è proprio contro quell’etica imposta a colpi di desaparecidos e persecuzioni che si è scagliata buona parte della società cilena negli ultimi anni.
Il fatto che Kast abbia ormai ottenuto lo scettro del restauratore, strappato alla destra moderata dell’attuale Governo, è confermato ad esempio dai voti ottenuti nelle due regioni militarizzate del sud dove impervia il conflitto per le terre col popolo Mapuche. Kast, che ha spesso legato le azioni delle organizzazioni indigene col “narcoterrorismo”, ha raccolto più del 42% dei voti nell’Araucania (il doppio rispetto a Boric) e il 32% nel Bio Bio. Poche settimane prima del voto ha addirittura azzardato l’idea di costruire una fossa lungo il confine per evitare l’ingresso di migranti, specialmente venezuelani, boliviani e peruviani.
Al di là di chi vinca il ballottaggio del 19 dicembre, il prossimo Presidente dovrà fare i conti con un Parlamento fortemente atomizzato, dove le coalizioni tradizionali mantengono a stento la prima e la seconda minoranza, ma sono obbligate a scendere a compromessi coi rappresentanti che siederanno ai due estremi dell’emiciclo sia al Senato sia alla Camera. Inoltre, continuano i lavori della Convenzione Costituente, dominata dalle diverse espressioni della sinistra cilena. Nel 2022 l’assemblea dovrà presentare il testo della nuova Costituzione, che sarà sottoposto a referendum per la sua approvazione. La vittoria di Kast potrebbe dare ai difensori della costituzione di Pinochet un’arma potentissima per far deragliare l’intero processo cominciato l’anno scorso, e dare un’impronta molto più conservatrice al “nuovo” modello cileno, sorto dalle ribellioni popolari di due anni fa.
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Il Presidente del Nicaragua, Daniel Ortega, e sua moglie e vice, Rosana Murillo, hanno confermato il loro incarico alla guida del Paese per altri 5 anni, in un’elezione fortemente contestata a livello domestico e internazionale. Secondo i dati del Consiglio supremo elettorale i coniugi Ortega hanno ottenuto più del 75% dei voti, e l’affluenza si è spinta oltre il 65% nonostante l’appello dell’opposizione a boicottare le urne. I candidati con maggiori possibilità di fare concorrenza al Governo sono stati sistematicamente incarcerati: Cristiana Chamorro, figlia dell’ex Presidente Violeta Chamorro (1990-1997), Félix Maradiaga, Arturo Cruz, Medardo Mairena, Miguel Mora, Noel Vidaurre e Juan Sebastián Chamorro sono stati arrestati a giugno con l’accusa di favorire l’ingerenza straniera, in base alla polemica “Legge sulla difesa dei diritti del popolo all’indipendenza, alla sovranità e all’autodeterminazione per la pace”, approvata nel dicembre 2020 dall’Assemblea nazionale, dove Ortega mantiene la maggioranza assoluta anche dopo il voto di domenica.
Tra gli incarcerati degli ultimi mesi, spiccano figure storiche del partito di Governo, il Fronte Sandinista per la Liberazione Nazionale (Fsln), guerriglia sorta negli anni ’60 dall’incontro di diverse esperienze della sinistra nicaraguense e che nel 1979 rovesciò la cruenta dittatura di Anastasio Somoza, ultimo rampollo del regime familiare iniziato con suo padre nel 1937. Dora María Téllez, conosciuta come “Comandante 2” ai tempi della rivoluzione sandinista è finita anch’essa a “El Nuevo Chipote”, il penitenziario dove si trovano sotto regime speciale 32 dei 34 dirigenti politici detenuti negli ultimi quattro mesi. Nella lista dei “cospiratori” anche Víctor Hugo Tinoco, viceministro degli esteri del Fsln tra il ’79 e il ’90, e lo scrittore Sergio Ramirez, vice Presidente dello stesso Ortega tra il 1985 e il 1990, ed esiliatosi in Spagna per scampare alle recenti purghe.
Buona parte di quel che sta accadendo in Nicaragua si spiega proprio a partire dalla decisione di Ortega di piegare l’allora movimento rivoluzionario a un nuovo corso politico. A partire dal suo ritorno alla presidenza nel 2007, la simbiosi tra partito e Stato si è fatta sempre più evidente, sfociando spesso nelle forme clientelari che la stessa sinistra nicaraguense ha combattuto per decenni. Espulse le dissidenze, riunite poi nel Movimento per la Rifondazione del Sandinismo a cui è stato addirittura impedito di presentare candidature in diverse elezioni, Ortega ha suggellato il patto tripartito che spiega la sua permanenza al potere fino ad oggi: con le grandi imprese nicaraguensi riunite nel Consiglio superiore delle imprese private (Cosep) e con le Chiese cattolica ed evangelica. Nel 2008 il Governo sbaragliò anche l’ultimo cavillo che permetteva la pratica dell’aborto in Nicaragua, siglando anche la fine dell’idillio tra femminismo e sandinismo; lo stesso Ortega è accusato di aver abusato per anni della figlia primogenita di Murillo, Zoilamérica, oggi esiliata in Costa Rica e simbolo dell’opposizione dei gruppi LGBTQI al Governo nicaraguense.
