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L’ex presidente dell’Argentina, Mauricio Macri (2015-2023), ha ricevuto martedì scorso una cascata di eccellenti notizie per la sua carriera politica. Il presidente eletto lo scorso 19 novembre, Javier Milei, ha confermato la nomina di Luis Caputo, suo stretto collaboratore quando era al governo, come futuro ministro dell’economia, e si attende la conferma dello sbarco di altri dirigenti legati a Macri nell’esecutivo che si insedierà il prossimo 10 dicembre.
Parallelamente, la magistratura argentina ha seguito la tradizione di premiare i leader vincenti delle elezioni e penalizzare i perdenti una volta terminata la campagna elettorale. Così Macri, divenuto ormai regista dietro le quinte del prossimo governo dell’estrema destra argentina, è stato assolto nel processo che lo indagava per aver spiato i famigliari delle vittime dell’incidente dell’Ara San Juan, il sottomarino esploso nel novembre del 2018 con 44 marinai a bordo.
Nel frattempo, un Tribunale Federale ha riaperto un caso di corruzione nei confronti della vicepresidente Cristina Fernandez de Kirchner, principale avversaria dell’ex presidente Macri, iniziato dieci anni fa.
Ma la notizia più attesa per il leader conservatore è giunta dalla Magistratura della Città di Buenos Aires, che ha sospeso la realizzazione delle elezioni previste per questa domenica per la presidenza del Boca Juniors, in cui è iscritto come candidato a vicepresidente. La lista macrista, guidata dall’ex ministro Andrés Ibarra, ha per ora pochissime chance di battere quella comandata dall’ex calciatore e gloria del Boca, Juan Román Riquelme, attualmente alla guida del club. La sospensione delle elezioni, causata da presunte irregolarità nella compilazione dei registri degli elettori, offre però all’opposizione la possibilità di ampliare il proprio sostegno elettorale e di mettere sotto pressione l’attuale leadership, sfruttando anche dinamiche extra-calcistiche.
Macri infatti è stato catapultato nella politica nazionale e internazionale proprio grazie al Boca. Eletto nel 1995, ha presieduto il club per dodici anni, durante i quali la squadra ha vinto tutto: quattro Coppe Libertadores, due Coppe Intercontinentali e undici campionati. Furono gli anni in cui il Boca si trasformò in un vero proprio brand, famoso a livello globale, con più di 100 prodotti – dai palloni da calcio a piatti e posate – rilasciati sotto il marchio Boca Juniors nel mercato locale e internazionale.
Nel 2007, abbandonata la scrivania del club, Macri è diventato capo del governo della Città Autonoma di Buenos Aires, dove il suo partito ancora governa tutt’oggi, con notevole influenza sulla Magistratura locale. La dirigenza attuale del Boca suggerisce che i problemi legali recenti per i membri della commissione direttiva sono dovuti al potere esercitato da Macri e dai suoi alleati sulle istituzioni di Buenos Aires. La “Bombonera”, lo storico stadio del Boca, è stata chiusa più volte dalla giustizia con l’accusa di aver superato la capacità massima di spettatori durante le partite del Boca e della nazionale di calcio. Il fratello di Juan Román Riquelme è stato coinvolto in un caso di frode e le sedi del club sono state perquisite più volte.
Il possibile ritorno di Macri nell’arena del calcio argentino ha scatenato reazioni anche da parte delle altre associazioni sportive del paese. Macri infatti è un forte sostenitore di un progetto per cambiare il modo in cui i club sono strutturati. Attualmente sono associazioni senza scopo di lucro controllate dai soci, ma Macri vorrebbe adottare il modello delle società sportive gestite da azionisti permettendo l’approdo di capitali internazionali nel calcio locale. Alcuni dirigenti della Federcalcio Argentina (AFA) legati a Macri hanno presentato questa proposta a inizio novembre, ma più di 100 associazioni calcistiche hanno fatto campagna per difendere il modello esistente, che è stato poi mantenuto all’unanimità nel consiglio della AFA.
Logica di mercato, connessione con le istituzioni locali e col mondo delle finanze sono alcune delle caratteristiche del modello che Macri, erede di una delle famiglie più ricche del paese, vorrebbe mettere in atto nel calcio argentino.
Ma la vera motivazione del suo ritorno nel mondo calcistico potrebbe essere in realtà di natura geopolitica. E la spiegazione potrebbe trovarsi nelle alleanze tessute di recente dall’ex presidente nel Golfo Persico. Proprio in questi giorni ha rivelato di aver mantenuto stretti contatti con l’Emiro del Qatar, Tamim bin Hamad Al Thani, affinché intercedesse per la liberazione dei 21 argentini sequestrati lo scorso 7 ottobre da Hamas in territorio israeliano. Una relazione risalente ai tempi della sua presidenza della Repubblica ma rafforzata a partire dal ruolo di Macri come presidente della Fondazione FIFA, incarico che detiene dal gennaio del 2020 e che gli ha permesso di seguire dal vivo l’organizzazione del mondiale di calcio del 2022.
La relazione con la famiglia Al Thani ha agevolato anche la firma di un contratto tra il Boca Juniors e Qatar Airways per la sponsorizzazione principale sulle maglie della squadra. Tuttavia, nel 2022 questo accordo non è stato rinnovato per un motivo insolito: secondo Macri, l’Emiro avrebbe richiesto l’inclusione di un giocatore qatariota nella rosa del Boca, richiesta che la dirigenza guidata da Riquelme non ha accolto.
C’è già chi sta collegando i vari aspetti del progetto di Macri per il calcio: la sua proposta di società sportive potrebbe infatti favorire l’ingresso dei capitali di Qatar, Emirati Arabi e Arabia Saudita nel calcio sudamericano, seguendo quanto già avvenuto in altre parti del mondo. C’è anche un precedente.
Nel 2021, al termine di un viaggio per i paesi del Golfo Persico dell’allora presidente brasiliano Jair Bolsonaro, il senatore ed ex calciatore Romario presentò un progetto molto simile a quello voluto da Macri in Argentina. Secondo quest’interpretazione l’intenzione di Macri sarebbe quella di permettere alle potenze del Golfo di approdare con forza nel paese per sostituire in termini di finanziamento l’espansione cinese in Argentina, anche e soprattutto al di là dello sport. Progetto che potrebbe avere anche il beneplacito di Usa e Unione Europea, chiaramente preoccupate per la presenza sempre più pressante di Pechino in America Latina.
Macri, che in questi giorni ha visitato anche Sheik Mohamed bin Zayed Al Nahyan, presidente degli Emirati Arabi Uniti, nella campagna elettorale per la presidenza del Boca assicura di poter garantire il finanziamento per la costruzione del nuovo stadio, la contrattazione della nuova rosa e di un nuovo allenatore subito dopo la chiusura delle urne. Un’elezione che però, secondo molti osservatori, va molto al di là del futuro calcistico di una delle squadre più popolari dell’Argentina.
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L’eccentrico economista argentino Javier Milei ha sbancato al ballottaggio di domenica scorsa e sarà “il primo presidente libertario della storia”, come gli piace definirsi. A pochi giorni dall’insediamento, previsto per il 10 dicembre, il suo programma di governo è ancora poco chiaro. Nonostante abbia confermato le intenzioni espresse durante la campagna elettorale, anche su alcuni degli aspetti più controversi del decalogo libertario, il presidente eletto sembrerebbe intenzionato a temporeggiare invece sulle misure shock che lo hanno catapultato alla fama internazionale. Annunciata sin da subito l’intenzione di privatizzare la compagnia petrolifera statale e i canali di radio e televisione pubblici, ma l’adozione del dollaro come moneta di corso legale, la chiusura – il rogo, aveva detto qualche mese fa – della Banca Centrale e le privatizzazioni di scuole ed ospedali si vedranno più avanti negli anni. A partire dal prossimo mese, comunque, il bilancio dello stato dovrà chiudere in pari, anche a costo di tagliare la tredicesima dei dipendenti pubblici prevista proprio per la seconda metà di dicembre, ha sostenuto Milei.
Fedele alla massima “anarco-capitalista” secondo cui lo stato deve essere ridotto ai suoi minimi termini, verranno eliminati 12 dicasteri su 20, tra cui quelli della sanità, istruzione, lavoro, ambiente, donne e cultura. I suoi più stretti collaboratori premono intanto per la realizzazione di un referendum abrogativo sulla legge sull’aborto, legalizzato nel 2020. Insomma, una svolta a 180º gradi, anche se forse meno brusca di quanto previsto, che colloca l’Argentina su una strada mai intrapresa finora nella regione.
A garantire una certa moderazione dell’indirizzo politico di Milei, sarebbe l’ex presidente conservatore Mauricio Macri (2015-2019), alleatosi alla coalizione libertaria dopo la rovinosa sconfitta della sua candidata Patricia Bullrich alle generali di ottobre. Macri e i suoi potrebbero fornire al nuovo governo sostegno parlamentare (Milei conta solo su 38 deputati su 257, e 7 senatori su 72) e l’appoggio territoriale dei governatori di centrodestra, ma l’agenda che condividono è comunque destinata ad alimentare la conflittualità sociale. Sindacati e movimenti sono già sul piede di guerra.
A livello internazionale, l’avvento di un governo di questo stampo ha generato reazioni controverse. Non sono pochi gli osservatori che hanno lanciato l’allarme intorno alla tenuta democratica del paese di fronte allo sbarco di Milei e i propri alleati al potere. Durante la campagna elettorale, le critiche alle ricette presentate dal presidente eletto sono arrivate anche dai centri del potere economico mondiale: diversi membri del Fondo Monetario Internazionale, con cui l’Argentina mantiene un debito da 45 miliardi di dollari, hanno lanciato diverse avvertenze intorno al piano di dollarizzazione dell’economia di Milei. Anche la Banca Mondiale ha parlato di “distorsioni e problemi” creati dal piano economico proposto dalla destra argentina. L’Economist ha addirittura sostenuto che “le sue politiche sono mal pensate. Lungi dal costruire consenso, dovrebbe lottare per governare. E se frustrato, alcuni argentini si preoccupano, potrebbe anche diventare autoritario”.
Subito dopo l’elezione di domenica il governo cinese ha lanciato un’avvertenza anche in merito alle minacce di Milei di “tagliare le relazioni coi paesi comunisti”. La portavoce del Ministero degli Esteri Mao Ning, dopo essersi congratulata col nuovo presidente argentino, ha assicurato che “sarebbe un grande errore” un allontanamento tra Buenos Aires e Pechino. La Cina è oggi il secondo partner commerciale dell’Argentina. Ed è grazie agli Swap di moneta che il governo di Xi Jinping ha concesso al suo omologo argentino Alberto Fernandez negli ultimi anni, che il paese ha potuto compiere il calendario di scadenze del debito con FMI. Un raffreddamento della relazione potrebbe avere ricadute molto pesanti sulla stabilità argentina. Scartato inoltre, seppur non ancora in modo ufficiale, l’invito esteso dai cinque membri del BRICS a integrare il gruppo a partire dal 1º gennaio.
Anche in America Latina la situazione del nuovo governo è piuttosto incerta. La relazione col Brasile, storico partner diplomatico e commerciale del paese, si è incrinata ancor prima dell’assunzione del nuovo presidente. L’ex presidente Jair Bolsonaro è stato invitato alla cerimonia di assunzione di Milei ancor prima di Lula da Silva, che prima del ballottaggio si è apertamente espresso a favore del candidato peronista Sergio Massa, e ha già annunciato che il 10 dicembre non sarà a Buenos Aires.
Uno smacco non da poco, a cui si aggiunge un altro cortocircuito tra i due giganti del Cono Sud: da sempre il primo paese di destinazione del presidente eletto in Argentina è il Brasile, e viceversa, e Milei sarà probabilmente il secondo a rompere questa tradizionale dimostrazione di fraternità dopo Jair Bolsonaro.
Gli alleati strategici del governo libertario saranno gli Usa e Israele, ed è proprio in quei paesi che vuole recarsi per primi il presidente eletto. Se Tel Aviv ha già invitato Milei a discutere la sua proposta di trasferimento dell’Ambasciata argentina a Gerusalemme, Washington ha mostrato maggior cautela. Biden non andrà a Buenos Aires per l’insediamento del nuovo governo, e le critiche che in passato Milei ha riservato all’establishment del Partito Democratico risuonano ancora nella relazione con la Casa Bianca, che avrebbe preferito chiaramente la vittoria di un assiduo ospite dell’ambasciata Usa in Argentina come Sergio Massa.
Anche col Messico di Lopez Obrador, che ha definito Milei apertamente “fascista” in diverse occasioni, la relazione sembra destinata ad essere difficile. Il presidente messicano ha definito “un autogol” l’elezione del leader dell’estrema destra in Argentina.
Simili anche le parole di Gustavo Petro, il presidente della Colombia: “Ha vinto l’estrema destra in Argentina; è la decisione della sua società. Triste per l’America Latina”, ha pubblicato, una volta conosciuti i risultati di domenica.
Il probabile isolamento internazionale di Milei, assieme all’influenza che può esercitare l’ex presidente Macri sul suo governo, potrebbero spingere il nuovo presidente argentino a moderare le sue iniziative durante i primi mesi al potere, specialmente sul piano delle relazioni diplomatiche. L’opposizione sociale alle misure drastiche che, in ogni caso, sembra deciso a prendere sin dall’inizio a livello locale, sarà comunque forte, conferendo ulteriore instabilità ad un panorama già fragile nel paese. L’inserimento internazionale risulterebbe dunque chiave in questo senso, ma a poche settimane dall’insediamento, esistono pochi indizi sull’indirizzo del nuovo governo.
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“Israele sta assassinando persone innocenti senza alcun criterio”. È questa la durissima frase che ha lanciato il presidente del Brasile, Luiz Inacio Lula da Silva martedì scorso e che ha ulteriormente incrinato le relazioni col primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. “Dopo l’atto di terrorismo provocato da Hamas, le conseguenze, la soluzione di Israele, è stata tanto grave quanto quella di Hamas”, ha aggiunto Lula, presidente del paese che ricopre attualmente la presidenza del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
Il comunicato del governo brasiliano all’indomani dell’attacco terrorista di Hamas lo scorso 7 ottobre, conteneva già alcune avvertenze intorno alla prevedibile risposta di Israele. “Nulla giustifica l’uso della violenza, in particolare contro i civili, il governo brasiliano esorta tutte le parti a mostrare la massima moderazione per evitare che la situazione si aggravi”, sosteneva allora il Ministero degli Esteri brasiliano. Lo stesso Lula aveva convocato una riunione d’emergenza del Consiglio di Sicurezza in cui la proposta brasiliana per l’apertura di un corridoio umanitario e l’imposizione di un cessate al fuoco nella regione, fu bocciata dal veto degli Usa. Da allora, la parte di mediatore super partes che il Brasile ha voluto assumere, in linea con le aspirazioni da global player del Sud globale che ha sfoggiato Lula dal suo ritorno alla presidenza un anno fa, si è fatta sempre più sbiadita.
Il 17 ottobre Lula ha cercato di aprire un dialogo col presidente iraniano Ebrahim Raisi, sicuramente approfittando della vicinanza di Teheran ai gruppi estremisti attivi nella regione, per permettere il rimpatrio di una trentina di palestinesi con cittadinanza brasiliana bloccati a sud della Striscia di Gaza. Il rimpatrio è finalmente avvenuto per azione delle autorità israeliane, ma la connessione aperta tra Lula e Raisi ha alimentato le furie di Tel Aviv nei confronti del governo brasiliano. E anche della comunità ebraica nel paese sudamericano, che teme che il conflitto si estenda anche su quelle latitudini.
Uno dei fatti che ha ravvivato le tensioni tra Brasilia e Tel Aviv, infatti, è stato l’arresto di due persone a San Paolo nei primi giorni di novembre, accusate di far parte di una cellula di appoggio del gruppo terrorista libanese Hezbollah. Secondo la polizia brasiliana gli arresti, a cui si aggiungono una dozzina di mandati di cattura spiccati dalla giustizia brasiliana, sono stati eseguiti per prevenire atti di terrorismo contro la comunità ebraica in 11 località brasiliane, tra cui Minas Gerais, San Paolo e Brasilia. I servizi di intelligenza israeliani si sono immediatamente congratulati con le autorità brasiliane attraverso un comunicato poco usuale, in cui hanno anche rivelato una presunta partecipazione del Mossad nelle operazioni in terra sudamericana. Ma il Ministro della Giustizia brasiliano, Flavio Dino, ha risposto furioso al comunicato del Mossad, sostenendo che le operazioni che hanno condotto agli arresti in Brasile sono cominciate molto prima dell’attacco di Hamas contro Israele, e che “nessun paese straniero comanda la polizia brasiliana”.
La presenza di cellule terroriste in Brasile è ormai un affare spinoso per il gigante sudamericano. Già nel 2011 diverse fonti dell’intelligence brasiliana e statunitense parlavano di almeno 20 cellule di Hezbollah, Al Qaeda e la Jihad Islamica presenti in Brasile, e l’inefficacia delle autorità locali nell’isolare e arrestare i sospetti di terrorismo ha creato imbarazzi anche nei confronti dei propri vicini argentini.
Infatti, almeno tre dei quattro cittadini libanesi ricercati da Interpol su richiesta della giustizia argentina per i loro legami con Hezbollah e con l’attentato all’Associazione Mutuale Israelita Argentina nel 1994, vivono attualmente in Brasile.
Buenos Aires, che a differenza di Brasilia ha incluso Hezbollah nella propria lista delle organizzazioni terroriste nel 2019, mantiene tesi rapporti anche con l’Iran, da quando la giustizia argentina ha segnalato diversi ex membri del governo di Teheran come i mandanti dell’attentato che uccise 84 persone nella capitale argentina trent’anni fa.
Più di recente, l’11 ottobre scorso, la Comandante dello United States Southern Command (SOUTHCOM), il comando delle forze armate statunitensi responsabile dell’area del Centro e Sud America, Laura Richardson, aveva avvertito intorno alla presenza di cellule di Hezbollah in Brasile, che con l’aiuto delle autorità iraniane, con cui Brasilia mantiene eccellenti relazioni, avrebbero radicato piccoli centri considerati da Washington un pericolo per l’intero emisfero.
