Si occupa di politica estera, globalizzazione, economia internazionale e nuovi media.
“Atlante delle bugie” di Francesco Petronella. Paesi Edizioni 2023
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
L’accesso a una quantità smisurata di informazioni che caratterizza il nostro presente ha reso necessario saper gestire, valutare e classificare le fonti delle notizie. Se prima poteva essere un compito riservato principalmente agli addetti ai lavori, oggi non è più così.
Nel mondo digitale, in cui chiunque può “creare” le notizie, sapere come gestirle diventa un’abilità indispensabile per tutti. Atlante delle bugie è un manuale semplice ma rigoroso per destreggiarsi nel torbido flusso di notizie nell’era dei social media e della post verità.
L’autore, Francesco Petronella, è un giornalista di esteri e definisce questo libro come una “cassetta degli attrezzi” per non cascare nella trappola della disinformazione. Per farlo unisce elementi di teoria a tanti esempi pratici.
Dopo aver definito le varie fonti (primarie, secondarie, affidabili, parziali e non affidabili), attraverso casi concreti e l’analisi di due scenari tanto complessi quanto rappresentativi del rapporto tra media, informazione e guerra (Siria e Ucraina) ci mostra come il confine tra esse sia spesso labile, come il “discrimine tra parzialità e pura propaganda è sottile ma decisivo”.
Durante la lettura ci si accorge che alcuni elementi spesso sottovalutati sono in realtà complessi e alla base di una reale comprensione delle notizie. Una volta finito il libro, invece, si è più consapevoli delle dinamiche che muovono l’informazione moderna nel racconto della politica estera, e non solo.
I migranti digitali, figli dell’era social
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
Le migrazioni sono un fenomeno antico almeno quanto l’umanità. Ci siamo sempre spostati e lo abbiamo fatto per le ragioni più diverse. In quanto fenomeno strutturale, esso si è adeguato ed è cambiato parallelamente alla società. Oggi, nell’era digitale, le migrazioni si intersecano con i nuovi strumenti del nostro tempo. Ciò avviene anche con i social media, che del nostro tempo sembrano quasi i padroni.
Spesso il dibattito, soprattutto in Italia, si focalizza principalmente su come essi abbiano influenzato la narrativa del fenomeno migratorio. Infatti, i social hanno fortemente contribuito a polarizzare il dibattito pubblico su questo tema, non dando il giusto valore alla sua complessità e stimolando un dibattito emotivo, piuttosto che analitico e razionale.
La loro influenza, però, va ben oltre la narrativa. Sono uno strumento che agisce a livello pratico in ogni fase della migrazione, accompagnando il migrante durante tutto il suo viaggio, dalla preparazione della partenza fino all’arrivo a destinazione e all’inizio di nuova vita in un paese di cui sa poco o niente. Il loro utilizzo ovviamente varia a seconda del tipo di viaggio di cui si sta parlando, regolare o irregolare. In questo caso il focus saranno i migranti irregolari che per raggiungere la loro meta si imbarcano in viaggi pericolosi e lunghi. Per loro i social media ricoprono un ruolo ancora più cruciale.
“Acqua, telefono, cibo”, in quest’ordine, dice Marie Gillespie, docente di sociologia presso la Open University del Regno Unito; questi sono oggi i tre oggetti più importanti che chi lascia, o è costretto a lasciare, il proprio paese porta con sé. Se il telefono è così importante è anche perché permette l’accesso in ogni luogo ai social media. Attraverso piattaforme come Facebook, YouTube e TikTok i migranti si rendono protagonisti di dinamiche nuove, rivoluzionando le logiche che fino ad ora hanno delineato il fenomeno.
Una delle parole che più sentiamo nominare quando si parla di social media è influencer. La Treccani lo definisce come un “Personaggio di successo, popolare nei social network e in generale molto seguito dai media, che è in grado di influire sui comportamenti e sulle scelte di un determinato pubblico”.
Quando si pensa a questa figura difficilmente ci viene in mente una persona che sta rischiando la vita per scappare dal proprio paese. Eppure Manuel Monterrosa, un 35enne venezuelano, potrebbe a tutti gli effetti essere descritto come tale. Il suo canale youtube (@manuelmonterrosa) ha più di 76mila iscritti e alcuni suoi video più di due milioni di visualizzazioni.