Erano i tempi di Petrocaribe, con cui il Venezuela di Hugo Chávez garantiva petrodollari al Centroamerica e Caraibi in cambio di servizi e materie prime, e Managua approfittò il vento a favore per rafforzare l’inattesa crescita economica. Ad approfittarne furono i potenti di sempre, come il Gruppo Pellas, proprietà di uno degli uomini più ricchi del continente, la finanziaria Promérica, l’holding Lafise o il Mercon Coffee Group, stabilirono un modello basato sul consenso tra partito ed establishment intorno alla politica economica che garantì a Ortega un decennio di stabilità. La riforma bancaria favorì gli affari delle famiglie più importanti del Paese, che hanno usufruito anche di ampi sgravi fiscali. Tra il 2000 e il 2017 la crescita si è mantenuta a una media del 3,9% annuo, permettendo al Governo di giovare anche di un alto grado di consenso popolare.
Il tramonto di questo connubio tra chiesa, partito e industria, le tre entità più importanti del Paese, è giunto nella più ampia crisi delle strutture economiche e finanziarie costruite da Caracas attorno alla cooperazione basata sul petrolio venezuelano. Nell’aprile del 2018 Ortega impose una serie di misure di austerity su richiesta del Fondo monetario internazionale, che provocarono una reazione popolare inattesa. Dopo cinque giorni di saccheggi e scontri, il Governo ritirò la riforma del sistema pensionistico al centro della contestazione, ma i tumulti non si arrestarono. Furono tre mesi di violenze e repressione, conclusi con più di 300 morti – la commissione parlamentare creata ad hoc ne ammise 269 -, centinaia di detenuti e circa 100.000 emigrati. Le chiese e i rappresentanti dell’industria ritirarono il loro appoggio al Governo e chiesero di anticipare le elezioni. Fu il punto di non ritorno.
Il Nicaragua è un territorio strategico per qualunque potenza che voglia esercitare la propria influenza sull’America centrale. Paese bioceanico ma ricco di acqua dolce, è stato recentemente al centro di un tentativo di Pechino di costruire un canale alternativo a quello di Panama, naufragato dopo la crisi del 2018 e il rafforzamento dei rapporti tra Managua e il suo tradizionale alleato di Taiwan. Durante più di dieci anni la stabilità del Nicaragua sandinista ha ricevuto il beneplacito più o meno esplicito di Washington, che dal 1986 deve 17 miliardi di dollari al Nicaragua in riparazioni imposte dalla Corte dell’Aja per attività terroristiche e il finanziamento illegale dei Contras degli anni Settanta proprio contro il Fsln. Oggi tra i due Paesi è vigente un accordo di libero scambio e gli Stati Uniti possono anche dirsi compiaciuti del flusso relativamente basso di migranti nicaraguensi che arrivano alla propria frontiera sud: un terzo rispetto ai salvadoregni e la metà dei guatemaltechi. Nonostante ciò, le rimesse dei migranti rappresentano un 15,3% del Pil del Paese.
Gli stretti rapporti del Governo di Ortega con Cuba, Venezuela e Russia – che nell’aprile 2017 ha inaugurato una base militare nella Laguna di Nejapa poco lontano dalla capitale – e la repressione scatenata contro le manifestazioni del 2018 hanno portato Washington ad approvare il Nicaraguan Investment Conditionality Act o Nica Act, con cui condiziona la cooperazione finanziaria alla realizzazione di elezioni libere e trasparenti. L’amministrazione Trump ha inasprito la stretta su Ortega imponendo sanzioni dirette a funzionari del suo Governo, ampliate quest’anno da Joe Biden. Anche l’Ue ha imposto sanzioni contro 14 membri del Fsln, recentemente estese fino a ottobre del 2022.
In questo contesto, la celebrazione delle elezioni di domenica, definite “una farsa” dalla Casa Bianca e “un fake” dall’ l’alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza e vicepresidente della Commissione europea, Josep Borrell, non fa altro che isolare ancor di più il Nicaragua. Anche il fronte latinoamericano sembra titubante nel sostenere Ortega in questo frangente. L’asse progressista formato da Argentina e Messico, che si è astenuto nelle votazioni delle risoluzioni dell’Organizzazione degli Stati Americani contro il Governo di Managua adducendo di voler restare ligi al principio di non ingerenza negli affari domestici, questa volta ha reagito molto timidamente. Buenos Aires ha pubblicato un messaggio via Twitter condannando le detenzioni degli oppositori mentre il Governo di Lopez Obrador non si è nemmeno espresso. Anche il Perù di Pedro Castillo, l’ultimo leader della sinistra latinoamericana giunto al potere a giugno ha preso le distanze da Ortega.
Resta chiaro dunque che questa tornata elettorale non fa altro che acuire l’isolamento del Nicaragua, che si allinea definitivamente con l’asse Caracas-La Avana-Mosca (e Taipei, attore di prim’ordine nella politica nicaraguense). Ennesimo grattacapo in America latina per la superpotenza a stelle e strisce, già impegnata con le difficili situazioni di El Salvador e Honduras. Ma anche un nuovo spartiacque da imporre per stabilire alleanze e ostilità nell’emisfero occidentale.
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Il Senato brasiliano ha confermato l’accusa di “crimini contro l’umanità” formulate da una commissione d’inchiesta contro il Presidente Bolsonaro per la gestione della pandemia, che in Brasile ha lasciato 605.000 morti. Il leader dell’estrema destra sudamericana, intanto, cerca di gestire il tracollo economico e la campagna per la rielezione nel 2022
Il Governo del Presidente brasiliano Jair Mesias Bolsonaro ha deliberatamente diffuso informazioni false sul Covid-19, ha intralciato le campagne sanitarie, impedito l’accesso ai vaccini e promosso terapie alternative che hanno messo a rischio la salute dei brasiliani. Queste sono solo alcune delle conclusioni shock a cui è giunta la Commissione parlamentare d’inchiesta (Cpi) creata ad aprile al Senato e che ieri ha votato l’invio del plico alla magistratura.