Ad aprile di quest’anno la Polizia Federale Brasiliana e Interpol hanno condotto una vasta operazione in cui è stato arrestato un cittadino iraniano nei pressi della triplice frontiera tra Brasile, Paraguay e Argentina – dove attualmente vivono circa 30.000 migranti libanesi -, accusato di facilitare l’ingresso di diversi suoi concittadini con passaporti falsi in Sudamerica.
Insomma, la crisi nella Striscia di Gaza ha esposto certi cortocircuiti presenti nella regione da decenni, mettendo anche in evidenza la posizione del Brasile, e altri governi della sinistra latinoamericana, intorno al conflitto.
Bolivia e Belice hanno rotto relazioni con Israele, e Colombia, Cile e Honduras hanno chiamato a consultazioni i propri ambasciatori a Tel Aviv. Ma la stoccata israelo-statunitense contro il Brasile, unica vera e propria potenza capace di muoversi su molte dimensioni a livello globale con una politica propria – dal G20 ai Brics, e dal G77+Cina al WEF -, punta evidentemente a mettere in dubbio la capacità del governo Lula di erigersi a rappresentante del Sud globale, uno dei principali punti di forza della politica estera del nuovo governo brasiliano.
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La spinosa questione del debito argentino è tornata in questi giorni a far discutere a Buenos Aires, in mezzo alla fervente campagna elettorale in vista del ballottaggio del 19 novembre tra l’attuale ministro dell’economia, Sergio Massa, e il candidato dell’estrema destra Javier Milei.
Il Fondo Monetario Internazionale (FMI) ha recentemente annunciato che a fine novembre una missione dell’Ufficio Indipendente di Valutazione (Independent Evaluation Office, IEO), un organo di controllo interno del FMI, autonomo dal suo consiglio direttivo, giungerà in Argentina per esaminare le condizioni in cui è stato concesso un massiccio pacchetto di aiuti superiore a 57 miliardi di dollari nel 2018.
Questo è il più grande prestito mai concesso dal FMI nella sua storia ed è stato al centro di numerose controversie. In maggio, la Commissione di Controllo del Debito Pubblico del Revisore Generale della Nazione ha pubblicato un rapporto in cui sostiene che, oltre a non essere state rispettate le condizioni di legge per l’accettazione del prestito, il 66% dei fondi ottenuti è stato utilizzato per finanziare investimenti privati attraverso una massiccia fuga di capitali. La Banca Centrale argentina ha documentato un aumento dei capitali inviati all’estero dall’Argentina tra il 2018 e il 2019, proprio nel periodo in cui il FMI autorizzava il rilascio delle tranche di aiuti previste nell’Accordo Stand-By. Una accusa respinta sia dal governo conservatore guidato dall’ex presidente Mauricio Macri (2015-2019) sia dal FMI.
Tuttavia, già nel dicembre 2021, la Valutazione Ex-Post condotta dal FMI aveva evidenziato alcune autocritiche riguardo al programma approvato nel 2018: le prospettive di successo erano scarse sin dall’inizio, la coalizione di governo non era sufficientemente coesa per attuare le riforme strutturali previste, e le autorità argentine si rifiutavano di implementare maggiori controlli sui capitali per limitare la fuga di valuta straniera già in corso. Questi fattori, secondo gli esperti del FMI, hanno contribuito al fallimento del programma, e ora saranno rivalutati dall’IEO.
La missione si concentrerà sulle condizioni richieste dallo statuto del FMI per l’erogazione di un accordo “straordinario” come quello concesso all’Argentina, che include la presenza di un deficit non sostenibile attraverso metodi tradizionali, la capacità di ripagare il debito a medio termine, la possibilità di rientrare immediatamente nei mercati internazionali del credito e una comprovata capacità tecnica, politica ed istituzionale per il successo del programma.
I detrattori del governo Macri, e a quanto pare anche i tecnici del Fmi, credono che tali condizioni non erano presenti nell’Argentina del 2018. Secondo questa visione il Board del fondo avrebbe perseguito obiettivi schiettamente politici nel finanziare il governo argentino, uno dei principali alleati dell’allora presidente Donald Trump nella regione, durante il ritorno al potere di governi di stampo progressista.
Mauricio Claver-Carone, principale collaboratore di Trump in America Latina ed ex presidente della Banca Interamericana Per Lo Sviluppo, lo disse esplicitamente nel 2020: il prestito servì per assicurarsi la continuità nel potere dell’alleato a Buenos Aires, ma Macri e i suoi sperperarono l’opportunità perdendo le elezioni nel 2019.
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Quando Gustavo Petro, il primo presidente di sinistra della storia della Colombia, ha assunto il potere nell’agosto 2022, la maggior parte degli analisti in America Latina si chiedevano quanto del suo ambizioso programma sarebbe stato in grado di portare avanti. La amplissima coalizione che lo ha supportato ha adottato lo slogan “Colombia potenza della vita”, che propone misure radicali per i principali problemi che affliggono il Paese da sempre: la guerra interna, il narcotraffico, il paramilitarismo, la povertà. In alcuni di questi aspetti il governo sta avanzando, alcune riforme presentate in Parlamento hanno riscosso consenso, e processi di negoziazione sono avviati con i gruppi guerriglieri, primo su tutti l’Esercito di Liberazione Nazionale con cui l’esecutivo sta lavorando a un accordo di pace tra Caracas e L’Avana.
Ma lo zelo del governo Petro per combattere il cambiamento climatico si è sicuramente accaparrato i riflettori a livello internazionale. Un po’ perché lo stesso Presidente ha scelto i summit globali per dare slancio alla propria politica ambientale, quali i pulpiti dell’Onu o del World Economic Forum di Davos. E un po’ per la radicalità della proposta: lasciare le ingenti riserve di petrolio, carbone e gas della Colombia sottoterra per evitare “l’estinzione dell’umanità”. E l’idea va ben oltre gli slogan. Nell’ottobre 2022, la Ministra delle miniere Irene Valdez ha annunciato che il Paese non avrebbe più firmato contratti di esplorazione ed estrazione di nuovi giacimenti di petrolio sul proprio territorio. Una vera e propria bomba per un paese che nel 2021 ha esportato greggio per 12 miliardi di dollari, è il 18° esportatore al mondo di petrolio e in cui la filiera degli idrocarburi rappresenta il 40% dell’export totale. La statale Ecopetrol, principale azienda petrolifera del Paese, garantisce oggi il 9% degli ingressi fiscali al governo colombiano. La svolta annunciata ha dunque importanti ricadute sulla stabilità economica del Paese.
A confermare la direzione ufficiale in materia energetica ci ha pensato lo stesso Petro: il cammino è la decarbonizzazione totale dell’economia, l’abbandono dei combustibili fossili e l’implementazione di una matrice energetica più pulita. Il Senato ha già approvato la proposta di legge presentata dall’esecutivo per vietare la pratica del fracking, ed è stato rilanciato il Fondo per lo sfruttamento delle Energie Non Convenzionali e la Gestione Efficiente dell’Energia creato nel 2014 dal governo di Juan Manuel Santos.
La polemica è però molto accesa. Secondo gli ultimi studi del Ministero delle miniere, tenendo in conto i 117 contratti di estrazione attivi attualmente, la Colombia possiede riserve di petrolio sufficienti a mantenere l’attuale livello di produzione per altri 7 anni e mezzo, e di gas per 7 anni e 4 mesi circa. Fonti ufficiali assicurano che questo periodo potrebbe estendersi di diversi mesi se si applicano tecniche per lo svuotamento totale dei pozzi in uso, e se si approfitta al meglio dei giacimenti di gas già esplorati ma non attivi che la Colombia possiede nel Mar dei Caraibi. Eppure, anche le previsioni più ottimistiche mettono in dubbio che il Paese riesca a modificare completamente la propria matrice energetica prima dell’esaurimento delle riserve di gas e petrolio attualmente in uso.
Secondo uno studio dell’Università Jorge Tadeo Lozano, esistono le premesse per sostituire il 100% dell’energia elettrica prodotta in Colombia con fonti rinnovabili entro il 2030, anche se questo richiederebbe un programma molto più energico di quello finora applicato. E secondo gli studi più pessimisti, la transizione a fonti di energia alternative potrebbe richiedere più di 30 anni in Colombia.
Alcuni passi in avanti sono già stati fatti. Il 70% dell’energia elettrica attualmente in uso in Colombia proviene già da centrali idroelettriche e Bogotà è oggi la città in cui circola la maggior quantità di autobus elettrici dell’America Latina. La Banca Interamericana di Sviluppo (BID) ha aperto recentemente diverse linee di credito per finanziare la transizione energetica colombiana. Quella più avanzata prevede lo stabilimento di un centro di produzione di idrogeno verde nei pressi di Cartagena. Il BID stima che per il 2027 l’elettricità proveniente da fonti non convenzionali passerà dall’attuale 2% al 17%. Un dato che pone il Paese all’avanguardia in America Latina, ma che dista dal garantire un futuro a petrolio zero come quello prospettato dal governo. Infatti solo lo 0,05% del totale del parco auto della Colombia funziona a energia elettrica. L’abbandono del petrolio e del gas comporterebbe inoltre un aumento di circa il doppio del consumo elettrico attuale e l’obbligo di sostituire il principale prodotto di esportazione del Paese, che oltre a cambiare la matrice energetica dovrebbe anche modificare radicalmente la propria strategia di inserzione nel mercato globale. Una vera e propria sfida per il governo Petro. Che ancora non ha presentato il programma ufficiale per la transizione energetica a livello nazionale.
Il processo di elaborazione del piano nazionale infatti coinvolge il mondo delle imprese, le istituzioni e la società civile, in un progetto estremamente democratico, inclusivo e innovativo ma allo stesso tempo lento. La presentazione del risultato delle consultazioni è slittata da maggio di quest’anno a febbraio 2024.
Lo scenario catastrofico che l’opposizione sbandiera da mesi è l’esaurimento delle fonti di energia necessarie per far funzionare il Paese e l’obbligo di importare gas e petrolio a prezzi esorbitanti. Uno scenario che non sembra essere totalmente escluso dall’esecutivo Petro, che ancor prima di assumere il suo mandato ha iniziato a ricostruire la dilaniata relazione col Venezuela, paese chiave non solo in termini di interscambi commerciali ma anche per l’approvvigionamento energetico in caso di necessità.
Il piano colombiano ha anche importanti risvolti dal punto di vista geopolitico. A Davos e nei diversi tour internazionali intrapresi, Petro ha presentato la proposta debt for climate action, la riduzione delle spese del debito da parte dei paesi industrializzati in cambio dell’azione effettiva per ridurre l’impatto dell’attività umana sul clima da parte dei paesi debitori. Da diversi mesi però i Paesi della regione stanno intraprendendo il cammino opposto a quello colombiano: Ecuador, Brasile, Guyana, Surinam, Argentina, Messico e perfino il Venezuela con le sue difficoltà, stanno cercando di aumentare la propria produzione di greggio e gas visto l’aumento della domanda a livello globale. Tutti Paesi retti da governi con profili ideologici molto dissimili, ma che secondo i detrattori del governo colombiano potrebbero approfittare della decisione di Petro per colmare il calo nell’offerta sudamericana coi propri prodotti, rendendo di fatto nullo lo sforzo colombiano per diminuire l’impatto ambientale.
Nel caso del Brasile poi, quella energetica è una materia che provoca cortocircuiti tra i governi di Petro e Lula nonostante la sintonia ideologica. Per il Brasile, infatti, una delle priorità per la crescita della regione sta nell’integrazione delle aziende idrocarburifere, per potenziare la produzione a grande scala, garantire indipendenza energetica all’intero sub-continente e approfittare della congiuntura della guerra in Ucraina per negoziare in blocco l’esportazione di gas e petrolio verso altre parti del globo. Una proposta che non viene affossata dalla Colombia di Petro, ma che perde sicuramente slancio internazionale. Quella che invece non può decollare senza il sostegno di Lula è la proposta colombiana per una grande coalizione latinoamericana contro i combustibili fossili, presentata a Buenos Aires poco dopo l’elezione di Petro e ribadita in diversi forum regionali.
Messo alle strette da questioni tecniche, di politica interna, economiche e geopolitiche, il governo Petro ha più volte ammesso che la possibilità di ripristinare i contratti di esplorazione petrolifera è ancora aperta. Ma la “via colombiana all’economia verde” ad attirare l’attenzione internazionale, e non è detto che Petro non decida di dare una svolta radicale al proprio progetto e portarlo effettivamente a compimento. Sarebbe, se non altro, un grande esperimento.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di Luglio/Settembre di eastwest
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Dai latifondi a monocoltura di soia alle miniere per l’estrazione di litio e rame, passando per una base militare in Patagonia o un porto affacciato sull’Antartide, la Cina ha incrementato la propria presenza in America Latina in modo sorprendente. Pechino è attualmente il secondo partner commerciale della regione, con un volume di scambi che supera i 450 miliardi di dollari all’anno. Diversi studi mostrano che il suo ruolo è destinato a crescere, diventando il primo partner della regione nel 2035 con 700 miliardi di dollari di interscambi, e controllando di fatto un quarto del commercio regionale e le ambite materie prime dell’America Latina.
Il processo è in atto da tempo. Tra il 2000 e il 2020 Pechino ha moltiplicato 26 volte il volume di investimenti diretti nella regione, la maggior parte concentrati nei paesi produttori di gas, petrolio, energia elettrica e soia. Il Venezuela conserva la maggior parte degli investimenti cinesi, con 60 miliardi di dollari concentrati nel settore petrolifero e virtualmente bloccati a causa delle sanzioni imposte al governo di Nicolás Maduro. Segue il Brasile, con 31 miliardi di dollari frutto di accordi presi soprattutto nel periodo precedente la presidenza di Bolsonaro (2019-2023). In Ecuador, paese con cui Pechino ha recentemente siglato un accordo di libero scambio, i capitali cinesi ammontano a circa 18,2 miliardi di dollari, viene poi l’Argentina con 17 miliardi. Nel caso argentino spiccano i 36 accordi di finanziamento stipulati con l’Industrial and Commercial Bank of China, e la China Development Bank per il sostegno al governo nel settore trasporti, energia e agricoltura.
A questo bisogna aggiungere i più di 200 progetti in infrastruttura ed energia in cui le aziende cinesi appaiono come appaltatrici e non come fonti dell’investimento. Si tratta di iniziative attive in 20 paesi del continente per un valore approssimato di 98 miliardi di dollari, e la grande maggioranza concentrate nel settore minerario e dell’infrastruttura per il trasporto. Molti di questi progetti hanno causato seri conflitti in America Latina e nei Caraibi. Il Comitato per i diritti economici, sociali e culturali dell’Onu ha emesso a marzo di quest’anno una serie di raccomandazioni dirette al governo cinese circa le violazioni dei diritti umani delle popolazioni latinoamericane legate ai progetti minerari ed energetici commesse da aziende cinesi nel continente. Una coalizione di organizzazioni per la difesa dei diritti indigeni ha documentato 14 casi di violazioni dei diritti delle comunità locali, a cui Pechino ha risposto con un breve documento che indica che prenderà provvedimenti a riguardo.
Secondo un recente rapporto della Commissione Economica per l’America Latina dell’Onu però, i tratti dell’investimento cinese nella regione potrebbero cambiare decisamente nei prossimi anni. Il 14º piano quinquennale per gli investimenti del periodo 2021-2025 infatti prevede un’espansione nel settore automobilistico (44% degli investimenti totali), energie rinnovabili (17%) e servizi finanziari (11%), approfondendo comunque la dipendenza latinoamericana dai capitali del gigante asiatico.
A forza di accordi e investimenti, Pechino è anche riuscita a ottenere drastici cambiamenti nella politica estera di diversi paesi centroamericani, tradizionalmente ostili alla “politica di una sola Cina”. Dal 2007 a oggi, i governi di Costa Rica, Panama, Repubblica Dominicana, El Salvador, Nicaragua e Honduras hanno rotto le relazioni con Taiwan per stabilire rapporti con la Repubblica Popolare. L’isolamento di Taipei, riconosciuta oggi solo da 13 paesi al mondo di cui 7 in America Latina, è una delle strategie geopolitiche più rilevanti per il governo cinese, e apre al contempo le porte per lo sbarco delle proprie aziende in luoghi strategici come l’istmo centroamericano. E impone anche dibattiti nei paesi che non vi si piegano: la recente campagna elettorale in Paraguay per le elezioni generali del 30 aprile è stata segnata dalla discussione intorno alla possibilità di rompere i legami con Taiwan, retaggio dell’antisocialismo furioso imposto dalla dittatura di Alfredo Stroessner (1954-1989). Un viraggio che potrebbe avere ripercussioni anche sui partner del Mercosur (Argentina, Brasile e Uruguay): le relazioni Taipei-Asunción infatti impediscono al principale blocco commerciale dell’America Latina di poter stabilire accordi con Pechino. Che a sua volta ha già lanciato una politica di pressione sui paesi del Cono Sud col lancio della fase preliminare di un accordo di libero scambio col governo uruguaiano, decisione che secondo i governi di Brasilia e Buenos Aires potrebbe “distruggere” il Mercosur.
Ma se l’approdo cinese nel continente può generare attriti tra i paesi latinoamericani, ancora più fragorose sono le reazioni dell’egemone tradizionale nella regione, gli Usa. Dopo aver apertamente declassato i rapporti con l’America Latina a un “problema di sicurezza nazionale” durante i governi di George W. Bush, la Casa Bianca si è ritrovata a fronteggiare serie difficoltà per riaffermare il proprio primato nel continente. Le crisi sociali provocate dal Washington Consensus avevano portato al governo movimenti di sinistra ostili alle politiche storicamente volute dagli Usa, e in molti casi la massima geopolitica applicata in America Latina fu semplice: puntare sulla potenza geograficamente più lontana per alleviare il peso della presenza di quella più vicina. Dal 2010 le aziende cinesi investivano annualmente l’equivalente del totale dei 20 anni precedenti. Nonostante una certa distensione raggiunta negli ultimi anni di governo di Obama, la presidenza Trump non ha fatto che acuire le distanze tra i governi latinoamericani e gli interessi Usa, e l’insistenza dell’amministrazione Biden nel ridurre i rapporti con la regione alla questione migrazione e al compimento degli standard democratici Made in Usa aumenta oggi le possibilità cinesi di un inserimento sempre più profondo nell’emisfero. 21 dei 33 paesi della regione hanno siglato il loro ingresso nella Belt and Road Initiative, Huawei è presente nella maggior parte dei bandi lanciati per la creazione della tecnologia 5G e i piani proposti da Washington per contrastare l’avanzata cinese riscuotono sempre meno successo.