L’anno scorso, è partito per gli Stati Uniti con il suo cellulare e un piano: registrare il suo viaggio attraverso il Darién Gap, una delle rotte più pericolose al mondo, e pubblicarlo su YouTube per mettere in guardia gli altri migranti dai pericoli che avrebbero dovuto affrontare. Nella serie di sei puntate, montate interamente sul suo telefono durante il viaggio, attraversa la giungla al confine tra Colombia e Panama con uno zaino. Gli spettatori sono guidati in una telecronaca video-selfie della sua impresa attraverso fiumi, foreste fangose e una montagna conosciuta come la ‘Collina della Morte’. Alla fine raggiunge la sua meta, gli Stati Uniti.
Nel frattempo, però, i suoi video hanno iniziato a fare così tante visualizzazioni e a fargli guadagnare abbastanza soldi da YouTube, da decidere di non avere più bisogno di vivere negli Stati Uniti. Il suo lavoro sarebbe diventato fare lo youtuber, ripercorrendo la rotta del Darién, questa volta non per attraversare il confine, ma per creare contenuti per il suo affezionato pubblico e guadagnarsi da vivere.
La sua storia è arrivata fino al New York Times, a cui ha detto: “La migrazione vende […] il mio pubblico è un pubblico che vuole un sogno”. Sotto i suoi video ci sono centinaia di commenti, da chi fa domande specifiche sul percorso a chi ringrazia Dio per avercela fatta o lo prega affinchè protegga chi decide di compiere questa strada. Un utente (@henrygonzalez2183) scrive in spagnolo sotto uno dei video: “Molto presto, in nome di Dio, voglio andare negli Stati Uniti, quindi guardo questo tipo di video per sapere cosa significa attraversare il confine El Darién”.
Come Manuel Monterrosa ce ne sono ormai tanti. I contenuti di questo tipo si trovano in diverse lingue per essere fruiti nei tanti paesi di partenza dei migranti: in Cina la rotta percorsa da Manuel è chiamata “zouxian“, in mandarino, o “the route” in inglese – quest’ultimo è un hashtag molto popolare su Douyin, la versione cinese di TikTok. In hindi, haryanvi e punjabi, lingue parlate in India, è chiamato “dunki“, in riferimento a un percorso “asinino” o informale; in haitiano, la giungla del Darién è “raje” o “fosso”.
Oggi i migranti sono diventati in molti casi veri e propri content creator digitali, documentando attraverso i social network la loro esperienza. Mentre trasmettono le loro fatiche e i loro successi a milioni di persone in patria, alcuni diventano piccole celebrità, ispirando altri a intraprendere il viaggio. Le conseguenze sono reali.
Per decenni, il Darién Gap è stato considerato così pericoloso che pochi osavano attraversarlo. Secondo i funzionari panamensi, dal 2010 al 2020 la media annuale degli attraversamenti è stata di poco inferiore alle 11.000 persone. Nel 2021 si è arrivati invece a più di 130.000 persone, l’anno dopo a più di 156.000 persone e, sempre secondo i dati del governo panamense, nel 2023 è stato infranto ogni record con circa mezzo milione di persone che hanno attraversato il Darièn Gap, la maggior parte delle quali venezuelane.
Le conseguenze di questo aumento sono tante e diverse, intrecciando fattori politici ed economici, ma è innegabile che la diffusione di video sui social che mostrano il tragitto e, in certi casi, lo descrivono come molto meno pericoloso di quello che è, è da considerarsi come uno dei vari elementi in gioco. Le documentazioni dei percorsi lungo le rotte migratorie sono alle volte così dettagliate da permettere in alcuni tratti alle persone di trovare la strada da sole, senza dover far ricorso ai trafficanti.
Oltre a questi influencer che forniscono consigli utili all’attraversata, la possibilità di comunicare attraverso i social media con altri migranti, in viaggio o già a destinazione, è forse l’elemento più rilevante. I gruppi Facebook, ad esempio, sono cruciali per acquisire informazioni su come contattare le persone che possono essere d’aiuto per raggiungere i diversi luoghi di destinazione. Ma anche per trovare rifugio e riparo, presso conoscenti o semplicemente connazionali, durante le tappe del lungo cammino. Attraverso questi gruppi, e grazie ai contatti che ne derivano, spesso si possono ottenere informazioni che salvano la vita: segnalazioni sulla presenza di bande criminali, rapinatori o altri predoni sul percorso; l’improvvisa chiusura di un tratto di strada; lo scoppio di un conflitto in una delle zone attraversate lungo la rotta; semplici informazioni sulle condizioni meteorologiche. In questo modo, anche in tempo reale, i migranti possono adeguarsi e tutelarsi dai pericoli e dagli imprevisti.