Le accuse includono reati come prevaricazione, “ciarlataneria”, diffusione di epidemia, violazione delle misure sanitarie preventive, impiego irregolare di fondi pubblici, corruzione, peculato, concussione, istigazione a delinquere e falsificazione di documenti privati. Ventitré capi d’accusa per ottantuno uomini di potere e due aziende prestatrici di servizi allo Stato. Per alcuni, le condanne potrebbero superare i 50 anni di reclusione. L’accusa più pesante ricade su Bolsonaro: crimini contro l’umanità, “nelle modalità di sterminio, persecuzione e altri atti disumani”, secondo il testo presentato lo scorso 23 ottobre. Circa la metà delle 605.000 morti che ha causato il Covid in Brasile sono dunque da attribuire al Presidente, secondo la maggioranza del Senato. Quest’ultimo ha chiesto anche la sospensione degli account YouTube, Twitter, Facebook e Instagram del Presidente a tempo indeterminato, dopo che Bolsonaro avrebbe associato i vaccini contro il Covid alla diffusione dell’Aids durante uno streaming sui social.
Tra gli accusati anche il Ministro della Salute, Marcelo Queiroga, e l’uomo forte dell’esercito brasiliano dentro al Governo, Walter Braga Netto, oltre ad altri due Ministri in carica. I due figli parlamentari del Presidente, Eduardo e Flavio Bolsonaro sono anch’essi nella lista che nelle prossime ore passerà in mano al procuratore generale del Brasile, Augusto Aras, con l’accusa di incitazione a delinquere avanzata anche contro altri otto legislatori. Furono proprio loro i primi a lanciarsi contro le misure sanitarie imposte negli stati dove sono stati eletti, San Paolo e Rio de Janeiro.
Di certo però non si tratta della prima accusa grave che riceve il Presidente brasiliano. Solamente nel 2021 sono state presentate due azioni legali presso la Corte internazionale dell’Aja: una interposta dall’Articolazione dei Popoli Indigeni del Brasile, per genocidio contro le comunità originarie; e l’altra, presentata dalla Ong austriaca AllRi per delitti contro l’umanità ed ecocidio, dovuti alla negligenza del suo Governo nel fermare la distruzione della foresta amazzonica. Nel cassetto della presidenza della Camera a Brasilia riposano pure 105 richieste di impeachment contro il Presidente presentate dall’opposizione e sistematicamente archiviate dalle autorità di entrambe le camere, strategicamente scelte tra gli alleati di Bolsonaro. Anche il procuratore Aras è stato indulgente nei confronti del presidente durante gli ultimi 3 anni, evitandogli seri guai con la giustizia, e si presume che anche in questa occasione le conseguenze giudiziarie per il Governo saranno molto leggere nel breve termine.
Il blindaggio che gli assicurano la maggioranza del congresso e le alleanze tessute nella magistratura, fa sì che sia molto difficile pensare a un epilogo del Governo prima di fine mandato, previsto per gennaio del 2023, nonostante la gravità delle prove. Ma la Corte Suprema ha tra le mani due procedimenti giudiziari che potrebbero risultare in un impiccio. Il Presidente, dunque, ha voluto mostrare alla magistratura il suo potere, prima facendo sfilare i carri armati di fronte alla sede della Corte, poi presentandosi accompagnato da decine di migliaia di sostenitori nella spianata delle istituzioni di Brasilia che minacciavano di irrompere in tribunale e in parlamento con la forza.
Poche ore prima della pubblicazione del rapporto della Cpi, l’ennesimo terremoto politico si è abbattuto sul Ministero dell’Economia, guidato dall’ultra liberista Paulo Guedes. Cinque assessori di alto livello hanno consegnato le dimissioni dopo che Bolsonaro ha ordinato di sforare il limite imposto alla spesa pubblica dalla riforma costituzionale del 2016, per elargire sovvenzioni da 400 Reali (circa 60 euro) a 17 milioni di famiglie, proprio quando si comincia a entrare in clima di campagna elettorale. L’abbandono della ricetta ortodossa che Guedes, uno dei cosiddetti Chicago Boys dell’economia latinoamericana, ha difeso a spada tratta negli ultimi tre anni di Governo, ha provocato una caduta immediata del 7,3% della borsa di San Paolo.
L’instabilità del gigante brasiliano, seconda potenza economica dell’America Latina dopo il Messico, è una delle principali preoccupazioni per l’economia della regione. Il principale gruppo d’investimento finanziario del Paese, Itaù, ha rivisto al ribasso le previsioni economiche per l’anno in corso che chiuderà con una contrazione del 0,5% del Pil. Il Brasile è inoltre l’economia del G20 col minor tasso di crescita previsto dal Fondo monetario internazionale per il 2022 (1,5%).