Sembrerebbe però che la risposta a stelle e strisce bisogna cercarla nello spazio di influenza cinese, e non in America Latina. L’intenzione di Usa e Cina di ampliare la propria influenza nel “giardino di casa” dell’avversario geopolitico si è particolarmente espressa durante l’emergenza Covid. Il Dipartimento di Stato infatti ha distribuito nel continente americano 73 milioni di dosi di vaccini, contro i 134 milioni donati ai paesi del sudest asiatico e i 230 milioni inviati in Asia Centrale e Meridionale. Molto più complesso invece quantificare l’ingente e rapidissimo invio di materiale sanitario da parte di Pechino in America Latina, che ha però superato decisamente quello degli Usa: mentre Washington dibatteva ancora sulla politica da adottare per affrontare il virus, il governo di Xi Jinping distribuiva migliaia di respiratori, test e mascherine, oltre ai prestiti a basso costo concessi a Brasile, Venezuela e Messico.
Anche l’Alto appresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza dell’Ue, Josep Borrell, ha preso nota delle serie difficoltà che rappresenta l’aumento della presenza cinese in un’area tradizionalmente legata all’Occidente. E ha affidato alla presidenza spagnola del consiglio dell’Unione, prevista nel secondo semestre 2023, la creazione di una strategia volta a ripristinare l’influenza europea nella regione in esplicita concorrenza con la Repubblica Popolare. Ma Washington e Bruxelles dovranno dimostrare di voler riaffermare la propria presenza con azioni e concessioni concrete. Nelle condizioni attuali, una revisione della presenza cinese non conviene a nessun governo latinoamericano, e la scommessa già fatta da Trump per favorire il ritorno dei partiti liberal-conservatori al potere non sembra aver sortito effetto nell’ultimo quinquennio.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di aprile/giugno di eastwest
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Luiz Inácio Lula da Silva, tornato alla presidenza del Brasile dopo 11 anni intensissimi, che lo hanno visto passare dal carcere di Curutuba ai bagni di folla della sua San Paolo alle elezioni di ottobre, sa che il pilastro della nuova politica estera del paese si trova in Amazzonia. Un territorio che copre 2/3 del Sudamerica, con la rete fluviale più estesa del mondo, che rappresenta il 15% dell’acqua dolce non congelata disponibile sul pianeta, il 35% dei boschi primari, e la metà della flora e fauna globali. Un ecosistema complesso e delicato, in cui vivono circa 390 popoli indigeni, la cui cultura e lingua rappresentano un patrimonio intangibile per tutta l’umanità, e che oggi è al centro dell’attenzione mondiale.
La riduzione della superficie della foresta pluviale per dare spazio a coltivazioni e pascoli, e i traffici illegali connessi alla distruzione della flora e della fauna, sono fonte di preoccupazione internazionale, oltre che segno di debolezza istituzionale del Paese, e Lula lo sa. Un’azione decisa in quest’ambito segnerebbe un cambio di pagina radicale rispetto al suo predecessore, Jair Bolsonaro (2019-2023), che ha portato il Brasile all’isolamento internazionale proprio per le scelte prese in questo campo. Nei 4 anni del suo governo sono andati distrutti 45.783 kmq di selva tropicale, equivalenti a paesi come Estonia o Danimarca, un incremento del 60% rispetto ai 4 anni precedenti.
L’ex presidente ha abbracciato la posizione della destra brasiliana e dei produttori legati all’agrobusiness, secondo cui le leggi di protezione ambientale sono uno scoglio allo sviluppo economico, e qualunque critica internazionale alla gestione delle risorse brasiliane un’intromissione nelle decisioni sovrane del Paese. In effetti, parte del disboscamento è legata a piani di sviluppo territoriale del governo, come la pavimentazione delle strade e autostrade che collegano la città di Manaos, agglomerato da 2,2 mln di abitanti nel cuore dell’Amazzonia, alle principali città brasiliane. Il governo Bolsonaro ha eroso le capacità operative degli organismi statali creati per affrontare il fenomeno della deforestazione, salvaguardare la flora e la fauna, e garantire i diritti di cittadinanza delle popolazioni indigene. I rapporti ufficiali parlano di incendi intenzionali, deforestazione in parchi nazionali, estrazione mineraria abusiva in aree protette.
Le conseguenze sull’ambiente sono gravi, non solo per il Brasile, eliminando una delle poche difese naturali che la Terra ha contro il cambiamento climatico. La distruzione dei biomi amazzonici spiega il 55% delle emissioni totali di CO2 registrate nel 2021, le più alte da 20 anni. Secondo i modelli di predizione più accettati finora, il punto di non ritorno, poi il polmone verde del pianeta non sarà più riparabile, è la perdita del 25% del totale della superficie amazzonica originale. Oggi siamo al 18%, altra ragione per la quale la protezione della foresta pluviale è entrata a far parte delle agende multilaterali. Gli effetti immediati della deforestazione sono più visibili in Brasile, specialmente nel sud-est, dove le temperature della stagione secca negli ultimi 4 decenni sono aumentate in media di 2,5 gradi. Ed è quel che si prevede possa succedere su scala globale.
Il governo del Partito dei Lavoratori (PT) di Lula si è presentato come ultima speranza per dare il via a un percorso di cooperazione internazionale per mitigare i danni al sistema amazzonico. Il Green New Deal alla brasiliana prevede l’estensione delle zone protette, il rafforzamento delle agenzie di controllo e la creazione di nuove istituzioni dedicate all’Amazzonia, come il Ministero per gli Affari Indigeni, sovvenzioni all’agricoltura famigliare e sostenibile, incentivi alle aziende per applicare nuovi standard di produzione. Lula può già vantare ottimi risultati nella lotta al disboscamento. Si calcola che nei suoi 8 anni di governo la distruzione della foresta pluviale si sia ridotta del 70%. Eppure, i governi del PT non sono rimasti sordi di fronte agli interessi dell’agrobusiness. Tra il 2002 e il 2010 gli introiti del settore agricolo sono raddoppiati, e i prestiti per la produzione di carne bovina si sono moltiplicati, favorendo la lenta espansione delle praterie da pascolo a discapito delle aree naturali. Ma se Bolsonaro aveva addirittura posto diversi imprenditori agricoli a capo delle istituzioni che dovevano salvaguardare l’Amazzonia, Lula dovrà mostrare una svolta in quest’ambito, e raggiungere rapidamente gli obiettivi che si è prefissato.
Obiettivi per i quali il Brasile ha bisogno di ingenti fondi, che in mezzo alle ristrettezze economiche e la recessione sono difficili da trovare. É su questo aspetto che la nuova squadra presidenziale si è particolarmente prodigata dopo il trionfo di Lula a ottobre. In primo luogo, ottenendo dalla Corte Suprema la riapertura del Fondo Amazzonico, creato proprio durante il primo governo Lula, nel 2008, per ricevere donazioni internazionali che assicurassero le risorse di base per l’azione ambientale nella regione. La chiusura del Fondo e il congelamento del mezzo miliardo di dollari che vi rimaneva è stata una delle prime azioni di governo di Jair Bolsonaro nel 2019. Germania e Norvegia (paese che ha stanziato il 94% del denaro depositato nel Fondo Amazzonico) hanno già annunciato la loro intenzione di ripristinare l’invio di contributi. Durante il summit della Cop27 in Egitto, l’ex ministra per l’Ambiente e principale riferimento della politica ambientale del governo Lula, Marina Silva, ha esteso l’invito anche ai governi di Francia, Svizzera, Canada, Usa e Uk. Quello di Sharm el-Sheik è stato infatti il primo importante appuntamento nella costruzione della politica estera del Brasile. Lula si è presentato come un nuovo leader nella lotta contro il cambio climatico, disposto ad assumere il protagonismo della discussione globale sulla cooperazione ambientale. Frutto di questa scelta è l’impegno a ospitare la Conferenza delle Parti sul Clima dell’Onu in Amazzonia nel 2025.
Un’agenda che è vista di buon occhio da parte delle principali potenze globali e che potrebbe avvicinare l’amministrazione Lula ai leader della politica e dell’economia anche su altri dossier. Washington appare disposta a cogliere l’opportunità, già a novembre l’amministrazione Biden stava studiando la possibilità di applicare il Magnitsky Act sulle sanzioni a individui contro i responsabili della distruzione della regione Amazzonica in Sudamerica. Se per la sinistra tradizionale latinoamericana (e per Bolsonaro) una simile possibilità era vista un’intollerabile intromissione Usa negli affari domestici, oggi il governo Lula la prende come un’opportunità di collaborazione internazionale per ripristinare il ruolo del Brasile nel mondo. “Siamo più isolati di Cuba, che vive un embargo durissimo da 60 anni” ha ripetuto in campagna elettorale l’attuale Presidente, che durante i suoi governi ha portato il Brasile a un ruolo di primo piano nel G20, nei Brics, e su scala regionale con la creazione dell’Unione Sudamericana delle Nazioni (Unasur) e la Comunità degli Stati Latinoamericani e dei Caraibi (Celac), a cui il Brasile ha smesso di partecipare attivamente dal 2019.
Proprio l’aspetto sudamericano è uno dei più rilevanti nella questione amazzonica. Il bacino forestale comprende anche paesi come il Venezuela, con cui Brasilia ha già riallacciato relazioni diplomatiche, Colombia, Ecuador, Perù, Bolivia, Suriname e Guiana. La cooperazione internazionale tra questi paesi è scarsa e spesso legata a impegni bilaterali, e il Brasile, da leader globale sulla questione climatica, si appresta a raccogliere anche la sfida continentale.
Si noti inoltre che il Brasile confina con la Francia proprio nella zona amazzonica: la Guayana Francese è uno dei Dipartimenti d’Oltremare controllati dal governo di Parigi, con cui Lula ha stabilito buone relazioni fin dalla campagna elettorale. Macron lo ha ricevuto infatti con gli onori di un presidente ancor prima di essere eletto. L’entourage di Lula porta avanti poi un dialogo stretto coi governi di Indonesia e Repubblica Democratica del Congo, gli altri due paesi con la maggior superficie di foresta tropicale al mondo. Un dossier, quello della “cooperazione sud-sud”, che è stato uno dei capisaldi della politica estera brasiliana durante i governi del PT. Certo, i risultati non arriveranno subito. In parte perché il sistema statale dedicato alla conservazione dell’Amazzonia è duramente provato dalle misure adottate negli ultimi anni. Sostituire i funzionari senza ricorrere ai diktat dell’amministrazione precedente non sarà facile. E poi perché i primi dati concreti sullo stato della foresta pluviale si conosceranno a luglio, e includeranno anche gli ultimi sei mesi dell’amministrazione Bolsonaro, che sconfitto alle urne, ha lasciato carta bianca ai suoi sottoposti per ampliare il più possibile la cosiddetta “frontiera agricola” prima dell’avvicendamento presidenziale.
La questione Amazzonia resta comunque la direttrice della proiezione geopolitica del Brasile di Lula nei prossimi mesi. Un elemento attraverso il quale ripristinare il posto del gigante sudamericano nelle istituzioni della governance globale, e poterne anche influenzare le decisioni.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/marzo di eastwest
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Questo articolo è stato pubblicato sul numero di settembre/ottobre di eastwest.
Lo spettro del golpe cala nuovamente sul Brasile in vista delle elezioni del prossimo 2 ottobre, e a sbandierarlo è lo stesso Governo in carica. Dopo le critiche ricevute all’estero e in patria per la gestione della pandemia di Covid-19, che ha provocato più di 682mila morti in Brasile, il Presidente Jair Bolsonaro ha inizialmente impostato la sua strategia di campagna per la rielezione sulla denuncia di possibili brogli. Già nel 2021 la Corte Suprema ha aperto un’indagine contro l’ex capitano dell’esercito brasiliano per la diffusione di notizie false intorno al sistema elettorale.
A luglio la presidenza ha addirittura riunito una cinquantina di diplomatici stranieri per illustrare le presunte debolezze del meccanismo elettronico con cui il Paese vota dal 1996. Un incontro che ha acceso campanelli d’allarme non solo a Brasilia: il Presidente statunitense Joe Biden ha subito istruito il suo segretario per la Difesa, Lloyd Austin, affinché rivolgesse un chiaro discorso a favore della democrazia ai generali dell’esercito brasiliano durante la XV Conferenza dei Ministri della Difesa delle Americhe svoltasi proprio in Brasile. Una strigliata insomma, che si aggiunge agli appelli lanciati in patria anche da settori che in passato hanno permesso l’arrivo al potere dell’estrema destra. All’inizio di agosto, ad esempio, ha fatto scalpore una lettera aperta in difesa della democrazia e tra le firme vi sono anche quelle dei CEO di circa 4.000 aziende che producono un terzo del Pil del Brasile, oltre ai rappresentanti di potentissime corporazioni industriali come la Federazione dell’Impresa dello Stato di San Paolo (Fiesp) o la Camera Americana di Commercio (Amcham). Un gesto che ha segnato una chiara frattura tra il presidente e un settore molto influente dell’establisment, proprio mentre Bolsonaro affronta una campagna elettorale in salita: secondo tutti i sondaggi pubblicati sinora, l’ex Presidente Luiz Inacio Lula da Silva ha un vantaggio del 10% circa su Bolsonaro, che avrebbe inoltre poche possibilità di vittoria in vista di un quasi certo secondo turno.
I risultati ottenuti nel comparto dell’economia durante i quattro anni di Governo Bolsonaro non aiutano certo la campagna dell’attuale Presidente. Il Pil brasiliano si è contratto fino allo 0,8% di crescita annua stimata per quest’anno dal Fondo monetario internazionale, un vero e proprio record negativo per il gigante sudamericano. Durante i governi di Fernando Henrique Cardoso (1995-2003) e lo stesso Lula da Silva (2003-2011), la crescita si è mantenuta in media tra il 3% e il 5,5%, ora il Brasile occupa il posto 180 su 193 paesi del World Economic Outlook del Fmi con risultati ben al di sotto della media latinoamericana (2,5%). Anche nella lotta alla disoccupazione il Governo Bolsonaro ha mostrato serie difficoltà. La riforma del lavoro voluta dall’ex Presidente Michel Temer, e che Bolsonaro difende nel suo programma elettorale, non ha ridotto il tasso di disoccupati nel paese che, invece, si attesta al 13,4% di media negli ultimi quattro anni. Ma il dato più preoccupante è sicuramente quello degli investimenti. Il Brasile è stato infatti storicamente la piattaforma d’ingresso per i capitali internazionali che aumentavano poi la propria presenza nel resto della regione. Ma nell’ultimo decennio questo fenomeno ha subito una battuta d’arresto. Gli investimenti internazionali sono piombati al 16,3% del Pil durante la gestione Bolsonaro, ben al di sotto della media mondiale durante lo stesso periodo (26,8%) e anche di quella regionale (19,3%).
Buona parte di questi risultati sono frutto delle decisioni prese dal Ministero dell’Economia negli ultimi anni, come l’innalzamento dei tassi d’interesse, le restrizioni all’accesso al credito e le liberalizzazioni attuate nel mercato del lavoro. Tutte misure che Lula promette di contrastare con un forte intervento statale nei principali comparti della produzione e il potenziamento del welfare. Il programma della “Coalizione Brasile della Speranza”, che sostiene l’ex Presidente e leader della sinistra brasiliana, non è altro che un aggiornamento di quello sostenuto durante i tre governi del Partito dei Lavoratori (PT) tra il 2003 e il 2016, a cui però ha scelto di dare un taglio più moderato per assicurarsi i voti del centro. Il PT ha infatti siglato un accordo con Geraldo Alckmin, ex governatore conservatore di San Paolo che sarà candidato a vicepresidente di Lula. L’unione, assolutamente innaturale e impensabile fino a qualche mese fa, punta a destare nei votanti di centro una maggior adesione al fronte anti-Bolsonaro di cui Lula è ormai l’insegna, a rassicurare i grandi settori industriali riluttanti a una possibile svolta a sinistra del paese, e a ridurre l’effetto dell’antilulismo, che tra il 2014 e il 2018 ha alimentato la crescita dell’estrema destra brasiliana. La moderazione di Lula poi, non è certo una novità. Già nel 2003, quando vinse la sua prima elezione presidenziale, il leader sindacale barbuto aveva lasciato spazio allo statista, che preannunciava grandi cambiamenti sociali senza intaccare la struttura economica brasiliana. E così fu. Con una politica di conciliazione tra capitale e lavoro, riforme sociali, rafforzamento del welfare e apertura al mercato internazionale il PT si assicurò un secondo mandato per Lula e la vittoria di Dilma Rousseff nel 2010.
A sancire la fine del progetto della sinistra fu l’ondata di scandali di corruzione rivelati a partire dal 2014, che investirono tutte le forze politiche brasiliane e favorirono la crescita di Bolsonaro, autodefinitosi un outsider nonostante avesse quasi trent’anni di esperienza come deputato, e fosse sostenuto dalle potentissime chiese pentecostali, le forze armate e gli imprenditori legati all’agrobusiness. Oggi quel fronte sembra essersi sgretolato. Un recente sondaggio di Folha de São Paulo rivela che tra gli evangelisti la corsa tra Lula e l’attuale Presidente è quasi pari. E sebbene l’esercito, che dal 2018 occupa posti rilevanti nell’amministrazione Bolsonaro, si mantenga fedele al leader dell’estrema destra, i comandi hanno preso le distanze dalle critiche al sistema elettorale del presidente e difficilmente si imbarcherebbero in una nuova avventura golpista. I militari sono stati spesso posti a capo della gestione degli enti e istituti specializzati che rispondono al Governo federale, indebolendone l’azione nei comparti più ostili all’esecutivo di Bolsonaro, come la politica indigena, il contrasto agli incendi e la deforestazione nell’Amazzonia o le miniere abusive. Una prassi che ha però gettato un certo discredito sulle forze armate di fronte all’opinione pubblica.