Tuttavia, come accade sempre, dai social media passa tanto l’informazione quanto la disinformazione. Spesso vengono trasmesse informazioni errate sulla pericolosità del viaggio, esponendo i migranti a situazione di alto rischio. In questi casi lo strumento che doveva servire a evitare i contatti con i trafficanti finisce per essere l’esca.
Secondo uno studio pubblicato dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni (IOM), i trafficanti utilizzano i social media per promuovere i loro servizi, condividendo per esempio brevi video di attraversamenti riusciti. Sempre attraverso queste piattaforme poi si mettono in contatto con i migranti. In alcuni casi, invece, la disinformazione passa dagli stessi migranti, che trasmettono storie di successo false per tranquillizzare i propri parenti a casa o per nascondere quello che ai loro occhi risulta essere un fallimento. Si creano così “percezioni alternative” che non corrispondono alle reali esperienze vissute dai migranti.
L’accesso ai social social network rimane cruciale anche una volta arrivati a destinazione, assumendo nuove forme di uso e valore. In questa fase il loro utilizzo si lega soprattutto alla necessità di mantenere i contatti con il proprio paese di origine e di integrarsi in quello nuovo. Diversi studi hanno confermato che i social media sono un ottimo strumento per aiutare i nuovi arrivati a conoscere il paese ospitante e la comunità, nonché il suo funzionamento sociale ed economico. Sui social si possono trovare informazioni per adempiere alla burocrazia e anche su come imparare la lingua. Queste arrivano sia da video disponibili sulle piattaforme che dal contatto con altri migranti tramite gruppi. Questi ultimi, soprattutto quelli su Facebook, sono fondamentali anche per la ricerca del lavoro, che avviene principalmente chattando con i propri connazionali e amici.
Nel complesso, l’uso dei social media può rendere molto più fluido e facile il processo di integrazione. Bisognerebbe pensare a tutto questo quando ci si domanda come mai migranti e rifugiati, indipendentemente dalla loro condizione economica, hanno sempre uno smartphone con sè. Il cellulare, la rete internet e quindi l’accesso ai social media non sono un lusso, ma ormai una necessità per chi sceglie, o è costretto, a lasciare il proprio paese.
Myanmar: guerriglia social, l’altro fronte della guerra
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
Il 2 febbraio 2021, quando il Tatmadaw – le forze armate del Myanmar – ha marciato sul Parlamento, tutto è stato pubblicato subito sui social media. I carri armati e le macchine dei militari sono finiti sullo sfondo di una lezione di pilates postata quasi in tempo reale su Facebook.
Un episodio grottesco che ha segnato l’inizio di un ritorno al passato per il paese. Dalla sua indipendenza dalla Gran Bretagna (1947), il Myanmar – o Birmania, come veniva chiamato in precedenza – ha avuto una storia travagliata, la maggior parte vissuta sotto una violenta dittatura militare. Nel 2010, però, era iniziata una graduale liberalizzazione che aveva portato a elezioni multipartitiche nel 2015 e all’insediamento, un anno dopo, di un governo guidato dalla veterana leader dell’opposizione Aung San Suu Kyi.
Per cinque anni si è respirata aria di libertà e di cambiamento. Nel novembre del 2019 mi trovavo in Myanmar, nella città di Yangon ed ebbi una conversazione con una ragazza che mi rimase impressa. Lei aveva circa trent’anni ed era nata e cresciuta nella vecchia capitale del Paese, nonché la sua città più popolosa. Mi raccontò di come la città si fosse colorata e animata da quando il Myanmar aveva iniziato un processo di graduale democratizzazione e marginalizzazione del Tatmadaw.