Con una disoccupazione record del 14% e l’inflazione in crescita, ormai vicina al 10% annuo spinta soprattutto dall’aumento dei combustibili (+73% negli ultimi 12 mesi) Bolsonaro ha recentemente riportato a galla la proposta di privatizzare la compagnia energetica più grande dell’America Latina, Petrobras. Il potentissimo settore industriale di San Paolo, fondamentale per permettere all’attuale Presidente di vincere le elezioni del 2018, è sempre più restio ad accompagnare le crociate del Governo, come quella che ha messo in crisi il Mercosur negli ultimi mesi, o il negazionismo sfoggiato durante la crisi sanitaria nel Paese.
Per Bolsonaro la colpa del pessimo momento degli attivi brasiliani nei mercati mondiali è della Cpi, che con le sue accuse contro il Governo “lede l’immagine del Paese nel mondo”. Eppure è proprio il suo Governo a essere sempre più isolato internazionalmente. Da alleato strategico della Casa Bianca ai tempi di Trump, al punto di abbandonare la Comunità degli Stati Latinoamericani e dei Caraibi (Celac), a bersaglio mondiale delle critiche per la gestione dell’Amazzonia, della pandemia e del conflitto indigeno. Quando presentò la sua candidatura a Presidente nel 2017 però, nessuno lo prese sul serio. E oggi nessuno osa darlo per spacciato.
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Lo Stato centroamericano si appresta ad andare alle urne in mezzo a una fenomenale crisi sociale e una dirigenza politica formalmente accusata di collusione col narcotraffico. Eppure Tegucigalpa è chiave per il disegno geopolitico di Washington nel “Mediterraneo americano”.
Venerdì notte nella tangenziale che cinge il distretto di Choluteca, nel sud dell’Honduras, è stato crivellato il candidato a sindaco del municipio di Santa Ana de Yusguare, Nery Fernando Reyes, del partito Libertà e rifondazione (Libre). Secondo l’Osservatorio della Violenza dell’Università Nazionale Autonoma dell’Honduras (Unah), si tratta del ventitreesimo dirigente politico assassinato nel Paese nel 2021, un saldo che cresce in prossimità delle elezioni generali del 28 novembre.
L’Honduras è un Paese in crisi.
La povertà ha raggiunto il 70% del totale della popolazione durante l’ultimo anno. In buona parte questo aumento spropositato è dovuto agli effetti della pandemia e le catastrofi naturali, come gli uragani Eta e Iota che hanno colpito duramente la Valle del Sula, zona che produce due terzi del Pil nazionale. Ma la mancanza di investimenti e di iniziative per la promozione dello sviluppo sono endemiche da anni. Secondo l’Onu, 1,3 milioni di honduregni hanno bisogno attualmente di assistenza umanitaria, e altri 800.000 hanno lasciato il proprio paese per emigrare verso il Messico e gli Usa. Si tratta del quinto Paese al mondo con il più alto tasso di omicidi, e uno degli hub più importanti del continente per il narcotraffico e l’attività del crimine organizzato.
L’Honduras è l’epicentro del traffico di cocaina in Centroamerica. Secondo il dipartimento di Stato Usa, attraverso il Paese sono passate 120 tonnellate di coca nel 2019. È il principale punto di atterraggio per il rifornimento dei voli che dal Sudamerica riforniscono i cartelli che fanno affari negli Stati Uniti, un business che compete in quanto a introiti con la produzione di maglioni e camicie, principale prodotto di esportazione del Paese.
Proprio il ruolo del narcotraffico nel futuro del Paese è oggi al centro del dibattito in vista delle elezioni di novembre. L’intera struttura istituzionale honduregna è oggi sotto accusa di collaborare con i cartelli locali e internazionali. In special modo il tradizionalissimo Partido Nacional, oggi al Governo con Juan Orlando Hernández, Presidente dal 2014, è sospettato di mantenere forti legami con la malavita locale. Ritornato al potere dopo il golpe militare del 2009 contro Manuel Zelaya, accusato di voler condurre il Paese a una alleanza con il Venezuela di Hugo Chávez, i leader del Partido Nacional sono successivamente apparsi nei dossier della Drug Enforcement Administration a partire dalle dichiarazioni dei principali capi dei cartelli centroamericani. Fabio Lobo, figlio dell’ex Presidente Porfirio Lobo (2010-2014) è stato condannato a 24 anni per narcotraffico a New York. Juan Antonio “Tony” Hernández, fratello dell’attuale Presidente, è stato condannato all’ergastolo nel 2021 per lo stesso delitto, e la procura di New York ha aperto ufficialmente un’indagine anche contro l’attuale Presidente. Gli inquirenti sostengono che Lobo ed Hernandez hanno utilizzato gli strumenti e le forze a disposizione dello Stato honduregno per garantire la sicurezza dei traffici di stupefacenti verso gli Stati Uniti, aprendo anche un ampio ventaglio di ipotesi intorno alla complicità delle forze armate e altri funzionari dell’Honduras, che i procuratori dell’accusa definiscono nella loro deposizione addirittura un “narco-Stato”.
Nonostante la pioggia di accuse contro il Presidente honduregno provenienti proprio dalla magistratura statunitense, Washington ha fatto di Tegucigalpa uno dei suoi più ferrei alleati nella lotta al narcotraffico nella regione. L’Honduras è il Paese col maggior numero di militari statunitensi dispiegati in America Latina, dopo Cuba e Porto Rico, e uno dei principali destinatari della cooperazione in Centro America, che ammonta a circa 4 miliardi di dollari tra fondi stanziati e promessi dall’amministrazione Biden. Durante il Governo Trump, però, i Paesi del Triangolo Nord (Honduras, El Salvador e Nicaragua) hanno sofferto un taglio netto degli aiuti elargiti da Washington a modo di rappresaglia per l’aumento dei flussi migratori provenienti da quei Paesi a partire dal 2018. L’ex Presidente Usa ha anche tolto all’Honduras il beneficio dello status di Protezione Temporale (Tps), che dopo la tragedia provocata dall’uragano Mitch nel 1998 garantisce agli honduregni un accesso più rapido ai permessi di soggiorno temporanei negli Stati Uniti. Per l’Honduras la sospensione del Tps, ancora al centro di un lungo caso giudiziario, significherebbe un duro colpo anche dal punto di vista economico: le rimesse dei migranti rappresentano circa il 23,5% del Pil honduregno.