A livello internazionale l’attenzione sulle elezioni brasiliane si mantiene alta. Bolsonaro si è dimostrato un vero e proprio ostacolo per gli interessi degli Usa nella regione, specialmente nell’ambito della gestione dell’Amazzonia e la cooperazione durante la pandemia. Anche i Paesi europei, e in special modo la Francia, che condivide 730 chilometri di frontiera col Brasile nella Guyana Francese, attendono con interesse i risultati del 2 ottobre, in vista soprattutto di una rinegoziazione dei termini del Trattato di Libero Scambio tra Ue e il Mercosur. Ma è in America Latina dove le attese sono più vivide. Un nuovo Governo Lula potrebbe favorire la coordinazione tra le diverse sinistre latinoamericane giunte al potere negli ultimi mesi, e che non sembrano avere alcuna piattaforma comune. Il PT ha già saputo far coincidere il Venezuela di Chavez col Cile di Bachelet su certe tematiche comuni a livello sudamericano, ha favorito la nascita dell’Unasur e la svolta a sinistra nella segreteria dell’Organizzazione degli Stati Americani. Una nuova stagione progressista nel regionalismo latinoamericano potrebbe dare maggior impulso ai governi di sinistra della regione che affrontano seri problemi di stabilità interna. E un Brasile governato da Lula potrebbe essere il primo passo in quella direzione.
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Questo articolo è pubblicato anche sul numero di maggio/giugno di eastwest.
L’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina ha creato condizioni inattese nella periferia del sistema internazionale. Nella maggior parte dei Paesi latinoamericani si è aperto il dibattito intorno alla creazione di nuove imposte per tassare i ricavi straordinari ottenuti dai comparti della produzione alimentare ed energetica grazie all’impennata dei prezzi di cereali e idrocarburi. Il Venezuela in particolare mira ad approfittare della congiuntura per migliorare la propria posizione internazionale di fronte alle potenze occidentali. E in parte ci sta riuscendo.
A inizio marzo una delegazione di alti funzionari Usa guidata da Juan González, Consigliere per l’America Latina della Casa Bianca, ha incontrato a Caracas i rappresentanti del Governo di Nicolás Maduro per discutere un allentamento delle sanzioni che pesano sull’export del petrolio venezuelano dal 2019. I contenuti di quella riunione non sono stati rivelati, ma alcune mosse fatte in seguito permettono di interpretarne l’indirizzo: il governo venezuelano ha rilasciato, pochi giorni dopo l’incontro, due dei cinque direttori statunitensi della Citgo Petroleum Corporation arrestati nel 2017 per frode ai danni della statale Petróleos de Venezuela (Pdvsa). In California, intanto, la multinazionale petrolifera Chevron Corp ha creato un gruppo di esperti per negoziare col Tesoro a Washington la riattivazione delle proprie attività nelle quattro joint venture che condivide con la Pdvsa. Prima delle sanzioni imposte dalla Casa Bianca, il tandem venezuelano-statunitense produceva circa 200.000 barili di petrolio al giorno, oggi ridotti a poco più della metà. Le conversazioni includerebbero anche la cessione a Chevron del controllo di diversi settori della produzione da parte delle autorità di Caracas, oltre alle autorizzazioni oil-for-debit per aziende internazionali che mantengono debiti con gli Usa dovuti alla sospensione delle proprie attività in Venezuela, tra cui la spagnola Repsol e l’italiana Eni SpA.
A prima vista, l’equazione sembra semplice: dopo aver sospeso le importazioni di greggio dalla Russia a causa della guerra, l’amministrazione Biden sarebbe disposta a mettere in soffitta le accuse di violazione ai diritti umani contro Caracas pur di sostituire il petrolio russo con quello venezuelano. Eppure la questione è molto più complessa. In parte perché le importazioni di petrolio dalla Russia rappresentano una minima parte del fabbisogno statunitense, che ben potrebbe essere rimpiazzato per altre vie. E poi perché il Venezuela tarderebbe anni a raggiungere una produzione sufficiente a sopperire le necessità del mercato Usa. Secondo le più rosee previsioni, una cancellazione delle sanzioni sul petrolio permetterebbe al Venezuela di produrre circa 1,5 milioni di barili al giorno a fine 2023, appena sufficienti a ridurre l’impatto della carenza energetica sul prezzo della benzina nei distributori degli Usa. Il tracollo dell’industria petrolifera venezuelana è infatti gigante. Nel 2016 il Venezuela produceva circa 2,3 milioni di barili di petrolio al giorno. Nel marzo del 2022 la media era di 755.000. Il Paese con le più grandi riserve al mondo di greggio ha dovuto importare petrolio dall’Iran nel 2019 per far fronte alla crisi. Senza la collaborazione tecnica delle imprese straniere dunque, l’oro nero venezuelano resterà sottoterra.
Le ragioni di un possibile disgelo nelle relazioni tra Washington e Caracas bisogna dunque cercarle nelle proiezioni dell’emisfero a medio e lungo termine. E in questo ambito, il Governo di Maduro sta cercando di mostrare un volto più tollerabile per la Casa Bianca. A partire dal 2019 si assiste a una dollarizzazione de facto dell’economia locale: il 70% delle transazioni commerciali avvengono in valuta statunitense col beneplacito delle autorità locali. L’inflazione annua è piombata così dal 2.295.981% del 2017 al 250% previsto per il 2022. Il Governo ha progressivamente liberalizzato l’importazione in alcuni comparti dell’economia, ha stipulato nuovi contratti con attori privati e incentivato la nascita di una nuova élite economica, meno legata all’opposizione conservatrice tradizionale.
Anche sul piano politico il chavismo ha fatto concessioni tese a migliorare il proprio posizionamento internazionale: ha avviato un tavolo di negoziazioni con l’opposizione in Messico con la mediazione del Governo norvegese; ha richiesto l’invio di una Missione di Osservazione Elettorale dell’Unione europea durante le elezioni legislative del 2021, le prime con la partecipazione della maggioranza dell’opposizione in anni; e ha recentemente riaperto l’ufficio della Corte penale internazionale a Caracas, tribunale che ha tra le mani diverse denunce per violazione dei diritti umani contro le autorità venezuelane. Rappresentanti venezuelani hanno incontrato a marzo anche l’Alto rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, e si sono mostrati disposti al dialogo per la revisione delle sanzioni che Bruxelles ha imposto dal 2019.
E poi, il contesto regionale è certamente cambiato. Il Gruppo di Lima, che dal 2017 riuniva i Governi conservatori del continente in chiave anti-venezuelana si è praticamente sciolto, e i falchi che chiedevano la cacciata di Maduro come condizione per ristabilire le relazioni col Venezuela oggi sono sempre meno. A metà aprile un messaggio importante è arrivato da Buenos Aires: il Presidente argentino Alberto Fernandez, che detiene la presidenza temporale della Comunità di Stati Latinoamericani e dei Caraibi (Celac), ha lanciato assieme al Presidente ecuadoriano Guillermo Lasso l’appello per integrare nuovamente Caracas a pieno nella diplomazia latinoamericana.
In questo contesto, l’invasione russa in Ucraina apre nuove possibilità per il Venezuela. Difficile ancora parlare di un vero e proprio disgelo con la Casa Bianca. Gli ostacoli per un accordo sono molti. Washington pretende la celebrazione di elezioni trasparenti nel breve termine per allentare le sanzioni mentre Caracas vuole la sospensione immediata delle restrizioni imposte alla propria economia. E poi c’è il fattore russo. Dallo stabilimento dell’Alleanza Strategica siglata dall’ex Presidente Hugo Chavez e Vladimir Putin nel 2005, il Cremlino si è trasformato in uno dei principali sostenitori del Governo venezuelano. Fino al 2010 è stato il principale rifornitore di materiale militare di Caracas, superato poi dalla Cina. In Venezuela è attivo il sistema antiaereo S-300, che oltre all’uso di munizioni di fabbricazione russa prevede la presenza di personale militare russo in territorio venezuelano per il mantenimento e addestramento degli addetti locali. Fare pressione sul principale alleato del Cremlino nell’emisfero – disposto comunque a lasciarsi tentare – potrebbe portare qualche risultato a favore di Washington nel futuro.
Sta di fatto che la Casa Bianca sembrerebbe aver compreso che la linea dura nei confronti di Maduro non porta da nessuna parte, ed evidentemente vorrebbe evitare il protrarsi della tensione a lungo termine nel “giardino di casa”, come nel caso cubano. La differenza tra la gestione Trump e quella di Biden è che oggi è ormai chiaro a chiunque che qualsiasi cambiamento in Venezuela deve includere il chavismo come un attore politico di peso. L’intransigenza di Juan Guaidó, riconosciuto in passato come legittimo presidente sia da Trump sia da Biden, e delle comunità di espatriati in Florida non hanno più lo stesso effetto sugli interessi della Casa Bianca, per il semplice fatto che questi si sono dimostrati inconcludenti ed inaffidabili. Le pressioni per la sospensione delle sanzioni sul comparto petrolifero venezuelano oggi giungono anche dai settori impresari del Paese sudamericano, dalle multinazionali del settore, e la sospensione ha ormai il beneplacito di dirigenti politici democratici e repubblicani.
Per il Venezuela il principale obiettivo è rompere l’isolamento a cui è condannato da quasi 5 anni. Mantenere, anche solo dal punto di vista della retorica, il proprio allineamento a favore della Russia non sembra bastare per frenare il lento cammino verso la normalizzazione delle relazioni con il resto del sistema internazionale. Processo ormai visto come una necessità anche fuori dal Venezuela.
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Nel 2011, in uno dei momenti più algidi delle proteste degli universitari cileni contro il modello privato di educazione superiore, il Presidente Sebastián Piñera, allora al suo primo mandato, si rifiutò di ricevere i leader del movimento studentesco. Dieci anni più tardi Piñera è costretto ad accogliere al Palacio de la Moneda uno di quei dirigenti rigettati perché considerati violenti e sovversivi, come Presidente eletto. Gabriel Boric sarà, a partire dall’11 marzo, il Presidente più giovane della storia del Cile, e anche quello più votato, dopo aver battuto per più di 11 punti il candidato dell’estrema destra José Antonio Kast al ballottaggio di domenica. Il Boric del 2021 è il rappresentante di un movimento a cui lo stesso Piñera, in un’ennesima dimostrazione della miopia dell’élite conservatrice cilena, aveva apertamente “dichiarato la guerra” verso la fine del 2019, quando le piazze di Santiago straripavano di giovani che chiedevano la fine del modello sociale ed economico impiantato dalla dittatura di Augusto Pinochet, e sostenuto dai Governi democratici eletti a partire dal 1990.
Il programma del nuovo Presidente è infatti diametralmente opposto ai cardini del sistema attuale cileno: aumento delle imposte fino all’8% del Pil, riforma del sistema pensionistico oggi totalmente privatizzato, legalizzazione dell’aborto, maggior partecipazione di donne e popoli indigeni nelle istituzioni di Governo, aumento del salario minimo, riduzione della giornata di lavoro e gratuità dei sistemi di salute e sanità. Un programma ambizioso, tenendo in conto che Apruebo Dignidad, la coalizione di Partito comunista e Frente Amplio che sostiene Boric, avrà solo 37 deputati su 155, e che in un congresso fortemente polarizzato il Governo faticherà molto per approvare riforme radicali. In parte questo problema ha segnato la campagna di Boric al secondo turno. L’ex leader delle manifestazioni studentesche ha moderato di molto il proprio discorso, cercando di captare il voto di centro e promettendo un Governo di compromessi con tutti i settori della politica.
Il Cile è uno dei Paesi coi migliori indicatori di uguaglianza economica dell’America Latina, in cui però le fasce medie non possono accedere a servizi basici come salute, educazione, o addirittura l’acqua, senza indebitarsi vita natural durante. È questa la pesantissima eredità lasciata dagli alunni cileni di Milton Friedman, approdati alle più alte cariche dello Stato cileno grazie al sanguinoso golpe portato avanti da Pinochet nel 1973, primo fra tutti José Piñera, fratello dell’attuale presidente e ministro dell’economia durante la dittatura. I “Chicago Boys” del guru di Capitalismo e Libertà hanno impostato un sistema profondamente liberista, blindato dalla Costituzione del 1980, che gira intorno all’idea di sussidiarietà dello Stato: la gestione della vita economica delle persone deve essere integralmente consegnata in mano ai privati e i poteri pubblici intervengono solo se questi non possono garantire le prestazioni pattuite.
La vittoria di Gabriel Boric, che aveva solo quattro anni quando Pinochet abbandonò il potere, rappresenta l’ennesimo colpo a questo modello spesso osannato dalle élite latinoamericane e occidentali, ma che la maggior parte dei cileni considera evidentemente esaurito. La retorica della realizzazione personale a partire dallo sforzo individuale si scontra in Cile con una realtà di privilegi ormai insostenibili. Secondo il Peterson Institute for International Economics, il 67% dei multimilionari in Cile deve la propria ricchezza all’eredità famigliare, il 17% alle proprie connessioni col mondo della politica e solo il 16% ha generato la propria fortuna a partire da investimenti produttivi o finanziari. Ed è questo il Cile che la generazione del nuovo Presidente conosce.
Un Governo di sinistra e una chiara egemonia delle diverse espressioni della sinistra cilena anche nella Convenzione Costituente, insediatasi a luglio, potrebbero essere la garanzia di una svolta storica per il Paese. La sinergia tra Governo e costituenti, sorti entrambi dai movimenti che hanno animato le proteste del 2019, sarà uno dei punti forza del nuovo esecutivo, il quale però dovrà fare i conti con pressioni domestiche ed esterne considerevoli affinché le riforme non modifichino l’assetto macroeconomico del Paese.
Il Cile è il principale produttore di rame del mondo. È il secondo alleato di Washington in America Latina dopo la Colombia. Vanta una proiezione naturale verso il commercio con l’Asia sul Pacifico e verso i territori antartici. È il Paese col maggior numero di trattati di libero scambio della regione e il primo sudamericano a entrare nell’Osce. Negli ultimi quarant’anni il Cile – così come il Messico a partire dagli anni ’80 – si è chiaramente differenziato dal resto dei Paesi latinoamericani che hanno cercato nell’integrazione regionale uno strumento per il proprio inserimento economico e politico nel sistema internazionale. Il Cile ha privilegiato gli accorti bilaterali con le principali potenze del mondo occidentale e il rendiconto garantito dai patti commerciali al di sopra dei legami di solidarietà coi propri vicini. Eppure, anche i capisaldi della politica estera cilena sembrerebbero esser messi in discussione dopo il risultato di domenica.
Il senatore Juan Ignacio Latorre, principale consulente in politica estera del nuovo Presidente, ha chiarito le principali linee guida della visione internazionale del nuovo Governo: nessun allineamento con l’asse bolivariano (Venezuela e Nicaragua in primis, da cui Boric ha già preso le distanze in campagna elettorale), equidistanza e autonomia nella relazione con Usa e Cina (divenuto il principale partner commerciale di Santiago) e ricerca di spazi di consenso e integrazione coi soci latinoamericani, specialmente coi Governi progressisti.
Il primo viaggio all’estero di Boric, secondo quanto trapelato finora, sarà Buenos Aires, con cui le tensioni per la sovranità del mare antartico sono scalate negli ultimi mesi, e parte del repertorio della campagna della destra di Kast. Il primo grande gesto verso la regione del nuovo Governo poi, oltre all’affermazione dell’asse con Buenos Aires, potrebbe essere la ratifica del Trattato di Escazú, primo accordo vincolante sull’ambiente in America Latina, proposto dal Cile di Bachelet e rifiutato in toto dal Governo Piñera. Dunque, un allontanamento dal cammino intrapreso finora, ma non una chiara rottura.
Quello di Boric è l’ennesimo trionfo della sinistra latinoamericana negli ultimi due anni, dopo quelli di López Obrador in Messico, Fernández in Argentina, Arce in Bolivia, Castillo in Perù e Xiomara Castro in Honduras. E c’è già chi lancia previsioni rosee per il progressismo latinoamericano viste le chiare possibilità di vittoria di Gustavo Petro in Colombia e Lula da Silva in Brasile nel 2022. Le condizioni attuali però sono molto diverse da quelle della “marea rosa” del decennio 2005-2015 in cui la stragrande maggioranza del continente era governata da movimenti appartenenti al Foro de São Paulo.
Le iniziative più innovatrici di quell’epoca (l’Unasur, la Banca del Sur o Petrocaribe) sono fallite miseramente appena è cambiato il vento a favore dei prezzi internazionali delle materie prime. I vizi del regionalismo latinoamericano, come l’estremo presidenzialismo, la subordinazione delle relazioni diplomatiche alle simpatie politiche dei Presidenti, o la sovrapposizione di organismi diversi con i medesimi compiti, rallentano ancora oggi i tiepidi processi di integrazione. L’estrazione politica dei movimenti al Governo oggi nei diversi Paesi latinoamericani, poi, è molto diversa e spesso slegata dall’andamento delle problematiche regionali. Molti dei Presidenti di sinistra sono duramente contestati in patria (da Fernández a Castillo, per non parlare del Nicaragua di Ortega) e hanno dimostrato scarsissima capacità di attrazione a livello latinoamericano.
Sebbene dunque sia molto presto per parlare di una nuova ondata progressista latinoamericana, l’arrivo di Boric al potere modifica chiaramente l’assetto del continente a favore di Governi che propongono politiche fiscali espansive, l’ampliamento del welfare, una nuova agenda verde e il sostegno alle rivendicazioni dei movimenti femministi.
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La decisione della Commissione europea di porre un freno all’importazione di prodotti provenienti da zone sospette di disboscamento ha provocato durissime reazioni in Brasile. Si tratta di un chiaro rafforzamento della politica ambientale dell’Unione, in linea col Green Deal europeo lanciato da Junker nel 2019 e le prerogative presenti nella Next Generation EU, ma che tende anche a cercare di riparare un danno di cui Bruxelles deve certo occuparsi: secondo il WWF, l’Ue è responsabile del 16% della deforestazione mondiale legata al commercio internazionale. Se approvato come previsto, il nuovo regolamento imporrebbe agli importatori europei di presentare una certificazione di “disboscamento zero” all’ingresso di materie prime generalmente associate al degrado forestale nel mondo. I prodotti sono proprio quelli più sensibili per il paniere commerciale brasiliano: soia, manzo, olio di palma, legno, cacao e caffè.
In un’intervista rilasciata al Financial Times, il Ministro degli Esteri brasiliano Carlos Alberto Franco França ha definito “miopi” e “protezioniste” le misure in discussione nel seno dell’Ue. “Quello che non possiamo accettare è che si usi l’ambiente per applicare forme di protezionismo commerciale. É un male per i consumatori e per i flussi commerciali. Penso che ci sia una certa miopia da parte dell’Ue”, ha sostenuto. Il coro di proteste levatosi a Brasilia è unanime. La misura è “inaccettabile e inammissibile”, secondo il Ministro dell’Ambiente, Joaquim Leite, nominato quest’anno per sostituire Ricardo Salles, indagato per contrabbando illegale di legno proveniente dall’Amazzonia.