Era cresciuta in una città buia, sotto un perenne coprifuoco che non aveva mai concesso alle strade di popolarsi di locali, di musica e di giovani liberi di essere tali. Si sa: cultura, creatività, musica e giovani sono tutti elementi che non vanno d’accordo con i regimi autoritari, a maggior ragione con le dittature militari.
Per quanto breve, questo assaggio di libertà è bastato a lasciare nella popolazione una sensazione che non si dimentica più. Per questo, in seguito al colpo di stato, non c’è stata rassegnazione neanche per un secondo, ma subito voglia di combattere. Si è aperta una stagione di lotte e proteste che ha coinvolto tutta la popolazione.
Ben presto, si è passati a una vera e propria guerra civile tra la giunta militare e il Governo di Unità Nazionale (NUG), un esecutivo ombra formato da membri del partito di Aung San Suu Kyi e della società civile, spalleggiato in maniera disordinata da altri gruppi armati di resistenza alla giunta sparsi nel paese. Il fronte della resistenza è riuscito in molti casi a unire le forze con diversi rappresentanti delle minoranze etniche, superando così una frattura identitaria che da sempre caratterizza la società birmana.
Coerentemente con quanto avviene ormai in tutte le guerre dell’era digitale, in Myanmar si combatte su un fronte parallelo a quello ‘fisico’: dal 2021 lo scontro tra militari e resistenza va avanti anche sui social media. Se sul campo non vi è un chiaro vincitore, in questo duello digitale la resistenza è più di un passo avanti alla giunta. Come spesso accade, però, con l’evolversi del conflitto si è delineato uno scenario intricato, in cui entrambe le fazioni hanno sempre di più abbracciato la disinformazione come strumento chiave della loro guerra psicologica all’avversario.
Così, il Myanmar è diventato un perfetto racconto dell’uso e dell’abuso dei social media come arma di informazione di massa negli scenari di guerra.
La diffusione dei social media è stata una diretta conseguenza del processo di democratizzazione pre-golpe, che ha portato una liberalizzazione del settore delle telecomunicazioni e una diffusione capillare dell’accesso alla rete. Tutto ciò è stato poi facilitato dal fatto che sempre più birmani hanno iniziato ad avere uno smartphone. Nel 2010 gli utenti internet in Myanmar si aggiravano intorno ai 600mila, mentre si prevede che nel 2024 arriveranno a 31.5 milioni (dati di Statista Market Insights e ITU). Lo stesso aumento esponenziale è avvenuto per gli utenti social: la piattaforma più utilizzata dai birmani è di gran lunga Facebook, che secondo i dati di dicembre 2023 ha più di 20 milioni di utenti, pari a circa il 36% dell’intera popolazione (dati di Napoleoncat.com).
Se già prima del colpo di stato i social si stavano affermando come un elemento centrale nella vita del paese, soprattutto per le nuove generazioni, il ritorno al potere del Tatmadaw ha ulteriormente intensificato questo trend. Dopo il golpe, il panorama mediatico del paese è profondamente cambiato, spingendo i cittadini a ripensare e adattare la propria fruizione dei media.
Una delle prime azioni portate avanti dalla giunta è stato un giro di vite sui canali di informazione indipendenti. In questo nuovo contesto, i social media hanno gradualmente sostituito i media tradizionali, in quanto più liberi e flessibili. Anche i media tradizionali che ancora godono di una buona reputazione nel paese, come Mizzima e DVB, spesso non sono in grado di coprire le dinamiche a livello iper-locale. La capacità dei social media di trasformare normali cittadini in reporter sul campo, invece, permette di avere immagini e notizie da ogni luogo, anche dal più isolato. Come spesso avviene, i social network diventano uno strumento nelle mani degli oppressi. Non solo permettono alla popolazione di organizzare la propria resistenza e avere informazioni sul proprio paese, sono anche il modo più facile per raccontare ciò che accade al mondo, creando empatia e mettendo pressione sul regime. Il Tatmadaw è consapevole di tutto ciò e porta avanti una dura repressione anche in questo campo. La Ong per la difesa dei diritti digitali Access Now parla di dittatura digitale, proprio per indicare l’uso strategico da parte dei militari del loro potere sulle infrastrutture digitali per controllare le capacità di accesso e condivisione delle informazioni da parte della popolazione, nonché per nascondere i suoi gravi abusi. Lo fa interrompendo i servizi online, censurando e controllando i social media.