Col nuovo Governo insediatosi alla Casa Bianca la distensione però non è stata quella che Hernandez si attendeva. Il dipartimento di Stato ha pubblicato quest’anno i nomi di diversi funzionari honduregni accusati di corruzione, sei a maggio, nella Lista Torres, e altri 21 a luglio nella Lista Engels che include anche l’ex Presidente Lobos. In questo contesto, le elezioni in Honduras apriranno probabilmente un nuovo capitolo dell’impegno geopolitico statunitense nella regione. I sondaggi favoriscono ancora una volta il Partido Nacional, che presenta l’attuale sindaco di Tegucigalpa, Nasry Asfura, soprannominato “Papi agli ordini”, e accusato di riciclaggio e appropriazione indebita di circa un milione di dollari.
La principale candidata dell’opposizione, Xiomara Castro, ha recentemente assicurato che in caso di vittoria romperà la storica relazione che unisce il Paese a Taiwan per avvicinarsi invece a Pechino, ormai rivale di spicco per l’egemonia Usa in tutta l’America Latina. Washington non ha ancora fatto trapelare quale sia l’opzione più consona ai suoi piani. Di certo quel che spera dall’Honduras è il rafforzamento delle proprie istituzioni per contenere l’emigrazione, maggior cooperazione nella riduzione del narcotraffico e un impegno a garantire un contrappeso all’indirizzo apertamente ostile assunto dagli altri due Governi del Triangolo Nord Centro Americano: El Salvador di Nayib Bukele, e il Nicaragua di Daniel Ortega.
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A poche ore dal ritrovamento del cadavere del Presidente haitiano Jovenel Moïse nella sua residenza di Porto Principe, sembrava a tutti naturale che i sospetti ricadessero sulle più di 150 gang attive nel Paese, legate a doppio filo a partiti, sindacati, polizia e aziende locali. Da mesi Moïse affrontava contestazioni molto serie, aveva denunciato tentativi di colpi di Stato e avvertito sulla possibilità di un attentato. La conferma dell’arresto di 18 mercenari colombiani accusati dell’omicidio però ha sorpreso tutto il continente. Gli attori coinvolti sono apparsi improvvisamente sotto i riflettori: mercenari, informatori, golpisti, lobbisti, che devono la loro fortuna e potere proprio all’anonimato in cui si muovono insospettati.
Il primo grattacapo per gli inquirenti si è aperto con l’identificazione dei 26 mercenari colombiani incaricati dell’attacco alla casa presidenziale, tutti legati alle forze armate colombiane, e sei di essi in attività. Vero è che l’industria dei mercenari colombiani è conosciuta ormai da tempo. Col 3,2% del Pil annuo speso per la difesa (il tasso più alto dell’America Latina) e l’iniezione permanente di fondi e mezzi da parte di Washington nell’ormai vana “guerra contro i narcos”, la Colombia è diventata un vero e proprio provider internazionale di combattenti.
Secondo il Ministero della Difesa di Bogotá, sono circa 10.000 gli uomini che ogni anno concludono la loro carriera militare intorno ai 45 anni senza poi adeguarsi alla vita civile. Alcune stime, probabilmente conservatrici, parlano di circa 6.000 ex agenti delle forze armate colombiane che lavorano per aziende di sicurezza o veri e propri eserciti privati in tutto il mondo. La maggior parte è stanziata tra Iraq, Emirati Arabi, Arabia Saudita e Yemen, dove ricevono stipendi da 5.000 dollari mensili, a fronte dei 400 dollari di pensione che riceve un ufficiale in pensione dopo vent’anni di servizio in patria. Si tratta inoltre di agenti d’élite. Dopo sessant’anni di guerra interna contro guerriglie e narcotraffico, la Colombia è diventata laboratorio di tecniche militari di tutto il mondo, e il know-how acquisito si esporta oggi per vie legali, a partire dai numerosi accordi di cooperazione con gli Usa o Israele, o attraverso canali più opachi, come quelli usati dagli esecutori di Moïse.
Secondo le ricostruzioni finora realizzate, durante le prime settimane del 2021, uno sconosciuto ufficiale di reclutamento si è messo in contatto con i 26 mercenari colombiani, offrendogli 2.700 dollari mensili per un’operazione di sicurezza in Centroamerica. La presenza di questo fiorente business è l’altro aspetto che è balzato sulle prime pagine dei giornali latinoamericani dopo l’uccisione del Presidente haitiano. Il messaggio proveniva dalla Counter Terrorist Unit Federal Academy, o CTU Security, un’impresa con sede a Doral Beach, Miami. Il titolare dell’azienda è Antonio Intriago, un venezuelano già noto alle autorità. Nel 2019 ha aiutato a finanziare il concertone di Cucuta, un’iniziativa del Presidente colombiano Iván Duque e l’autoproclamato Presidente ad interim del Venezuela, Juan Guaidó, per far pervenire aiuti umanitari su territorio venezuelano. Il principale socio di Intriago alla CTU Security è Gabriel Pérez, alias Arcángel Pretel, ex ufficiale della polizia colombiana e informatore della Drug Enforcement Administration (Dea) negli Usa.