“Protezionismo climatico” è invece la definizione usata dalla Ministra dell’Agricoltura, Tereza Cristina, soprannominata anni fa “la musa del veleno” per la sua crociata a favore dell’uso dei pesticidi industriali nel Paese. La reazione più dura però è stata quella dell’Associazione Brasiliana dei Produttori di Soia (Aprosoja), che in un comunicato ufficiale ha definito la misura dell’Ue come un affronto alla sovranità nazionale: “L’Europa non è più la padrona del mondo e il Brasile non è più una colonia”, avverte la potentissima confederazione agricola.
Per il Brasile in effetti un divieto simile potrebbe significare un duro colpo all’economia, già duramente provata dagli effetti della pandemia al commercio internazionale. O’Globo stima che le perdite potrebbero addirittura arrivare alla metà dei 47 miliardi di dollari annui derivati dalle esportazioni di materie prime dal Paese, se sommate alle ulteriori limitazioni introdotte a causa delle misure sanitarie durante gli ultimi mesi. L’Ue è il secondo partner commerciale del Paese dopo la Cina con più di 24 milioni di euro annui in esportazione di materie prime. L’apparente risolutezza con cui l’Ue ha deciso di subordinare la propria politica economica all’approvazione di riforme all’impianto dell’agrobusiness brasiliano è un duro colpo per il Governo Bolsonaro e approfondisce il distacco del gigante sudamericano dall’Europa, già evidente durante la crisi degli incendi nella foresta amazzonica del 2019.
In quel frangente fu il Presidente francese Emmanuel Macron a erigersi a portavoce dell’indignazione internazionale per la distruzione del cosiddetto “polmone verde del mondo”. Un ruolo dovuto non solo al fatto di considerarsi il portavoce dell’Accordo di Parigi, ma anche all’interesse diretto rappresentato dai 730 chilometri di frontiera che la Francia condivide col Brasile proprio nella zona amazzonica della Guayana Francese. E non a caso il principale rivale di Bolsonaro alle elezioni del prossimo ottobre, l’ex Presidente Luiz Inácio Lula da Silva, ha scelto proprio Parigi (e proprio Macron) per dare uno slancio internazionale alla propria campagna per il ritorno al Palácio do Planalto.
La Francia, insieme ad Austria e Irlanda, guida anche la cordata di Paesi europei che nel 2019 hanno imposto un veto all’implementazione dell’accordo di libero scambio tra Ue e Mercosur, negoziato per più di vent’anni e presentato come un trionfo diplomatico da parte dell’amministrazione Bolsonaro. La controparte europea teme proprio che l’azzeramento dei dazi all’ingresso delle merci sudamericane fungano da incentivo per il disboscamento e la distruzione ambientale, specialmente in Brasile. Il ritorno alle alleanze internazionali tradizionali, promesso dall’attuale Governo dopo l’avvento delle relazioni Sud-Sud promosse dagli esecutivi Lula e Rousseff (di cui il Brics è esempio principale), aveva retto fin lì grazie anche al sostegno dell’allora Presidente Trump. Ma per il Brasile la musica è decisamente cambiata: sia l’Ue sia gli Usa di Biden hanno posto in cima alle priorità della relazione bilaterale la questione amazzonica, su cui Bolsonaro però sembra non voler cedere.
Bolsonaro ha esordito nell’ambito della discussione sulle problematiche ambientali globali col ritiro del proprio Paese come sede della Cop25 nel 2018. Negazionista del cambiamento climatico, il Presidente brasiliano ha di fatto svuotato i meccanismi di controllo istituzionale volti a ridurre l’impatto dell’attività agricola sulla foresta pluviale e le popolazioni indigene che vi abitano. Sotto il suo Governo sono stati registrati i tassi più alti di disboscamento della storia recente del Brasile: 729.000 chilometri quadrati solo nel 2020, e per il 2021 si stima un aumento vicino al 20% rispetto a quella cifra.
Un disastro che però non porta solo la firma dell’attuale Presidente: nel 1985 solo il 6% della foresta amazzonica era stata sostituita dall’agricoltura, mentre nel 2020 si tratta ormai del 14,5%. Secondo la maggior parte dei ricercatori internazionali, a partire dal 20% di distruzione dell’estensione originale si supererebbe la soglia di irreversibilità del danno prodotto al complesso ecosistema amazzonico. Negli ultimi 35 anni sono stati rasi al suolo 74,5 milioni di ettari, e l’industria mineraria è cresciuta del 656%.
Un lento processo solo accelerato sotto l’attuale Governo. Proprio questa settimana è stato approvato un decreto che autorizza l’estrazione di oro in una vasta zona vergine a ridosso delle frontiere con Venezuela e Colombia, dove vivono 23 popolazioni indigene considerate “protette”. In un recente incontro a Dubai con potenziali investitori internazionali, Bolsonaro ha addirittura assicurato che l’Amazzonia è un “paradiso terrestre” che si trova oggi esattamente nelle stesse condizioni in cui l’hanno scoperta i conquistatori portoghesi nel 1500.
Con queste premesse, non sorprende che le iniziative per la protezione ambientale in Brasile siano piuttosto deludenti. Secondo un’editoriale di Folha de San Paulo pubblicato in occasione del summit della Cop26 di Glasgow, il Brasile non ha compiuto nessun progresso dai compromessi assunti dall’allora presidente Dilma Rousseff alla Cop del 2015. Di fatto, il “nuovo corso” della politica ambientale annunciato a Glasgow dal Ministro Leite non contiene altro che una ripresa degli impegni presi dal Brasile ai tempi della firma degli Accordi sul Clima di Parigi, alcuni giudicati poco credibili dallo stesso Bolsonaro (come quello di azzerare la deforestazione illegale entro il 2030) che hanno come principale obiettivo quello di alleviare la pressione internazionale su Brasilia. Proprio mentre Leite annunciava al mondo le misure adottate dall’esecutivo, l’Istituto nazionale di ricerche spaziali del Brasile (Inpe), incaricato del monitoraggio dell’estensione dell’Amazzonia, annunciava un nuovo record negativo: 13.235 chilometri quadrati di selva rasi al suolo tra agosto del 2020 e luglio del 2021.
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Il Cile dovrà scegliere il prossimo Presidente per il periodo 2022-2026 tra il rappresentante dell’estrema destra, José Antonio Kast, politico che in più di un’occasione ha rivendicato la dittatura militare di Augusto Pinochet, e Gabriel Boric, giovanissimo rappresentante della sinistra sorta dal movimento studentesco di inizio dei 2000 di cui è stato a lungo leader. Per la prima volta dal ritorno della democrazia nel 1990, le due coalizioni tradizionali di centrodestra, con a capo il Presidente attuale, Sebastián Piñera, e quella di centrosinistra guidata dalla Commissaria per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, Michelle Bachelet, non saranno presenti al secondo turno delle presidenziali.
Una svolta che ormai stupisce poco in realtà. Il risultato di domenica infatti solo può comprendersi se analizzato alla luce di quanto successo nell’ottobre del 2019, quando migliaia di studenti dei licei di Santiago (nell’enorme maggioranza studentesse, fatto tutt’altro che secondario) lanciarono un appello sui social a scavalcare i tornelli della metropolitana dopo la decisione del Governo di autorizzare l’ennesimo aumento dei biglietti. “Non sono trenta pesos, sono trent’anni”, divenne il leit motiv delle immense manifestazioni scatenate da quel gesto, e che hanno messo in scacco l’intera architettura istituzionale e politica costruita nel Paese dopo la caduta del regime di Pinochet. Il risultato di domenica dunque, segna ormai la fine di quel progetto, ma apre grandi interrogativi sul futuro.
Il Cile è stato durante anni il Paese modello del neoliberalismo latinoamericano. Primo Paese sudamericano a essere ammesso all’Osce, ha vantato durante più di vent’anni una crescita costante (circa il 7% del Pil annuo fino al 2011) e si è differenziato chiaramente dal resto dei Paesi della regione: mentre l’America latina cercava nel regionalismo e l’integrazione uno strumento per migliorare le proprie condizioni di inserimento nell’economia internazionale, il Cile ha teso sempre all’apertura nei confronti dei mercati internazionali e ai rapporti bilaterali con le grandi potenze, specialmente gli Usa. Proprio in questi giorni a Santiago si è conclusa la trattativa per l’ammodernamento del partenariato Cile-Ue, in controtendenza con il resto dei Paesi del Cono Sud, impantanati nell’accordo Ue-Mercosur da anni. Di fatto il Cile è il Paese col maggior numero di trattati di libero scambio del continente.
I pilastri dello sviluppo economico sono stati posti proprio durante il Governo di Pinochet. Uno di essi è rappresentato chiaramente dalle Afp, acronimo di Amministratrici di Fondi Pensione, gestite da privati che sfruttano il modello di capitalizzazione individuale per assicurarsi fondi d’investimento. Un sistema che ha cementato la fortuna di alcuni pochi speculatori e la condanna della maggioranza dei pensionati, che ricevono in media poco più di 300 euro al mese e sono obbligati in molti casi a lavorare in nero anche ben oltre i 65 anni per garantirsi la sopravvivenza.
Negli anni la logica delle Afp è stata applicata a buona parte degli aspetti della vita: l’accesso alla salute, all’educazione, all’alloggio o altri servizi è condizionato dalla capacità di contribuzione economica degli individui, che per garantirsi una vita dignitosa ricorrono ai prestiti. Secondo la Banca centrale del Chile, nel 2020 il 75% del reddito familiare nel Paese era interamente dedicato a pagare debiti. L’altro grande pilastro del modello cileno è contenuto nella Costituzione emanata nel 1980 sotto il regime di Pinochet, che sancisce il principio di sussidiarietà: lo Stato solo dovrà intervenire in quei comparti in cui il settore privato non possa prestare i servizi essenziali alla popolazione.
L’eliminazione delle Afp e del lucro sui servizi fondamentali sono il cavallo di battaglia del candidato della sinistra, il 35enne Gabriel Boric, che sebbene abbia moderato in buona parte il proprio discorso dai tempi in cui era Presidente della Fech, la Federazione universitaria cilena, raccoglie attorno a sé i principali movimenti che hanno animato le proteste contro il modello economico nazionale negli ultimi vent’anni. Riforma tributaria in senso progressivo, con patrimoniale inclusa, la creazione di un fondo universale di garanzia sanitaria, e l’allargamento dei diritti sociali per le minoranze etniche, la popolazione LGBTI e dei diritti delle donne sono alcuni dei punti forti del programma con cui cercherà di arrivare alla Moneda.
Per farlo però, sa di dover sedurre i votanti più moderati, quel 12% che ha scelto la candidata del centrosinistra Yasne Provoste, ma anche parte di coloro che hanno optato per opzioni più conservatrici. La netta virata verso il centro da parte di Boric, già collaudata negli ultimi mesi, ha però alimentato un certo disincanto nei movimenti di piazza, espresso anche attraverso l’astensione di domenica (superiore al 50% degli aventi diritto), e che permette di presumere che la conflittualità sociale che tiene banco ormai da due anni nel Paese potrebbe non smorzarsi nemmeno con l’arrivo della sinistra al potere.
Nel 2019 il Governo Piñera si è detto incapace di poter garantire la sicurezza per la realizzazione dei summit della Cop25 e dell’Asia-Pacific Economic Cooperation (Apec) nel 2019, un colpo duro anche per l’immagine internazionale del Paese, a causa delle manifestazioni e la repressione scatenata dalle forze dell’ordine. Sul piano domestico, per molti fu un’ammissione di incapacità. L’inizio di un processo di riforma della Costituzione del 1980, poi, è stato un colpo duro anche per buona parte della coalizione di Governo, che trent’anni fa partecipò attivamente alla redazione di quel testo costituzionale. Le concessioni fatte dopo la sconfitta alle elezioni della Convenzione costituente hanno infine calato il sipario sulle aspirazioni del settore che fa capo a Piñera di continuare nel potere, disfatta confermata col quarto posto raggiunto dal candidato del Governo, Sebastián Sichel, domenica scorsa.
È Antonio Kast il principale esponente della reazione più conservatrice all’ondata di protesta. Il fulcro del pensiero dell’estrema destra cilena sta nel voler porre limiti all’allargamento dei diritti garantiti dalla democrazia liberale a quelle minoranze escluse dalla vita politica cilena degli ultimi trent’anni. Indigeni, movimenti studenteschi e di sinistra, gruppi LGBTI, posti al margine de facto dal sistema istituzionale e giuridico, sono espressamente considerati un pericolo per la stabilità del Paese. Kast emerge, in termini di Alvaro Ramis, come rappresentante di quel pinochetismo sociologico che si può considerare trasversale alla società cilena – e precedente anche al golpe del 1973, come descritto da Isabel Allende ne “La casa degli spiriti”-, basato sui valori dell’individualismo, la meritocrazia, il rispetto per le tradizioni e le gerarchie, la concezione del diritto nella sua accezione più punitiva, e che appella alla destra come ultimo scoglio per la difesa di quella cosmo visione considerata al di sopra di qualunque discussione politica o elettorale. Ed è proprio contro quell’etica imposta a colpi di desaparecidos e persecuzioni che si è scagliata buona parte della società cilena negli ultimi anni.
Il fatto che Kast abbia ormai ottenuto lo scettro del restauratore, strappato alla destra moderata dell’attuale Governo, è confermato ad esempio dai voti ottenuti nelle due regioni militarizzate del sud dove impervia il conflitto per le terre col popolo Mapuche. Kast, che ha spesso legato le azioni delle organizzazioni indigene col “narcoterrorismo”, ha raccolto più del 42% dei voti nell’Araucania (il doppio rispetto a Boric) e il 32% nel Bio Bio. Poche settimane prima del voto ha addirittura azzardato l’idea di costruire una fossa lungo il confine per evitare l’ingresso di migranti, specialmente venezuelani, boliviani e peruviani.
Al di là di chi vinca il ballottaggio del 19 dicembre, il prossimo Presidente dovrà fare i conti con un Parlamento fortemente atomizzato, dove le coalizioni tradizionali mantengono a stento la prima e la seconda minoranza, ma sono obbligate a scendere a compromessi coi rappresentanti che siederanno ai due estremi dell’emiciclo sia al Senato sia alla Camera. Inoltre, continuano i lavori della Convenzione Costituente, dominata dalle diverse espressioni della sinistra cilena. Nel 2022 l’assemblea dovrà presentare il testo della nuova Costituzione, che sarà sottoposto a referendum per la sua approvazione. La vittoria di Kast potrebbe dare ai difensori della costituzione di Pinochet un’arma potentissima per far deragliare l’intero processo cominciato l’anno scorso, e dare un’impronta molto più conservatrice al “nuovo” modello cileno, sorto dalle ribellioni popolari di due anni fa.
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Il Presidente del Nicaragua, Daniel Ortega, e sua moglie e vice, Rosana Murillo, hanno confermato il loro incarico alla guida del Paese per altri 5 anni, in un’elezione fortemente contestata a livello domestico e internazionale. Secondo i dati del Consiglio supremo elettorale i coniugi Ortega hanno ottenuto più del 75% dei voti, e l’affluenza si è spinta oltre il 65% nonostante l’appello dell’opposizione a boicottare le urne. I candidati con maggiori possibilità di fare concorrenza al Governo sono stati sistematicamente incarcerati: Cristiana Chamorro, figlia dell’ex Presidente Violeta Chamorro (1990-1997), Félix Maradiaga, Arturo Cruz, Medardo Mairena, Miguel Mora, Noel Vidaurre e Juan Sebastián Chamorro sono stati arrestati a giugno con l’accusa di favorire l’ingerenza straniera, in base alla polemica “Legge sulla difesa dei diritti del popolo all’indipendenza, alla sovranità e all’autodeterminazione per la pace”, approvata nel dicembre 2020 dall’Assemblea nazionale, dove Ortega mantiene la maggioranza assoluta anche dopo il voto di domenica.
Tra gli incarcerati degli ultimi mesi, spiccano figure storiche del partito di Governo, il Fronte Sandinista per la Liberazione Nazionale (Fsln), guerriglia sorta negli anni ’60 dall’incontro di diverse esperienze della sinistra nicaraguense e che nel 1979 rovesciò la cruenta dittatura di Anastasio Somoza, ultimo rampollo del regime familiare iniziato con suo padre nel 1937. Dora María Téllez, conosciuta come “Comandante 2” ai tempi della rivoluzione sandinista è finita anch’essa a “El Nuevo Chipote”, il penitenziario dove si trovano sotto regime speciale 32 dei 34 dirigenti politici detenuti negli ultimi quattro mesi. Nella lista dei “cospiratori” anche Víctor Hugo Tinoco, viceministro degli esteri del Fsln tra il ’79 e il ’90, e lo scrittore Sergio Ramirez, vice Presidente dello stesso Ortega tra il 1985 e il 1990, ed esiliatosi in Spagna per scampare alle recenti purghe.
Buona parte di quel che sta accadendo in Nicaragua si spiega proprio a partire dalla decisione di Ortega di piegare l’allora movimento rivoluzionario a un nuovo corso politico. A partire dal suo ritorno alla presidenza nel 2007, la simbiosi tra partito e Stato si è fatta sempre più evidente, sfociando spesso nelle forme clientelari che la stessa sinistra nicaraguense ha combattuto per decenni. Espulse le dissidenze, riunite poi nel Movimento per la Rifondazione del Sandinismo a cui è stato addirittura impedito di presentare candidature in diverse elezioni, Ortega ha suggellato il patto tripartito che spiega la sua permanenza al potere fino ad oggi: con le grandi imprese nicaraguensi riunite nel Consiglio superiore delle imprese private (Cosep) e con le Chiese cattolica ed evangelica. Nel 2008 il Governo sbaragliò anche l’ultimo cavillo che permetteva la pratica dell’aborto in Nicaragua, siglando anche la fine dell’idillio tra femminismo e sandinismo; lo stesso Ortega è accusato di aver abusato per anni della figlia primogenita di Murillo, Zoilamérica, oggi esiliata in Costa Rica e simbolo dell’opposizione dei gruppi LGBTQI al Governo nicaraguense.