Tuttavia, anche in Myanmar sono ben noti i modi per evadere questo tipo di censura: in molti hanno fatto ricorso all’utilizzo di VPN (Virtual Private Network), mentre nei centri urbani, a questo metodo si affianca l’utilizzo di schede sim per il roaming internazionale. L’uso delle VPN, tuttavia, comporta un rischio per la sicurezza degli utenti, poiché l’esercito ha iniziato a colpire duramente le persone che possiedono applicazioni per il loro utilizzo. Il semplice fatto di avere una VPN su un telefono è visto come un atto di ribellione.
Il 13 gennaio 2022, il Ministero dei Trasporti e delle Comunicazioni (MOTC) ha pubblicato una versione aggiornata della legge sulla sicurezza informatica che vieta, salvo alcuni rari casi, l’utilizzo delle VPN. Chi ne fa uso oggi rischia la prigione.
“Ci sono stati alcuni casi dopo il colpo di Stato in cui le persone sono state imprigionate per 2-3 anni quando [i militari] hanno scoperto che avevano usato le VPN. Quindi, disinstallo Facebook, la VPN e tutte le applicazioni social prima di viaggiare” riferisce una donna di 29 anni della zona rurale di Sagaing all’International Media Support, una Ong che lavora per sostenere i media locali nei paesi colpiti da conflitti armati.
Per affinare il suo controllo digitale, il Tatmadaw ha potuto contare anche sulle tecnologie di paesi esperti nel controllo della rete. Dopo il golpe del 2021, erano emerse indiscrezioni secondo cui la Cina – che in questi anni non ha mai condannato il golpe e la repressione sulla società civile – avrebbe consegnato sofisticate apparecchiature di sorveglianza al Myanmar, e inviato dei tecnici al fine di aiutare la giunta a creare un firewall birmano.
A questo stesso scopo, sarebbero servite anche alcune tecnologie occidentali ed europee vendute al Myanmar prima che la giunta riprendesse in mano il completo controllo del paese.
La guerra digitale in corso in Myanmar, però, va ben oltre il mero controllo dei social media. Sia la resistenza che la giunta militare vogliono usare questo strumento in tutta la sua forza per plasmare la narrativa degli eventi. La giunta ha un esercito di “scagnozzi digitali”, che diffondono fake news attraverso canali Telegram o account Facebook, ad esempio etichettando vittime civili come combattenti della resistenza o anche diffondendo teorie complottiste su ingerenze esterne.
Contro i militari, invece, si è costituito un esercito social che comprende cittadini-giornalisti, influencer, celebrità, piattaforme di notizie gestite dal NUG e allineate alla resistenza, gruppi di attivisti e cellule delle PDF – grandi unità armate create o riconosciute dal NUG – esperte di media.
Le pagine Facebook e gli influencer più popolari che si appoggiano alla resistenza contano milioni di follower; i post che mostrano o esaltano gli attacchi delle PDF ricevono decine o centinaia di migliaia di reazioni. Spesso però finiscono per romanzare la guerra, esponendo cifre precise sulle perdite della giunta che non possono essere provate.
Ciò che nasce con l’obiettivo di incanalare la rabbia pubblica in una forza positiva a sostegno dello sforzo generale della resistenza, diventa in alcuni casi propaganda. Così facendo, la resistenza rischia di rendere ancora più torbido e disinformato il dibattito. Mentre le battaglie infuriano sul terreno, la strumentalizzazione dei social media da parte delle forze sul campo sta creando delle camere d’eco che presentano il conflitto, incerto e disordinato, attraverso realtà parallele.
Per la Birmania, i social media sono a tutti gli effetti uno dei campi in cui si combatte la guerra e, anche qua, tutto avviene senza esclusione di colpi. Per i civili birmani, però, in molti casi diventa difficile distinguere ciò che è falso da ciò che è vero, oppure da ciò che si vorrebbe lo fosse.