Miami è ormai la capitale dei cosiddetti “Governi in attesa” dell’America Latina. Esiliati cubani, migranti da Venezuela, Nicaragua e Haiti pianificano e finanziano da qui manifestazioni dell’opposizione, insurrezioni popolari e veri e propri colpi di Stato nei loro Paesi d’origine, e possono spesso contare su connessioni con settori della politica e dell’imprenditoria locale. Come nel caso di Christian Emmanuel Sanon, medico e pastore evangelista haitiano e residente in Florida accusato di aver pagato la CTU Security per assoldare i mercenari che hanno ucciso Moïse. Oggi Sanon è sotto custodia cautelare in un carcere di Porto Principe.
Di certo Jovenel Moïse non era un Presidente acclamato in patria. Sulla sua figura pesavano accuse di corruzione e di complicità con alcune delle bande criminali che controllano un terzo del territorio haitiano. Nel 2017 era stato eletto con solo 600.000 voti in un’elezione suppletiva, dopo che le presidenziali del 2016 vennero annullate per brogli.
Proprio per questo, il suo Governo era duramente contestato: Moïse sosteneva che il suo mandato di 5 anni si concludesse nel 2022, mentre per l’opposizione e buona parte della magistratura il periodo presidenziale assunto da Moïse era cominciato dopo le elezioni del 2016, e da febbraio di quest’anno lo consideravano decaduto. Una cordata di giudici arrivò addirittura a proclamare un Presidente ad interim all’inizio dell’anno, e la purga scatenata da Moïse contro i “magistrati golpisti” provocò indignazione internazionale. Tra i giudici radiati vi era anche Windelle Coq Thelot, attualmente latitante, segnalata dagli stessi mercenari colombiani arrestati dopo l’attentato come il Piano B, colei che doveva assumere la presidenza nel caso in cui Sanon non riuscisse a farlo.
La notte del 7 luglio dunque, un ex funzionario del Ministero della Giustizia haitiano, Joseph Badio, accompagnò i mercenari colombiani fino alla residenza del Presidente a Pétion-Ville, nella periferia occidentale della capitale. Una volta perpetrato l’attentato il commando avrebbe dovuto spostarsi fino alla casa di Governo, dove il Primo Ministro ad interim, Claude Joseph, che secondo gli attentatori era a conoscenza del piano, avrebbe garantito la loro protezione e li avrebbe addirittura assunti come guardie presidenziali. Nel tragitto però sono stati intercettati dalla polizia haitiana che ha aperto il fuoco, e si sono rifugiati in un edificio abbandonato. Da lì hanno cercato di contattare Sanon, Badio e Intriago, che li hanno abbandonati alla loro sorte. Tre membri del commando hanno perso la vita nella sparatoria di quasi 30 ore seguita a quella fuga. Cinque sono tutt’ora latitanti. Gli altri 18 si sono rifugiati nella sede dell’ambasciata di Taiwan, che però ha subito autorizzato l’ingresso delle forze di sicurezza haitiane. È questa la ricostruzione che emerge dalle dichiarazioni di quattro dei mercenari arrestati e rese note a metà agosto dalla stampa colombiana.
L’omicidio di Moïse, cinematografico dal punto di vista del resoconto dei fatti – su cui persistono in ogni caso seri interrogativi – , pone in primo piano al contempo alcuni dei dibattiti urgenti dell’assetto geopolitico dell’emisfero: la gestione della potenza militare colombiana, concentrata nella guerra interna ma incapace di evitarne le diramazioni internazionali; la tolleranza da parte di Washington nei confronti delle attività di aziende coinvolte nel business internazionale di mercenari in America Latina e nel mondo; e le implicazioni regionali della debolezza sistemica delle istituzioni haitiane.
La situazione di Haiti, il Paese più povero del continente americano e uno dei più disuguali del mondo, compare in cima alle preoccupazioni geopolitiche internazionali nei peggiori momenti di crisi. Nel 1994, l’allora senatore Joe Biden lo aveva riassunto così: “Se Haiti affondasse tranquillamente nei Caraibi o si alzasse di 300 piedi, non cambierebbe molto il nostro interesse”. A 800 miglia marittime dalle coste della Florida però, una Haiti fuori controllo è stata origine di migrazioni di massa, narcotraffico e commercio di armi nei Caraibi. E ora è anche il fulcro di un caso che mette a nudo problematiche più scottanti nel “cortile sul retro” degli Stati Uniti.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di settembre/ottobre di eastwest.
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Per l’Argentina il debito estero è da decenni una spada di Damocle che pesa sul proprio futuro. Dal ritorno alla democrazia negli anni ’80, la politica estera di Buenos Aires è subordinata agli oneri del proprio indebitamento. Il default del 2002 assieme alla crisi sociale a esso connessa ha lasciato un segno indelebile nella società argentina. Nonostante ciò, il Governo di Mauricio Macri (2015-2019) è di nuovo caduto nella trappola. Dopo aver ottenuto circa 187 miliardi di dollari dai fondi di investimento privati, nel 2018 ha chiesto un ulteriore finanziamento per 57 miliardi di dollari al Fondo monetario internazionale, pari al 12,5% del Pil del Paese, concesso anche grazie all’influenza esercitata dall’amministrazione Trump sul board dell’organismo, che volle dare così il suo contributo al mantenimento di un Governo alleato in chiave anti-bolivariana nel Cono Sud.