Erano i tempi di Petrocaribe, con cui il Venezuela di Hugo Chávez garantiva petrodollari al Centroamerica e Caraibi in cambio di servizi e materie prime, e Managua approfittò il vento a favore per rafforzare l’inattesa crescita economica. Ad approfittarne furono i potenti di sempre, come il Gruppo Pellas, proprietà di uno degli uomini più ricchi del continente, la finanziaria Promérica, l’holding Lafise o il Mercon Coffee Group, stabilirono un modello basato sul consenso tra partito ed establishment intorno alla politica economica che garantì a Ortega un decennio di stabilità. La riforma bancaria favorì gli affari delle famiglie più importanti del Paese, che hanno usufruito anche di ampi sgravi fiscali. Tra il 2000 e il 2017 la crescita si è mantenuta a una media del 3,9% annuo, permettendo al Governo di giovare anche di un alto grado di consenso popolare.
Il tramonto di questo connubio tra chiesa, partito e industria, le tre entità più importanti del Paese, è giunto nella più ampia crisi delle strutture economiche e finanziarie costruite da Caracas attorno alla cooperazione basata sul petrolio venezuelano. Nell’aprile del 2018 Ortega impose una serie di misure di austerity su richiesta del Fondo monetario internazionale, che provocarono una reazione popolare inattesa. Dopo cinque giorni di saccheggi e scontri, il Governo ritirò la riforma del sistema pensionistico al centro della contestazione, ma i tumulti non si arrestarono. Furono tre mesi di violenze e repressione, conclusi con più di 300 morti – la commissione parlamentare creata ad hoc ne ammise 269 -, centinaia di detenuti e circa 100.000 emigrati. Le chiese e i rappresentanti dell’industria ritirarono il loro appoggio al Governo e chiesero di anticipare le elezioni. Fu il punto di non ritorno.
Il Nicaragua è un territorio strategico per qualunque potenza che voglia esercitare la propria influenza sull’America centrale. Paese bioceanico ma ricco di acqua dolce, è stato recentemente al centro di un tentativo di Pechino di costruire un canale alternativo a quello di Panama, naufragato dopo la crisi del 2018 e il rafforzamento dei rapporti tra Managua e il suo tradizionale alleato di Taiwan. Durante più di dieci anni la stabilità del Nicaragua sandinista ha ricevuto il beneplacito più o meno esplicito di Washington, che dal 1986 deve 17 miliardi di dollari al Nicaragua in riparazioni imposte dalla Corte dell’Aja per attività terroristiche e il finanziamento illegale dei Contras degli anni Settanta proprio contro il Fsln. Oggi tra i due Paesi è vigente un accordo di libero scambio e gli Stati Uniti possono anche dirsi compiaciuti del flusso relativamente basso di migranti nicaraguensi che arrivano alla propria frontiera sud: un terzo rispetto ai salvadoregni e la metà dei guatemaltechi. Nonostante ciò, le rimesse dei migranti rappresentano un 15,3% del Pil del Paese.
Gli stretti rapporti del Governo di Ortega con Cuba, Venezuela e Russia – che nell’aprile 2017 ha inaugurato una base militare nella Laguna di Nejapa poco lontano dalla capitale – e la repressione scatenata contro le manifestazioni del 2018 hanno portato Washington ad approvare il Nicaraguan Investment Conditionality Act o Nica Act, con cui condiziona la cooperazione finanziaria alla realizzazione di elezioni libere e trasparenti. L’amministrazione Trump ha inasprito la stretta su Ortega imponendo sanzioni dirette a funzionari del suo Governo, ampliate quest’anno da Joe Biden. Anche l’Ue ha imposto sanzioni contro 14 membri del Fsln, recentemente estese fino a ottobre del 2022.
In questo contesto, la celebrazione delle elezioni di domenica, definite “una farsa” dalla Casa Bianca e “un fake” dall’ l’alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza e vicepresidente della Commissione europea, Josep Borrell, non fa altro che isolare ancor di più il Nicaragua. Anche il fronte latinoamericano sembra titubante nel sostenere Ortega in questo frangente. L’asse progressista formato da Argentina e Messico, che si è astenuto nelle votazioni delle risoluzioni dell’Organizzazione degli Stati Americani contro il Governo di Managua adducendo di voler restare ligi al principio di non ingerenza negli affari domestici, questa volta ha reagito molto timidamente. Buenos Aires ha pubblicato un messaggio via Twitter condannando le detenzioni degli oppositori mentre il Governo di Lopez Obrador non si è nemmeno espresso. Anche il Perù di Pedro Castillo, l’ultimo leader della sinistra latinoamericana giunto al potere a giugno ha preso le distanze da Ortega.
Resta chiaro dunque che questa tornata elettorale non fa altro che acuire l’isolamento del Nicaragua, che si allinea definitivamente con l’asse Caracas-La Avana-Mosca (e Taipei, attore di prim’ordine nella politica nicaraguense). Ennesimo grattacapo in America latina per la superpotenza a stelle e strisce, già impegnata con le difficili situazioni di El Salvador e Honduras. Ma anche un nuovo spartiacque da imporre per stabilire alleanze e ostilità nell’emisfero occidentale.
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Il Senato brasiliano ha confermato l’accusa di “crimini contro l’umanità” formulate da una commissione d’inchiesta contro il Presidente Bolsonaro per la gestione della pandemia, che in Brasile ha lasciato 605.000 morti. Il leader dell’estrema destra sudamericana, intanto, cerca di gestire il tracollo economico e la campagna per la rielezione nel 2022
Il Governo del Presidente brasiliano Jair Mesias Bolsonaro ha deliberatamente diffuso informazioni false sul Covid-19, ha intralciato le campagne sanitarie, impedito l’accesso ai vaccini e promosso terapie alternative che hanno messo a rischio la salute dei brasiliani. Queste sono solo alcune delle conclusioni shock a cui è giunta la Commissione parlamentare d’inchiesta (Cpi) creata ad aprile al Senato e che ieri ha votato l’invio del plico alla magistratura.
Le accuse includono reati come prevaricazione, “ciarlataneria”, diffusione di epidemia, violazione delle misure sanitarie preventive, impiego irregolare di fondi pubblici, corruzione, peculato, concussione, istigazione a delinquere e falsificazione di documenti privati. Ventitré capi d’accusa per ottantuno uomini di potere e due aziende prestatrici di servizi allo Stato. Per alcuni, le condanne potrebbero superare i 50 anni di reclusione. L’accusa più pesante ricade su Bolsonaro: crimini contro l’umanità, “nelle modalità di sterminio, persecuzione e altri atti disumani”, secondo il testo presentato lo scorso 23 ottobre. Circa la metà delle 605.000 morti che ha causato il Covid in Brasile sono dunque da attribuire al Presidente, secondo la maggioranza del Senato. Quest’ultimo ha chiesto anche la sospensione degli account YouTube, Twitter, Facebook e Instagram del Presidente a tempo indeterminato, dopo che Bolsonaro avrebbe associato i vaccini contro il Covid alla diffusione dell’Aids durante uno streaming sui social.
Tra gli accusati anche il Ministro della Salute, Marcelo Queiroga, e l’uomo forte dell’esercito brasiliano dentro al Governo, Walter Braga Netto, oltre ad altri due Ministri in carica. I due figli parlamentari del Presidente, Eduardo e Flavio Bolsonaro sono anch’essi nella lista che nelle prossime ore passerà in mano al procuratore generale del Brasile, Augusto Aras, con l’accusa di incitazione a delinquere avanzata anche contro altri otto legislatori. Furono proprio loro i primi a lanciarsi contro le misure sanitarie imposte negli stati dove sono stati eletti, San Paolo e Rio de Janeiro.
Di certo però non si tratta della prima accusa grave che riceve il Presidente brasiliano. Solamente nel 2021 sono state presentate due azioni legali presso la Corte internazionale dell’Aja: una interposta dall’Articolazione dei Popoli Indigeni del Brasile, per genocidio contro le comunità originarie; e l’altra, presentata dalla Ong austriaca AllRi per delitti contro l’umanità ed ecocidio, dovuti alla negligenza del suo Governo nel fermare la distruzione della foresta amazzonica. Nel cassetto della presidenza della Camera a Brasilia riposano pure 105 richieste di impeachment contro il Presidente presentate dall’opposizione e sistematicamente archiviate dalle autorità di entrambe le camere, strategicamente scelte tra gli alleati di Bolsonaro. Anche il procuratore Aras è stato indulgente nei confronti del presidente durante gli ultimi 3 anni, evitandogli seri guai con la giustizia, e si presume che anche in questa occasione le conseguenze giudiziarie per il Governo saranno molto leggere nel breve termine.
Il blindaggio che gli assicurano la maggioranza del congresso e le alleanze tessute nella magistratura, fa sì che sia molto difficile pensare a un epilogo del Governo prima di fine mandato, previsto per gennaio del 2023, nonostante la gravità delle prove. Ma la Corte Suprema ha tra le mani due procedimenti giudiziari che potrebbero risultare in un impiccio. Il Presidente, dunque, ha voluto mostrare alla magistratura il suo potere, prima facendo sfilare i carri armati di fronte alla sede della Corte, poi presentandosi accompagnato da decine di migliaia di sostenitori nella spianata delle istituzioni di Brasilia che minacciavano di irrompere in tribunale e in parlamento con la forza.
Poche ore prima della pubblicazione del rapporto della Cpi, l’ennesimo terremoto politico si è abbattuto sul Ministero dell’Economia, guidato dall’ultra liberista Paulo Guedes. Cinque assessori di alto livello hanno consegnato le dimissioni dopo che Bolsonaro ha ordinato di sforare il limite imposto alla spesa pubblica dalla riforma costituzionale del 2016, per elargire sovvenzioni da 400 Reali (circa 60 euro) a 17 milioni di famiglie, proprio quando si comincia a entrare in clima di campagna elettorale. L’abbandono della ricetta ortodossa che Guedes, uno dei cosiddetti Chicago Boys dell’economia latinoamericana, ha difeso a spada tratta negli ultimi tre anni di Governo, ha provocato una caduta immediata del 7,3% della borsa di San Paolo.
L’instabilità del gigante brasiliano, seconda potenza economica dell’America Latina dopo il Messico, è una delle principali preoccupazioni per l’economia della regione. Il principale gruppo d’investimento finanziario del Paese, Itaù, ha rivisto al ribasso le previsioni economiche per l’anno in corso che chiuderà con una contrazione del 0,5% del Pil. Il Brasile è inoltre l’economia del G20 col minor tasso di crescita previsto dal Fondo monetario internazionale per il 2022 (1,5%).
Con una disoccupazione record del 14% e l’inflazione in crescita, ormai vicina al 10% annuo spinta soprattutto dall’aumento dei combustibili (+73% negli ultimi 12 mesi) Bolsonaro ha recentemente riportato a galla la proposta di privatizzare la compagnia energetica più grande dell’America Latina, Petrobras. Il potentissimo settore industriale di San Paolo, fondamentale per permettere all’attuale Presidente di vincere le elezioni del 2018, è sempre più restio ad accompagnare le crociate del Governo, come quella che ha messo in crisi il Mercosur negli ultimi mesi, o il negazionismo sfoggiato durante la crisi sanitaria nel Paese.
Per Bolsonaro la colpa del pessimo momento degli attivi brasiliani nei mercati mondiali è della Cpi, che con le sue accuse contro il Governo “lede l’immagine del Paese nel mondo”. Eppure è proprio il suo Governo a essere sempre più isolato internazionalmente. Da alleato strategico della Casa Bianca ai tempi di Trump, al punto di abbandonare la Comunità degli Stati Latinoamericani e dei Caraibi (Celac), a bersaglio mondiale delle critiche per la gestione dell’Amazzonia, della pandemia e del conflitto indigeno. Quando presentò la sua candidatura a Presidente nel 2017 però, nessuno lo prese sul serio. E oggi nessuno osa darlo per spacciato.
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Lo Stato centroamericano si appresta ad andare alle urne in mezzo a una fenomenale crisi sociale e una dirigenza politica formalmente accusata di collusione col narcotraffico. Eppure Tegucigalpa è chiave per il disegno geopolitico di Washington nel “Mediterraneo americano”.
Venerdì notte nella tangenziale che cinge il distretto di Choluteca, nel sud dell’Honduras, è stato crivellato il candidato a sindaco del municipio di Santa Ana de Yusguare, Nery Fernando Reyes, del partito Libertà e rifondazione (Libre). Secondo l’Osservatorio della Violenza dell’Università Nazionale Autonoma dell’Honduras (Unah), si tratta del ventitreesimo dirigente politico assassinato nel Paese nel 2021, un saldo che cresce in prossimità delle elezioni generali del 28 novembre.
L’Honduras è un Paese in crisi.
La povertà ha raggiunto il 70% del totale della popolazione durante l’ultimo anno. In buona parte questo aumento spropositato è dovuto agli effetti della pandemia e le catastrofi naturali, come gli uragani Eta e Iota che hanno colpito duramente la Valle del Sula, zona che produce due terzi del Pil nazionale. Ma la mancanza di investimenti e di iniziative per la promozione dello sviluppo sono endemiche da anni. Secondo l’Onu, 1,3 milioni di honduregni hanno bisogno attualmente di assistenza umanitaria, e altri 800.000 hanno lasciato il proprio paese per emigrare verso il Messico e gli Usa. Si tratta del quinto Paese al mondo con il più alto tasso di omicidi, e uno degli hub più importanti del continente per il narcotraffico e l’attività del crimine organizzato.
L’Honduras è l’epicentro del traffico di cocaina in Centroamerica. Secondo il dipartimento di Stato Usa, attraverso il Paese sono passate 120 tonnellate di coca nel 2019. È il principale punto di atterraggio per il rifornimento dei voli che dal Sudamerica riforniscono i cartelli che fanno affari negli Stati Uniti, un business che compete in quanto a introiti con la produzione di maglioni e camicie, principale prodotto di esportazione del Paese.
Proprio il ruolo del narcotraffico nel futuro del Paese è oggi al centro del dibattito in vista delle elezioni di novembre. L’intera struttura istituzionale honduregna è oggi sotto accusa di collaborare con i cartelli locali e internazionali. In special modo il tradizionalissimo Partido Nacional, oggi al Governo con Juan Orlando Hernández, Presidente dal 2014, è sospettato di mantenere forti legami con la malavita locale. Ritornato al potere dopo il golpe militare del 2009 contro Manuel Zelaya, accusato di voler condurre il Paese a una alleanza con il Venezuela di Hugo Chávez, i leader del Partido Nacional sono successivamente apparsi nei dossier della Drug Enforcement Administration a partire dalle dichiarazioni dei principali capi dei cartelli centroamericani. Fabio Lobo, figlio dell’ex Presidente Porfirio Lobo (2010-2014) è stato condannato a 24 anni per narcotraffico a New York. Juan Antonio “Tony” Hernández, fratello dell’attuale Presidente, è stato condannato all’ergastolo nel 2021 per lo stesso delitto, e la procura di New York ha aperto ufficialmente un’indagine anche contro l’attuale Presidente. Gli inquirenti sostengono che Lobo ed Hernandez hanno utilizzato gli strumenti e le forze a disposizione dello Stato honduregno per garantire la sicurezza dei traffici di stupefacenti verso gli Stati Uniti, aprendo anche un ampio ventaglio di ipotesi intorno alla complicità delle forze armate e altri funzionari dell’Honduras, che i procuratori dell’accusa definiscono nella loro deposizione addirittura un “narco-Stato”.
Nonostante la pioggia di accuse contro il Presidente honduregno provenienti proprio dalla magistratura statunitense, Washington ha fatto di Tegucigalpa uno dei suoi più ferrei alleati nella lotta al narcotraffico nella regione. L’Honduras è il Paese col maggior numero di militari statunitensi dispiegati in America Latina, dopo Cuba e Porto Rico, e uno dei principali destinatari della cooperazione in Centro America, che ammonta a circa 4 miliardi di dollari tra fondi stanziati e promessi dall’amministrazione Biden. Durante il Governo Trump, però, i Paesi del Triangolo Nord (Honduras, El Salvador e Nicaragua) hanno sofferto un taglio netto degli aiuti elargiti da Washington a modo di rappresaglia per l’aumento dei flussi migratori provenienti da quei Paesi a partire dal 2018. L’ex Presidente Usa ha anche tolto all’Honduras il beneficio dello status di Protezione Temporale (Tps), che dopo la tragedia provocata dall’uragano Mitch nel 1998 garantisce agli honduregni un accesso più rapido ai permessi di soggiorno temporanei negli Stati Uniti. Per l’Honduras la sospensione del Tps, ancora al centro di un lungo caso giudiziario, significherebbe un duro colpo anche dal punto di vista economico: le rimesse dei migranti rappresentano circa il 23,5% del Pil honduregno.
Col nuovo Governo insediatosi alla Casa Bianca la distensione però non è stata quella che Hernandez si attendeva. Il dipartimento di Stato ha pubblicato quest’anno i nomi di diversi funzionari honduregni accusati di corruzione, sei a maggio, nella Lista Torres, e altri 21 a luglio nella Lista Engels che include anche l’ex Presidente Lobos. In questo contesto, le elezioni in Honduras apriranno probabilmente un nuovo capitolo dell’impegno geopolitico statunitense nella regione. I sondaggi favoriscono ancora una volta il Partido Nacional, che presenta l’attuale sindaco di Tegucigalpa, Nasry Asfura, soprannominato “Papi agli ordini”, e accusato di riciclaggio e appropriazione indebita di circa un milione di dollari.
La principale candidata dell’opposizione, Xiomara Castro, ha recentemente assicurato che in caso di vittoria romperà la storica relazione che unisce il Paese a Taiwan per avvicinarsi invece a Pechino, ormai rivale di spicco per l’egemonia Usa in tutta l’America Latina. Washington non ha ancora fatto trapelare quale sia l’opzione più consona ai suoi piani. Di certo quel che spera dall’Honduras è il rafforzamento delle proprie istituzioni per contenere l’emigrazione, maggior cooperazione nella riduzione del narcotraffico e un impegno a garantire un contrappeso all’indirizzo apertamente ostile assunto dagli altri due Governi del Triangolo Nord Centro Americano: El Salvador di Nayib Bukele, e il Nicaragua di Daniel Ortega.