Cina: il Grande Firewall
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
Quando negli anni ‘80 la Cina ha iniziato ad aprirsi al mondo con le riforme di Deng Xiaoping, molti pensavano (o speravano) che abbracciare la globalizzazione e l’integrazione economica avrebbe portato nel Paese anche la democrazia. Così non è stato. Oggi, quasi mezzo secolo dopo, la Cina è un ingranaggio imprescindibile delle catene del valore globale e, per certi versi, il simbolo di come la globalizzazione possa trasformare una società, un’economia, una nazione. Ma della democrazia non c’è traccia. Alla guida non c’è più l’ideologia, come durante gli anni di Mao, ma un partito pragmatico che ha cambiato una società senza però mai perdere il suo controllo. Anzi, man mano che la tecnologia avanza, il controllo non fa altro che diventare più capillare.
Così come ha abbracciato la globalizzazione senza i valori occidentali, la Cina ha sviluppato i social senza lasciar spazio alla libertà che contraddistingue generalmente questo strumento. Per vedere questo paradosso basta far caso a TikTok: è il social media più popolare del momento in tutto il mondo, è di proprietà di un’azienda cinese, ma i giovani cinesi usano una versione fatta appositamente per loro. Questa versione è censurata e controllata. La Cina si è aperta ai social media, ma per evitare che questi portassero con sé la libertà di espressione, e dunque la possibilità di destabilizzazioni, ha creato i suoi.
Le app social più di successo nel paese sono WeChat (simile a whatsapp), Sina Weibo (simile a twitter) e l’app per i video brevi Douyin (il TikTok cinese). Tutte sono soggette ad una rigida censura e al controllo da parte del PCC. Ciò avviene tramite il così detto Grande Firewall, un nome ironico che richiama la Grande Muraglia e che indica la combinazione di azioni legislative e tecnologie applicate dalla RPC per regolamentare Internet nella nazione, e quindi anche i social network. In questo modo il partito è riuscito a mantenere un controllo serrato sulla rete, isolandosi dai contenuti esterni e controllando quelli interni. Il controllo, però, è più complicato di quello che si può pensare.
Ci sono temi di cui in Cina il partito non vuole che si parli; tra questi ci sono i fatti di piazza Tiananmen, le questioni riguardanti l’indipendenza di Taiwan, del Tibet, la questione degli Uiguri o, questa più divertente, la somiglianza tra Xi Jinping e Winnie the Pooh. Altri temi, invece, che non vanno a mettere in discussione le fondamenta ideologiche della RPC (o a prendersi gioco del suo leader), senza esagerare, possono essere discussi. Questo perché, nonostante la stretta censura, i social media in Cina sono anche uno strumento nelle mani del partito per valutare il suo consenso e la popolarità delle sue politiche. Vi è un altro fattore da considerare poi: si stima che oggi in Cina siano iscritti ai social media circa 1 miliardo di utenti; un controllo onnicomprensivo è quindi irrealistico, anche per chi ha fatto del controllo la sua priorità. Non importa quanto ben calibrato possa essere il Grande Firewall, ci saranno sempre dei buchi e la fantasia delle nuove generazioni troverà sempre un modo per scavalcare, anche se solo per poco, la censura imposta dal governo di Pechino. Infatti, per apprezzare appieno le conversazioni sulle piattaforme social cinesi, non basta conoscere il cinese.
Le nuove generazioni hanno creato un proprio vocabolario per discutere le “questioni sensibili”. Questo linguaggio evolve continuamente per stare al passo con il crescente numero di argomenti e termini inseriti dal partito nel libro nero. Un esempio comune è “zf”, l’abbreviazione della parola cinese “governo”, “jc” che sta per “polizia”, l’immagine di un panda per rappresentare l’ufficio di sicurezza interna o il famoso foglio bianco esibito durante le proteste contro le politiche ZeroCovid. Sono stati ideati termini anche per descrivere le VPN, software che danno la possibilità di accedere ai siti web esteri bloccati in Cina (come Facebook e Twitter): “Vietnamese Pho Noodles” è uno dei termini che venivano abitualmente utilizzati per riferirsi alle VPN. Lo stesso vale per ricordare momenti che il partito vuole siano dimenticati: il 4 giugno, il giorno della repressione di Piazza Tienanmen del 1989, si trasforma in “35 maggio”, “65 aprile” o “otto al quadrato” e così via. Spesso la creatività deve arrivare quasi all’assurdo. Un post che chiede “come lavare accuratamente le bottiglie a collo stretto” può sembrare strano, ma la pronuncia cinese di “bottiglia a collo stretto” è simile a quella del presidente Xi Jinping. Per questo, oggi questa frase è censurata.