Le cose però non sono andate come previsto. Il capitale concesso dal Fmi è evaporato nell’inutile sforzo della Banca centrale argentina di mantenere sotto controllo il mercato di valuta straniera: il Peso argentino ha perso il 500% del proprio valore rispetto al dollaro tra il 2015 e il 2019, e col Paese praticamente in default il centrodestra di Macri ha perso rovinosamente le elezioni contro il peronista Alberto Fernández. Le erogazioni da parte del Fmi sono state dunque sospese e Buenos Aires ha cominciato a negoziare le scadenze dei 44 miliardi di dollari elargiti in poco più di un anno, il prestito più grande della storia dell’organismo multilaterale.
Il Consiglio esecutivo del Fondo monetario internazionale è composto da 24 direttori esecutivi che rappresentano raggruppamenti di Stati la cui capacità di decisione è direttamente proporzionale al capitale investito. La strategia del nuovo Governo argentino è stata quella di raccogliere sostegni tra i Paesi di peso medio nell’organismo: Spagna, Portogallo, Italia, Germania, che il Presidente ha visitato per primi dal suo arrivo alla Casa Rosada e che sommati rappresentano circa il 12% dei voti nel Consiglio del Fmi. L’Argentina però non intende solo dilatare le scadenze e negoziare gli interessi del proprio debito. Il Ministro dell’Economia, Martín Guzmán, allievo di spicco del premio Nobel Joseph Stiglitz, propone riforme che riguardano lo statuto stesso dell’organismo: la sovrattassa del 2% che il Fmi esige ai Paesi che mantengono un debito superiore al capitale versato – particolarmente avversata dal Governo portoghese dopo la sua esperienza con la Troika – e il limite di 10 anni per il rimborso del capitale elargito.
L’indirizzo che Fernández e Guzmán vogliono dare ai negoziati sul debito si esprime nel leit motiv ripetuto durante la campagna elettorale del 2019: sostenibilità. E in questo senso si è espresso settimana scorsa il Presidente nel suo discorso all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite: “Le risorse approvate dal Fmi all’Argentina per questo debito insostenibile sono state di 57 miliardi di dollari, l’equivalente di tutti gli esborsi dell’organismo nell’anno della pandemia a 85 Paesi del mondo”, ha sostenuto Fernández. “Non esiste nessuna razionalità tecnica o logica, né sensibilità politica che possa giustificare una simile aberrazione”. Da Buenos Aires ha annunciato che al prossimo G20 di Roma l’Argentina proporrà la creazione di un “accordo multilaterale inclusivo orientato ad affrontare le questioni legate alla ristrutturazione dei debiti sovrani”.
Mentre Guzmán si prepara per quella che dovrebbe essere la chiusura del negoziato col Fmi in vista dell’assemblea annuale di metà ottobre, a Buenos Aires il clima politico attorno al Governo si fa sempre più rovente. Lo scorso 12 settembre infatti la coalizione peronista ha subito una disfatta inattesa alle elezioni primarie, fermandosi a 10 punti di distanza dal centrodestra di Macri a livello nazionale. La battuta d’arresto ha aperto una frattura tra il Presidente Fernández e la vicepresidente, Cristina Kirchner, leader dell’ala più radicale del Governo. Questo settore vorrebbe subordinare i pagamenti del debito al Fmi all’allargamento del welfare e la riduzione degli indici di povertà e disoccupazione nel Paese. La Kirchner ha forzato il Presidente a un rimpasto di Governo in cui però non è stata modificata l’area economica.
Il pagamento della prima quota di 1,87 miliardi di dollari al Fmi settimana scorsa sembrerebbe confermare la continuità del piano di Guzmán. Entro la fine dell’anno l’Argentina dovrà sborsare altri 400 milioni di dollari per coprire gli interessi fin qui maturati, e altri 1,3 miliardi della seconda tranche dello stock di capitale. Tutti fondi provenienti dai 4,3 miliardi di dollari assegnati dallo stesso Fmi coi Diritti Speciali di Prelievo distribuiti internazionalmente per alleviare gli effetti economici della pandemia, e che il settore che risponde alla vicepresidente avrebbe voluto usare per finanziare nuovi servizi socioassistenziali.
In ogni caso, il tandem Guzmán-Fernández sembra ottimista per il futuro: nella finanziaria presentata la settimana scorsa, è già preventivato un risparmio di 19 miliardi sugli interessi del debito grazie a un accordo che il Governo non ha ancora raggiunto, e dal quale dipende anche l’interesse che dovrà pagare ad altri creditori, tra cui i Governi europei riuniti nel Club di Parigi.
Il futuro dell’Argentina è dunque, ancora una volta, legato al debito. Tra fondi d’investimento privati, Fmi e Club di Parigi il rosso ammonta a 325 miliardi di dollari e, avendo un accesso molto limitato ai mercati finanziari, l’unica speranza è scendere a patti. Il mondo delle finanze globali però vede con forte preoccupazione gli scricchiolii della compagine di Governo attuale.
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Il Presidente dell’Uruguay, Luis Lacalle Pou, ha deciso di passare dalle minacce all’azione.