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A poche ore dal ritrovamento del cadavere del Presidente haitiano Jovenel Moïse nella sua residenza di Porto Principe, sembrava a tutti naturale che i sospetti ricadessero sulle più di 150 gang attive nel Paese, legate a doppio filo a partiti, sindacati, polizia e aziende locali. Da mesi Moïse affrontava contestazioni molto serie, aveva denunciato tentativi di colpi di Stato e avvertito sulla possibilità di un attentato. La conferma dell’arresto di 18 mercenari colombiani accusati dell’omicidio però ha sorpreso tutto il continente. Gli attori coinvolti sono apparsi improvvisamente sotto i riflettori: mercenari, informatori, golpisti, lobbisti, che devono la loro fortuna e potere proprio all’anonimato in cui si muovono insospettati.
Il primo grattacapo per gli inquirenti si è aperto con l’identificazione dei 26 mercenari colombiani incaricati dell’attacco alla casa presidenziale, tutti legati alle forze armate colombiane, e sei di essi in attività. Vero è che l’industria dei mercenari colombiani è conosciuta ormai da tempo. Col 3,2% del Pil annuo speso per la difesa (il tasso più alto dell’America Latina) e l’iniezione permanente di fondi e mezzi da parte di Washington nell’ormai vana “guerra contro i narcos”, la Colombia è diventata un vero e proprio provider internazionale di combattenti.
Secondo il Ministero della Difesa di Bogotá, sono circa 10.000 gli uomini che ogni anno concludono la loro carriera militare intorno ai 45 anni senza poi adeguarsi alla vita civile. Alcune stime, probabilmente conservatrici, parlano di circa 6.000 ex agenti delle forze armate colombiane che lavorano per aziende di sicurezza o veri e propri eserciti privati in tutto il mondo. La maggior parte è stanziata tra Iraq, Emirati Arabi, Arabia Saudita e Yemen, dove ricevono stipendi da 5.000 dollari mensili, a fronte dei 400 dollari di pensione che riceve un ufficiale in pensione dopo vent’anni di servizio in patria. Si tratta inoltre di agenti d’élite. Dopo sessant’anni di guerra interna contro guerriglie e narcotraffico, la Colombia è diventata laboratorio di tecniche militari di tutto il mondo, e il know-how acquisito si esporta oggi per vie legali, a partire dai numerosi accordi di cooperazione con gli Usa o Israele, o attraverso canali più opachi, come quelli usati dagli esecutori di Moïse.
Secondo le ricostruzioni finora realizzate, durante le prime settimane del 2021, uno sconosciuto ufficiale di reclutamento si è messo in contatto con i 26 mercenari colombiani, offrendogli 2.700 dollari mensili per un’operazione di sicurezza in Centroamerica. La presenza di questo fiorente business è l’altro aspetto che è balzato sulle prime pagine dei giornali latinoamericani dopo l’uccisione del Presidente haitiano. Il messaggio proveniva dalla Counter Terrorist Unit Federal Academy, o CTU Security, un’impresa con sede a Doral Beach, Miami. Il titolare dell’azienda è Antonio Intriago, un venezuelano già noto alle autorità. Nel 2019 ha aiutato a finanziare il concertone di Cucuta, un’iniziativa del Presidente colombiano Iván Duque e l’autoproclamato Presidente ad interim del Venezuela, Juan Guaidó, per far pervenire aiuti umanitari su territorio venezuelano. Il principale socio di Intriago alla CTU Security è Gabriel Pérez, alias Arcángel Pretel, ex ufficiale della polizia colombiana e informatore della Drug Enforcement Administration (Dea) negli Usa.
Miami è ormai la capitale dei cosiddetti “Governi in attesa” dell’America Latina. Esiliati cubani, migranti da Venezuela, Nicaragua e Haiti pianificano e finanziano da qui manifestazioni dell’opposizione, insurrezioni popolari e veri e propri colpi di Stato nei loro Paesi d’origine, e possono spesso contare su connessioni con settori della politica e dell’imprenditoria locale. Come nel caso di Christian Emmanuel Sanon, medico e pastore evangelista haitiano e residente in Florida accusato di aver pagato la CTU Security per assoldare i mercenari che hanno ucciso Moïse. Oggi Sanon è sotto custodia cautelare in un carcere di Porto Principe.
Di certo Jovenel Moïse non era un Presidente acclamato in patria. Sulla sua figura pesavano accuse di corruzione e di complicità con alcune delle bande criminali che controllano un terzo del territorio haitiano. Nel 2017 era stato eletto con solo 600.000 voti in un’elezione suppletiva, dopo che le presidenziali del 2016 vennero annullate per brogli.
Proprio per questo, il suo Governo era duramente contestato: Moïse sosteneva che il suo mandato di 5 anni si concludesse nel 2022, mentre per l’opposizione e buona parte della magistratura il periodo presidenziale assunto da Moïse era cominciato dopo le elezioni del 2016, e da febbraio di quest’anno lo consideravano decaduto. Una cordata di giudici arrivò addirittura a proclamare un Presidente ad interim all’inizio dell’anno, e la purga scatenata da Moïse contro i “magistrati golpisti” provocò indignazione internazionale. Tra i giudici radiati vi era anche Windelle Coq Thelot, attualmente latitante, segnalata dagli stessi mercenari colombiani arrestati dopo l’attentato come il Piano B, colei che doveva assumere la presidenza nel caso in cui Sanon non riuscisse a farlo.
La notte del 7 luglio dunque, un ex funzionario del Ministero della Giustizia haitiano, Joseph Badio, accompagnò i mercenari colombiani fino alla residenza del Presidente a Pétion-Ville, nella periferia occidentale della capitale. Una volta perpetrato l’attentato il commando avrebbe dovuto spostarsi fino alla casa di Governo, dove il Primo Ministro ad interim, Claude Joseph, che secondo gli attentatori era a conoscenza del piano, avrebbe garantito la loro protezione e li avrebbe addirittura assunti come guardie presidenziali. Nel tragitto però sono stati intercettati dalla polizia haitiana che ha aperto il fuoco, e si sono rifugiati in un edificio abbandonato. Da lì hanno cercato di contattare Sanon, Badio e Intriago, che li hanno abbandonati alla loro sorte. Tre membri del commando hanno perso la vita nella sparatoria di quasi 30 ore seguita a quella fuga. Cinque sono tutt’ora latitanti. Gli altri 18 si sono rifugiati nella sede dell’ambasciata di Taiwan, che però ha subito autorizzato l’ingresso delle forze di sicurezza haitiane. È questa la ricostruzione che emerge dalle dichiarazioni di quattro dei mercenari arrestati e rese note a metà agosto dalla stampa colombiana.
L’omicidio di Moïse, cinematografico dal punto di vista del resoconto dei fatti – su cui persistono in ogni caso seri interrogativi – , pone in primo piano al contempo alcuni dei dibattiti urgenti dell’assetto geopolitico dell’emisfero: la gestione della potenza militare colombiana, concentrata nella guerra interna ma incapace di evitarne le diramazioni internazionali; la tolleranza da parte di Washington nei confronti delle attività di aziende coinvolte nel business internazionale di mercenari in America Latina e nel mondo; e le implicazioni regionali della debolezza sistemica delle istituzioni haitiane.
La situazione di Haiti, il Paese più povero del continente americano e uno dei più disuguali del mondo, compare in cima alle preoccupazioni geopolitiche internazionali nei peggiori momenti di crisi. Nel 1994, l’allora senatore Joe Biden lo aveva riassunto così: “Se Haiti affondasse tranquillamente nei Caraibi o si alzasse di 300 piedi, non cambierebbe molto il nostro interesse”. A 800 miglia marittime dalle coste della Florida però, una Haiti fuori controllo è stata origine di migrazioni di massa, narcotraffico e commercio di armi nei Caraibi. E ora è anche il fulcro di un caso che mette a nudo problematiche più scottanti nel “cortile sul retro” degli Stati Uniti.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di settembre/ottobre di eastwest.
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Per l’Argentina il debito estero è da decenni una spada di Damocle che pesa sul proprio futuro. Dal ritorno alla democrazia negli anni ’80, la politica estera di Buenos Aires è subordinata agli oneri del proprio indebitamento. Il default del 2002 assieme alla crisi sociale a esso connessa ha lasciato un segno indelebile nella società argentina. Nonostante ciò, il Governo di Mauricio Macri (2015-2019) è di nuovo caduto nella trappola. Dopo aver ottenuto circa 187 miliardi di dollari dai fondi di investimento privati, nel 2018 ha chiesto un ulteriore finanziamento per 57 miliardi di dollari al Fondo monetario internazionale, pari al 12,5% del Pil del Paese, concesso anche grazie all’influenza esercitata dall’amministrazione Trump sul board dell’organismo, che volle dare così il suo contributo al mantenimento di un Governo alleato in chiave anti-bolivariana nel Cono Sud.
Le cose però non sono andate come previsto. Il capitale concesso dal Fmi è evaporato nell’inutile sforzo della Banca centrale argentina di mantenere sotto controllo il mercato di valuta straniera: il Peso argentino ha perso il 500% del proprio valore rispetto al dollaro tra il 2015 e il 2019, e col Paese praticamente in default il centrodestra di Macri ha perso rovinosamente le elezioni contro il peronista Alberto Fernández. Le erogazioni da parte del Fmi sono state dunque sospese e Buenos Aires ha cominciato a negoziare le scadenze dei 44 miliardi di dollari elargiti in poco più di un anno, il prestito più grande della storia dell’organismo multilaterale.
Il Consiglio esecutivo del Fondo monetario internazionale è composto da 24 direttori esecutivi che rappresentano raggruppamenti di Stati la cui capacità di decisione è direttamente proporzionale al capitale investito. La strategia del nuovo Governo argentino è stata quella di raccogliere sostegni tra i Paesi di peso medio nell’organismo: Spagna, Portogallo, Italia, Germania, che il Presidente ha visitato per primi dal suo arrivo alla Casa Rosada e che sommati rappresentano circa il 12% dei voti nel Consiglio del Fmi. L’Argentina però non intende solo dilatare le scadenze e negoziare gli interessi del proprio debito. Il Ministro dell’Economia, Martín Guzmán, allievo di spicco del premio Nobel Joseph Stiglitz, propone riforme che riguardano lo statuto stesso dell’organismo: la sovrattassa del 2% che il Fmi esige ai Paesi che mantengono un debito superiore al capitale versato – particolarmente avversata dal Governo portoghese dopo la sua esperienza con la Troika – e il limite di 10 anni per il rimborso del capitale elargito.
L’indirizzo che Fernández e Guzmán vogliono dare ai negoziati sul debito si esprime nel leit motiv ripetuto durante la campagna elettorale del 2019: sostenibilità. E in questo senso si è espresso settimana scorsa il Presidente nel suo discorso all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite: “Le risorse approvate dal Fmi all’Argentina per questo debito insostenibile sono state di 57 miliardi di dollari, l’equivalente di tutti gli esborsi dell’organismo nell’anno della pandemia a 85 Paesi del mondo”, ha sostenuto Fernández. “Non esiste nessuna razionalità tecnica o logica, né sensibilità politica che possa giustificare una simile aberrazione”. Da Buenos Aires ha annunciato che al prossimo G20 di Roma l’Argentina proporrà la creazione di un “accordo multilaterale inclusivo orientato ad affrontare le questioni legate alla ristrutturazione dei debiti sovrani”.
Mentre Guzmán si prepara per quella che dovrebbe essere la chiusura del negoziato col Fmi in vista dell’assemblea annuale di metà ottobre, a Buenos Aires il clima politico attorno al Governo si fa sempre più rovente. Lo scorso 12 settembre infatti la coalizione peronista ha subito una disfatta inattesa alle elezioni primarie, fermandosi a 10 punti di distanza dal centrodestra di Macri a livello nazionale. La battuta d’arresto ha aperto una frattura tra il Presidente Fernández e la vicepresidente, Cristina Kirchner, leader dell’ala più radicale del Governo. Questo settore vorrebbe subordinare i pagamenti del debito al Fmi all’allargamento del welfare e la riduzione degli indici di povertà e disoccupazione nel Paese. La Kirchner ha forzato il Presidente a un rimpasto di Governo in cui però non è stata modificata l’area economica.
Il pagamento della prima quota di 1,87 miliardi di dollari al Fmi settimana scorsa sembrerebbe confermare la continuità del piano di Guzmán. Entro la fine dell’anno l’Argentina dovrà sborsare altri 400 milioni di dollari per coprire gli interessi fin qui maturati, e altri 1,3 miliardi della seconda tranche dello stock di capitale. Tutti fondi provenienti dai 4,3 miliardi di dollari assegnati dallo stesso Fmi coi Diritti Speciali di Prelievo distribuiti internazionalmente per alleviare gli effetti economici della pandemia, e che il settore che risponde alla vicepresidente avrebbe voluto usare per finanziare nuovi servizi socioassistenziali.
In ogni caso, il tandem Guzmán-Fernández sembra ottimista per il futuro: nella finanziaria presentata la settimana scorsa, è già preventivato un risparmio di 19 miliardi sugli interessi del debito grazie a un accordo che il Governo non ha ancora raggiunto, e dal quale dipende anche l’interesse che dovrà pagare ad altri creditori, tra cui i Governi europei riuniti nel Club di Parigi.
Il futuro dell’Argentina è dunque, ancora una volta, legato al debito. Tra fondi d’investimento privati, Fmi e Club di Parigi il rosso ammonta a 325 miliardi di dollari e, avendo un accesso molto limitato ai mercati finanziari, l’unica speranza è scendere a patti. Il mondo delle finanze globali però vede con forte preoccupazione gli scricchiolii della compagine di Governo attuale.
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Il Presidente dell’Uruguay, Luis Lacalle Pou, ha deciso di passare dalle minacce all’azione.
La settimana scorsa ha rivelato che il suo Paese ha avviato i primi contatti tecnici con la Repubblica popolare cinese per valutare l’impatto di un accordo di libero scambio. La notizia ha subito generato reazioni tra i soci del Mercato Comune del Sud (Mercosur), l’unione doganale che Montevideo (la capitale dell’Uruguay) condivide con Argentina, Brasile e Paraguay, un mercato da 260 milioni di persone e con un Pil da 2.2 trilioni di euro. Dal 2001 i quattro Paesi hanno rinunciato allo stabilimento di accordi commerciali in forma individuale, per proteggere la politica comune sui dazi.
La decisione, che doveva essere un incentivo alla proiezione internazionale del Cono Sud, si è trasformata negli ultimi anni nel fulcro delle controversie del blocco. Nel caso dell’Uruguay la spiegazione è abbastanza semplice: negli ultimi dieci anni la Cina ha spodestato il Brasile come principale acquirente dei prodotti agricoli uruguaiani, una relazione commerciale da 2,2 miliardi di dollari l’anno a cui però Pechino applica dazi all’entrata del 12,6%. Per Lacalle Pou, l’eliminazione di quelle tariffe doganali è oggi un obiettivo primordiale per potenziare le proprie esportazioni. Il panorama commerciale è cambiato profondamente anche per il resto dei soci. Oggi la Cina assorbe il 26% delle esportazioni dei Paesi del Mercosur (contro il 20% dell’Ue e il 13% degli Usa) ed è il primo partner commerciale del Brasile e, indirettamente, del Paraguay.
Proprio la complessa relazione sino-paraguaiana è uno dei motori del contrasto dentro al Mercosur. Asunción infatti non ha alcuna intenzione di abbandonare la politica adottata dal dittatore Alfredo Stroessner nel 1957, che in chiave ferocemente anticomunista allacciò stretti rapporti diplomatici con Taiwan. Un accordo Cina-Mercosur è dunque impossibile mentre i Governi del Partido Colorado, erede politico di Stroessner, mantengono il riconoscimento nei confronti di Taipei. La soia, il mais e la carne bovina paraguaiani però giungono fino alla Repubblica popolare attraverso il Brasile.
La deroga della risoluzione sugli accordi commerciali extra Mercosur è una richiesta permanente da parte dell’Uruguay, anche quando al Governo si trovava la sinistra del Frente Amplio. La Repubblica orientale è stata la prima in Sudamerica ad aderire alla Belt and Road Initiative, è membro dell’Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB) e da qualche giorno è entrata a far parte della Banca dei Brics. Oggi il Governo conservatore di Lacalle Pou può contare anche su un alleato di peso dentro al Mercosur, il Presidente brasiliano Jair Bolsonaro. I cortocircuiti con Buenos Aires sono dunque all’ordine del giorno dall’insediamento dell’esecutivo di Alberto Fernandez, dal profilo progressista, che difende una posizione ormai tradizionale dell’Argentina e contraria a qualsiasi riforma della politica doganale del blocco. L’Argentina sarebbe probabilmente il Paese più colpito da un’apertura indiscriminata agli accordi bilaterali: è una delle economie con maggior quantità di sussidi alla produzione e al consumo e ha minori capacità di negoziazione rispetto al gigante brasiliano e alle piccole economie fortemente primarie di Uruguay e Paraguay.
Il Mercosur nacque nel 1991 dal bisogno di estinguere la minaccia di un’escalation tra Argentina e Brasile a partire dai rispettivi programmi di sviluppo dell’energia nucleare. I Paesi del Cono Sud avevano da poco voltato la pagina delle dittature militari e i Presidenti di quelle fragili democrazie videro nel Mercosur uno strumento per potenziare l’inserimento internazionale della regione nel nuovo contesto globale segnato dalla fine della Guerra fredda e l’imposizione del Washington Consensus a livello macroeconomico. Il Mercosur ha permesso la creazione di processi produttivi a grande scala, specialmente nell’industria automotrice, principale motore economico del blocco concentrato tra Argentina e Brasile, e nel settore agro-alimentare.
Ma la luna di miele dei primi anni ’90 si è scontrata presto con gli interessi nazionali dei singoli membri. Il desiderio di proteggere la produzione locale nei più svariati comparti ha reso impossibile l’applicazione di dazi comuni all’importazione di migliaia di prodotti, creando quel che gli esperti definiscono come un’unione doganale “imperfetta”. Nel Mercosur, inoltre, tutto viene discusso a livello presidenziale, e le decisioni devono essere prese all’unanimità nei summit semestrali del blocco, che spesso sovvertono gli sforzi fatti dagli organismi tecnici. Di conseguenza il funzionamento del blocco è sempre dipeso esclusivamente della sintonia ideologica esistente tra i Governi membri, cosa che tra l’altro in questo momento scarseggia, come dimostra lo stallo nelle trattative sull’accordo di libero scambio con l’Ue.
Anche se alcuni giornali sudamericani parlano già di “Uru-Exit”, ancora non è chiaro se si tratti di una strategia di Montevideo per obbligare i propri soci a concordare una riforma della struttura del Mercosur, come fece nel 2006 quando l’allora Presidente Tabaré Vázquez minacciò di firmare un accordo di libero scambio con gli Stati Uniti. Di certo, però, l’inizio delle trattative con Pechino rappresenta una svolta per il funzionamento dell’unione regionale, che torna ora al vertice delle preoccupazioni dei Paesi membri.
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Il Presidente del Brasile, Jair Bolsonaro, sembra deciso a riportare il Paese verso il clima in cui si muove con maggior naturalità in vista delle elezioni del 2022: la tensione. Sorto come leader nel pieno di una delle più terribili crisi economiche e politiche della storia brasiliana, l’ex capitano dell’esercito ha recentemente aperto diversi fronti in cui far valere il proprio carisma e il tono provocatorio che lo ha portato alla presidenza della principale potenza del Sudamerica.
Il confronto più caldo in questi giorni è quello che mantiene con la magistratura. Il Tribunale supremo federale (equivalente a una Corte Suprema) ha ordinato a fine luglio l’apertura di una indagine contro il Presidente per la diffusione di fake news sul sistema elettorale brasiliano. Bolsonaro si è scagliato con forza contro il sistema di voto elettronico in vigore dal 1996 – e attraverso il quale lui stesso è stato eletto nel 2018 – che sarebbe “fonte di inevitabili brogli”. Durante la campagna lanciata per il ritorno alle schede elettorali cartacee, Bolsonaro ha diffuso messaggi che secondo il Tsf potrebbero attentare contro la democrazia brasiliana. I sostenitori del Presidente però denunciano che l’indagine è l’ennesimo tassello di una persecuzione ordita dalla giustizia ai danni dell’estrema destra brasiliana. L’ultimo caso contestato è quello dell’ex deputato Roberto Jefferson, arrestato per aver diffuso un video in cui, armi in mano, incitava l’esercito a occupare la sede della Corte Suprema e dell’ambasciata cinese a Brasilia. Jefferson si aggiunge al deputato Daniel Silveira, ex agente di polizia in carcere da febbraio per apologia del terrorismo di Stato.
Il ruolo delle forze armate in questo contesto politico è anch’esso al centro della polemica. Diversi ufficiali ed ex militari si sono espressi apertamente a favore del Governo di Bolsonaro nei suoi molteplici scontri aperti con le istituzioni dello Stato. Il mese scorso, mentre il congresso discuteva il progetto di legge inviato dal Presidente per l’eliminazione del voto elettronico, un corteo di carri armati ha sfilato di fronte alla spianata dove si trovano Parlamento e magistratura a Brasilia, con Bolsonaro in testa. Una scena che non si vedeva dal 1984, quando il Paese viveva gli ultimi mesi della dittatura militare.
Approfittando del fatto che i riflettori dei media si sono scostati dalla scandalosa campagna sanitaria nazionale contro il Covid-19, il Presidente ha indetto per il prossimo 7 settembre, giorno dell’indipendenza in Brasile, una grande manifestazione nazionale a São Paulo “in difesa della libertà” e del Governo. A nulla sono valsi gli appelli interposti dal governatore João Doria alla giustizia per impedire assembramenti nel suo Stato, durante i quali si temono anche seri disordini. “Per rovesciare l’egemonia della sinistra nel Paese è necessario un carro armato e non un carretto dei gelati”, ha scritto sui social il colonnello Aleksander Lacerda, comandante di sette battaglioni dello Stato di São Paulo e uno dei tanti militari che hanno aderito all’appello lanciato dal Presidente a manifestare il 7 settembre. Il tentativo evidente è di riportare lo scontro a un terreno più consono per il leader della destra brasiliana, quello delle adunate e dei pulpiti da dove ha saputo raccogliere il sostegno dei settori militari, le principali chiese pentecostali e i grandi imprenditori legati all’agrobusiness.
Quello del 2021 però non è lo stesso Bolsonaro del 2018. Il “Messia” ha già dovuto rinunciare ad alcune delle promesse centrali della campagna che lo hanno portato al Governo. Il suo Ministro dell’Economia, Paulo Guedes, un neoliberista ortodosso, non ha potuto completare nemmeno la metà delle privatizzazioni previste tre anni fa, e si è anche arreso di fronte alla richiesta di maggiori incentivi statali e sussidi al consumo per alleviare la crisi dovuta alla pandemia che ha provocato 580.000 morti. Il mese scorso, lo stesso Bolsonaro ha aperto le porte del Governo all’odiato Centrão, la costellazione di piccoli partiti locali che da decenni barattano il loro appoggio coi Governi di turno a cambio di misure e investimenti da sfoggiare nei dipartimenti in cui si presentano a elezioni. Ciro Nogueira, dirigente simbolo di questo settore osteggiato dal bolsonarismo solo qualche mese fa, è stato posto a capo del gabinetto del Presidente. Rimangiandosi gli insulti verso il Centrão, Bolsonaro si garantisce però l’appoggio del 60% del Parlamento e blinda la sua presidenza di fronte alla pioggia di richieste di impeachment.
Il prossimo traguardo ora è rappresentato dalle elezioni presidenziali dell’ottobre del 2022 e Bolsonaro ha evidentemente lanciato la sua campagna. Si troverà di fronte l’ex Presidente di sinistra Luiz Inácio Lula da Silva, in cima a tutti i sondaggi anche grazie al sostegno dei settori moderati terrorizzati dalla piega presa dal bolsonarismo. Lo spettro del colpo di mano da parte del Governo però aleggia. “Se non saranno pulite e democratiche, non ci saranno elezioni”, ha minacciato poche settimane fa Bolsonaro durante uno dei suoi comizi.
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Sono 1.941 le vittime accertate finora dalla Protezione civile haitiana dopo il terremoto di 7.2 gradi della scala Richter che si è abbattuto nel centro-sud del Paese lo scorso 14 agosto. 9.900 i feriti, 60.000 case completamente distrutte e 76.000 edifici danneggiati è il saldo provvisorio, destinato probabilmente a salire, mentre in questi giorni si abbatte sulle coste haitiane anche l’uragano Greta.
Haiti, il Paese più povero del continente e tra i più disuguali del mondo, è dilaniato al contempo dalle catastrofi naturali e dagli effetti di una profonda crisi politica. Lo scorso 7 luglio è stato assassinato il Presidente Jovenel Moïse da un commando di 26 mercenari. Movente e dinamica del crimine sono ancora un mistero. La sera prima del terremoto, il giudice incaricato del caso, Mathieu Chanlatte, ha presentato le proprie dimissioni per ragioni di sicurezza.
La situazione attuale ricorda da vicino quella vissuta nel gennaio del 2010, quando un terremoto di magnitudo 7 gradi distrusse la capitale, Porto Principe, causando la morte di quasi 300.000 persone in meno di un minuto. Da quella tragedia il Paese non si è più sollevato, e undici anni più tardi vi sono ancora decine di migliaia di sfollati stipati nelle tendopoli ai margini della città. Come allora, Governi, Ong e cooperanti si sono già messi in moto per far arrivare aiuti. Il Presidente degli Stati Uniti ha nominato l’attuale amministratrice dell’Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale (Usaid) Samantha Power per coordinare l’invio di donazioni e squadre di soccorso. Anche i Governi di Messico, Cuba e Repubblica Dominicana hanno fatto arrivare cibo e materiale sanitario, e l’Unione europea ha già stanziato 3 milioni di euro in aiuti. “Tutto dovrà entrare dalla stessa porta”, ha però ammonito il Primo Ministro haitiano Ariel Henry, remore degli scandali seguiti all’assistenza umanitaria piombata senza alcun controllo sulla penisola undici anni fa. “Per la ricostruzione, tutto deve essere supervisionato a livello dello Stato centrale e coordinato dalle direzioni regionali”, ha avvertito.
Nel 2010 Haiti ha ricevuto quasi 3 miliardi di dollari in donazioni provenienti da Governi stranieri, e altri 9 spesi direttamente sul campo dalle più di 10.000 Ong arrivate in risposta alla tragedia. Secondo diversi rapporti internazionali però, solo lo 0,6% di quei fondi sono finiti alle istituzioni locali. L’immenso afflusso di denaro della cooperazione internazionale è servito principalmente a finanziare le attività delle stesse organizzazioni straniere stanziate subito dopo il terremoto, che hanno agito addirittura a insaputa dei poteri pubblici haitiani. I criteri per la distribuzione dei progetti non hanno tenuto conto delle esigenze della società civile, né della complessa realtà politica locale, e pochi mesi sono emersi gravi problemi.
La “repubblica delle Ong” ha delegittimato ancor più le già deboli istituzioni statali haitiane, ha portato avanti progetti senza alcun tipo di coordinamento, ha permesso ad attori senza scrupoli di siglare sodalizi internazionali con le oltre 150 gang che si contendono oggi il territorio haitiano. I dollari, piovuti in massa sul territorio con l’arrivo dei cooperanti, hanno sostituito di fatto la moneta locale, facendo schizzare l’inflazione e la svalutazione.
Anche il sistema delle Nazioni Unite ha commesso gravissimi errori ad Haiti. La Missione di stabilizzazione delle Nazioni Unite ad Haiti (Minustah) è stata smantellata nel 2017 dopo esser stata accusata di aver causato un focolaio di colera – che ha provocato circa 30.000 morti – e aver introdotto un sistema di sfruttamento e prostituzione minorile in cambio di cibo e qualche dollaro. La Missione per il sostegno alla giustizia (Minjusth) lanciata in sostituzione della Minustah, è stata ritirata nel 2019, evidentemente incapace di mantenere l’ordine pubblico durante le devastazioni portate avanti durante le proteste per lo scandalo Petrocaribe.
A undici anni dall’esperimento di cooperazione internazionale più importante e controverso degli ultimi tempi, Haiti non decolla. Il 75% della spesa pubblica dipende ancora dalle donazioni internazionali, il 22% del Pil dalle rimesse dei migranti haitiani (sempre più numerosi) nel resto del mondo, la povertà supera il 50% della popolazione e il crimine organizzato controlla ormai un terzo del territorio nazionale.
L’ennesima catastrofe umanitaria apre dunque una nuova sfida per le istituzioni haitiane e la cooperazione internazionale, e apre una nuova tappa per il futuro del Paese.
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Da una casetta di fango sulle Ande centrali al Palacio Pizarro, sede della presidenza del Perú. Sin dal suo primo discorso alla cerimonia di insediamento Pedro Castillo ha voluto dare un’aura epica al proprio arrivo al potere. “È la prima volta che il nostro paese sarà governato da un contadino”, ha sottolineato Castillo.
Un risultato assolutamente inatteso, giunto a coronamento di una fenomenale crisi politica che attraversa il Perù da decenni: tutti i presidenti che ha avuto il paese dal 1986 ad oggi sono stati processati per casi di corruzione o violazione dei diritti umani. Negli ultimi cinque anni si sono succeduti quattro presidenti diversi, e l’ostruzionismo parlamentare ha impedito l’applicazione delle riforme di ciascuno dei loro governi.
Un panorama da sogno per un outsider dal piglio popolare, un maestro rurale lanciato alla fama dopo il lunghissimo sciopero del mondo della scuola contro i tagli del 2017 in cui il nuovo presidente ha tenuto testa a ministri, segretari e alla stampa.
Castillo è arrivato al potere dopo essersi guadagnato un appoggio elettorale massiccio nelle regioni andine ed amazzoniche, ribaltando l’assioma che negli ultimi trent’anni ha garantito ai candidati sostenuti dalle regioni ricche di Lima e della costa nord del paese di mantenerne ben saldo il controllo politico. Ora si propone di rovesciare anche il modello economico voluto da quelle élite.
Dai tempi della dittatura di Alberto Fujimori (1990-2000), il Perù è stato tra gli alunni più efficienti del neoliberismo latinoamericano, mantenendo una crescita costante nonostante l’altissimo grado di disuguaglianze tra le diverse regioni del paese. Simbolo di quel modello è l’attuale costituzione peruviana, emanata dallo stesso Fujimori nel 1993 e che nessun governo ha avuto il coraggio di modificare. Buona parte del successo di Perù Libre è dovuto proprio alla promessa di riformare l’impianto istituzionale ed economico lasciato dal fujimorismo.
L’arrivo al governo di Castillo potrebbe rappresentare anche un importante cambiamento negli equilibri politici latinoamericani. Lima ha assunto sin dagli anni Novanta una chiara posizione nello scacchiere regionale. Sostenitrice dei Trattati di Libero Scambio con le principali potenze tradizionali, si è smarcata nei primi anni 2000 dal giro progressista della politica latinoamericana promuovendo l’Alleanza del Pacifico con gli altri governi di destra rimasti nella regione (Cile, Colombia e Messico). Il governo peruviano ha incoraggiato l’isolamento del Venezuela di Nicolás Maduro, e ha ospitato la prima riunione del gruppo internazionale creato con quello scopo, il Gruppo di Lima. Ha accompagnato Trump nelle poche crociate che ha lanciato nella politica latinoamericana, come la rielezione di Luis Almagro alla guida dell’Organizzazione degli Stati Americani o quella di Clever-Carone alla presidenza della Banca Interamericana di Sviluppo. Ora però l’allineamento peruviano potrebbe virare.
Castillo ha designato al ministero degli Esteri l’ex guerrigliero e scrittore Héctor Béjar, che nel suo primo discorso ai diplomatici peruviani ha esposto le nuove linee guida della posizione internazionale del Perù. Ha denunciato l’embargo contro Cuba e le sanzioni contro Caracas, ha preventivato un avvicinamento al Gruppo di Contatto sul Venezuela -in cui partecipano l’Ue ed altri paesi sudamericani e che promuove un maggior dialogo col governo di Maduro-, e ha annunciato un maggior protagonismo del Perú negli organismi internazionali alternativi a quelli dominati da Washington, come la Comunità di Stati Latinoamericani e dei Caraibi (Celac).
Una svolta complessa, e non da poco sotto il profilo geopolitico. Il Perù è il paese latinoamericano col maggior grado di connessione marittima con l’Asia dopo il Messico. Il porto del Callao è il secondo più grande sulla costa del Pacifico in America Latina, e la Repubblica Popolare ha scelto Chancay, a 75 chilometri da Lima, per costruire il primo porto interamente cinese in America del Sud. L’allineamento del governo di Castillo coi soci della sinistra latinoamericana (Messico, Argentina e Bolivia) è già in corso, ma il suo peso dipenderà dalla capacità di domare il complesso panorama politico domestico senza cadere nella volatilità che ha contraddistinto i governi peruviani degli ultimi anni.
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A due settimane dall’omicidio del Presidente haitiano, Jovenel Moïse, la situazione ad Haiti sembra diventare sempre più complessa. Questo lunedì il Primo Ministro Claude Joseph, che aveva preso il controllo dell’esecutivo e dichiarato lo stato d’assedio, ha lasciato l’incarico. Fino alla settimana scorsa Joseph pretendeva di gestire la crisi fino alle elezioni previste per settembre. Il suo posto sarà occupato da Ariel Henry, che Moïse aveva nominato premier poche ore prima di essere ucciso, ma non era riuscito a prestare giuramento. Un colpo di mano diretto chiaramente dall’estero: era stato il Core Group Haiti – guidato dagli ambasciatori degli Stati Uniti e dell’Unione europea, dall’Organizzazione degli Stati Americani e dalla rappresentante speciale delle Nazioni Unite – a esortare Henry ad assumere il controllo del Governo venerdì scorso.
Il nuovo esecutivo “di larghe intese” avrà come unico obiettivo la celebrazione di nuove elezioni generali entro i prossimi quattro mesi. Una missione tutt’altro che semplice: dal 2018 infatti lo stesso Moïse governava a colpi di decreto. Solo 10 senatori su 30 sono in carica, mentre la Camera è vacante dal termine della legislatura e non ci sono mai state le condizioni di sicurezza per rinnovarne il mandato. Poi, ci sono le gang. Le organizzazioni criminali detengono di fatto il controllo di buona parte del territorio haitiano, specialmente nei collegi elettorali più importanti in termini di votanti. Il G9, un sodalizio di bande di Porto Principe fondato nel 2020 dall’ex poliziotto Jimmy Chérizier, ha di recente preso le distanze dal Parti Haïtien Tèt Kale, il partito di Governo che si era impegnato a sostenere, e ha lanciato l’appello a una “rivoluzione” contro lo Stato.
Insomma, le elezioni generali così anelate dalla comunità internazionale per stabilizzare il Paese sembrano un traguardo tutt’altro che raggiungibile. Per le principali potenze sul campo sono però indispensabili: la valenza geopolitica di Haiti infatti è inversamente proporzionale alla stabilità raggiunta dal Paese più povero del continente. I colpi di Stato (8 tra il 1986 e il 2020), disastri naturali (l’uragano Mitch nel 1998, il terremoto del 2010), le guerre civili (102 nel XX secolo) o le crisi istituzionali come quella in corso incrementano i fenomeni che gli Usa e alleati cercano di contrastare nella regione: migrazioni di massa, crescita delle gang, del commercio di armi e del narcotraffico. Si calcola che circa il 10% del traffico di cocaina proveniente da Colombia e Venezuela, e diretta negli States, passi attraverso i porti haitiani prima di raggiungere la Florida, a 800 miglia marittime.
Haiti è un Paese che dipende in tutto e per tutto dall’estero: la cooperazione internazionale garantisce più della metà della spesa pubblica del Paese, le rimesse dei migranti haitiani rappresentano il 29,27% del Pil e i servizi basici della popolazione sono garantiti dalle missioni delle organizzazioni internazionali. O dalle strutture della Repubblica Dominicana, Paese vicino che dopo l’omicidio del Presidente Moïse si è dichiarato in stato d’allerta e ha mosso truppe alla frontiera.
Intanto le indagini si concentrano attorno al commando di mercenari che avrebbero fatto irruzione nella casa del Presidente la notte tra il 6 e il 7 luglio. Ventisei di loro sono ex ufficiali delle forze armate colombiane, e circa la metà di essi addestrati negli Stati Uniti[7]. Altri due sono haitiano-statunitensi, ex narcotrafficanti divenuti informatori della Drug Enforcement Administration, l’ufficio incaricato della lotta al narcotraffico internazionale del Governo degli Stati Uniti.
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