La settimana scorsa ha rivelato che il suo Paese ha avviato i primi contatti tecnici con la Repubblica popolare cinese per valutare l’impatto di un accordo di libero scambio. La notizia ha subito generato reazioni tra i soci del Mercato Comune del Sud (Mercosur), l’unione doganale che Montevideo (la capitale dell’Uruguay) condivide con Argentina, Brasile e Paraguay, un mercato da 260 milioni di persone e con un Pil da 2.2 trilioni di euro. Dal 2001 i quattro Paesi hanno rinunciato allo stabilimento di accordi commerciali in forma individuale, per proteggere la politica comune sui dazi.
La decisione, che doveva essere un incentivo alla proiezione internazionale del Cono Sud, si è trasformata negli ultimi anni nel fulcro delle controversie del blocco. Nel caso dell’Uruguay la spiegazione è abbastanza semplice: negli ultimi dieci anni la Cina ha spodestato il Brasile come principale acquirente dei prodotti agricoli uruguaiani, una relazione commerciale da 2,2 miliardi di dollari l’anno a cui però Pechino applica dazi all’entrata del 12,6%. Per Lacalle Pou, l’eliminazione di quelle tariffe doganali è oggi un obiettivo primordiale per potenziare le proprie esportazioni. Il panorama commerciale è cambiato profondamente anche per il resto dei soci. Oggi la Cina assorbe il 26% delle esportazioni dei Paesi del Mercosur (contro il 20% dell’Ue e il 13% degli Usa) ed è il primo partner commerciale del Brasile e, indirettamente, del Paraguay.
Proprio la complessa relazione sino-paraguaiana è uno dei motori del contrasto dentro al Mercosur. Asunción infatti non ha alcuna intenzione di abbandonare la politica adottata dal dittatore Alfredo Stroessner nel 1957, che in chiave ferocemente anticomunista allacciò stretti rapporti diplomatici con Taiwan. Un accordo Cina-Mercosur è dunque impossibile mentre i Governi del Partido Colorado, erede politico di Stroessner, mantengono il riconoscimento nei confronti di Taipei. La soia, il mais e la carne bovina paraguaiani però giungono fino alla Repubblica popolare attraverso il Brasile.
La deroga della risoluzione sugli accordi commerciali extra Mercosur è una richiesta permanente da parte dell’Uruguay, anche quando al Governo si trovava la sinistra del Frente Amplio. La Repubblica orientale è stata la prima in Sudamerica ad aderire alla Belt and Road Initiative, è membro dell’Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB) e da qualche giorno è entrata a far parte della Banca dei Brics. Oggi il Governo conservatore di Lacalle Pou può contare anche su un alleato di peso dentro al Mercosur, il Presidente brasiliano Jair Bolsonaro. I cortocircuiti con Buenos Aires sono dunque all’ordine del giorno dall’insediamento dell’esecutivo di Alberto Fernandez, dal profilo progressista, che difende una posizione ormai tradizionale dell’Argentina e contraria a qualsiasi riforma della politica doganale del blocco. L’Argentina sarebbe probabilmente il Paese più colpito da un’apertura indiscriminata agli accordi bilaterali: è una delle economie con maggior quantità di sussidi alla produzione e al consumo e ha minori capacità di negoziazione rispetto al gigante brasiliano e alle piccole economie fortemente primarie di Uruguay e Paraguay.
Il Mercosur nacque nel 1991 dal bisogno di estinguere la minaccia di un’escalation tra Argentina e Brasile a partire dai rispettivi programmi di sviluppo dell’energia nucleare. I Paesi del Cono Sud avevano da poco voltato la pagina delle dittature militari e i Presidenti di quelle fragili democrazie videro nel Mercosur uno strumento per potenziare l’inserimento internazionale della regione nel nuovo contesto globale segnato dalla fine della Guerra fredda e l’imposizione del Washington Consensus a livello macroeconomico. Il Mercosur ha permesso la creazione di processi produttivi a grande scala, specialmente nell’industria automotrice, principale motore economico del blocco concentrato tra Argentina e Brasile, e nel settore agro-alimentare.
Ma la luna di miele dei primi anni ’90 si è scontrata presto con gli interessi nazionali dei singoli membri. Il desiderio di proteggere la produzione locale nei più svariati comparti ha reso impossibile l’applicazione di dazi comuni all’importazione di migliaia di prodotti, creando quel che gli esperti definiscono come un’unione doganale “imperfetta”. Nel Mercosur, inoltre, tutto viene discusso a livello presidenziale, e le decisioni devono essere prese all’unanimità nei summit semestrali del blocco, che spesso sovvertono gli sforzi fatti dagli organismi tecnici. Di conseguenza il funzionamento del blocco è sempre dipeso esclusivamente della sintonia ideologica esistente tra i Governi membri, cosa che tra l’altro in questo momento scarseggia, come dimostra lo stallo nelle trattative sull’accordo di libero scambio con l’Ue.
Anche se alcuni giornali sudamericani parlano già di “Uru-Exit”, ancora non è chiaro se si tratti di una strategia di Montevideo per obbligare i propri soci a concordare una riforma della struttura del Mercosur, come fece nel 2006 quando l’allora Presidente Tabaré Vázquez minacciò di firmare un accordo di libero scambio con gli Stati Uniti. Di certo, però, l’inizio delle trattative con Pechino rappresenta una svolta per il funzionamento dell’unione regionale, che torna ora al vertice delle preoccupazioni dei Paesi membri.
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