Il sistema di censura cinese lascia perplessi. L’elenco delle parole “sensibili” cambia continuamente ed è sconosciuto al pubblico. Ci sono parole che alcuni utenti non possono scrivere, ma altri sì. Le persone, quindi, si auto censurano sempre nel tentativo di battere il sistema. In tutto questo lavoro per sfuggire alla censura, bisogna riconoscere ai cittadini cinesi una certa dose genialità.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di Luglio/Settembre di eastwest
Puoi acquistare la rivista sul sito o abbonarti
Cina: alla corte di Xi Jinping i leader dei Paesi del sud globale esclusi dal G20
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
Xi Jinping salta il G20 e accoglie in Cina i presidenti di Zambia e Venezuela. Un messaggio chiaro al mondo di come la Cina intende gestire la sua politica estera
A Nuova Delhi è in corso il G20, il forum che riunisce le 20 principali economie mondiali, responsabili dell’85% del Pil globale. A rapporto, però, non c’è Xi Jinping. La Cina viene rappresentata dal premier Li Qiang, numero due del partito e stretto confidente di Xi. Da quando è salito al potere nel 2012, è la prima volta che il leader cinese salta il G20. Come spesso accade quando si parla di Cina, non sono state date spiegazioni chiare sulle ragioni dietro la sua assenza. Quello che sappiamo è che Xi è rimasto a Pechino e ospiterà due leader di paesi fortemente indebitati: il Presidente dello Zambia Hakainde Hichilema, in visita dal 10 al 16 settembre, e il Presidente del Venezuela Nicolas Maduro, che si tratterrà dall’8 al 14 settembre. Le scelte diplomatiche di Xi Jinping non sono casuali. Piuttosto, sono un messaggio chiaro al mondo di come la Cina, alla luce del contesto geopolitico attuale, preferisce condurre la sua politica estera.
Questione di priorità
A far bene i conti, Xi non aveva poi grandi motivazioni per recarsi a Nuova Delhi. Il G20 di quest’anno ha un solo, grande protagonista: l’India di Narendra Modi. Il Forum consacra l’ingresso dell’India nelle grandi potenze; Modi si è impegnato in tutti i modi affinché questo aspetto fosse visibile a tutti come un suo traguardo, tappezzando le città indiane con il suo volto e trasformando la capitale indiana in ‘una città svizzera’ – per pulizia e ordine – in vista dell’arrivo dei leader mondiali. Dal punto di vista del leader cinese, presenziare al G20 lo avrebbe messo in una posizione scomoda. In assenza del Presidente russo Vladimir Putin, gran parte delle pressioni legate al dossier ucraino si sarebbero focalizzate su Xi. La Cina, inoltre, sta attraversando un periodo di tensioni con l’India, causate delle crescenti restrizioni all’export cinese e delle mai risolte dispute territoriali. Dato il buon rapporto (seppur di convenienza) tra India e Stati Uniti, la Cina rischiava di trovarsi messa all’angolo.
Con la sua assenza dal G20, Xi Jinping esplicita la sua disillusione nei confronti dell’attuale sistema di governance globale e di tutte quelle strutture internazionali troppo permeate dall’influenza occidentale. Allo stesso modo, rimanere in Cina per accogliere i leader di Zambia e Venezuela, entrambi non membri del G20, mostra le priorità di Pechino: concentrarsi su chi, come lui, vuole cambiare radicalmente lo status quo del sistema internazionale e sui forum multilaterali – come il vertice BRICS – in cui la Cina ha grande peso e può far valere la sua voce.
Per i media cinesi, in Occidente si sta diffondendo un’interpretazione sbagliata dell’assenza di Xi Jinping dal G20. Infatti, il fatto che non ci sia il leader cinese, non vuol dire che non sia la Cina. Secondo il Global Times, un tabloid megafono della propaganda di partito, la Cina non ha saltato il G20, ma ha piuttosto ha scelto di presenziare a due eventi complementari: con Li Qiang al Forum di Nuova Delhi e con Xi Jinping all’accoglienza di due leader di Paesi del Sud Globale esclusi dal G20.
Creditori e debitori
La Cina è un attore cruciale quando si parla di ristrutturazione del debito. Ad oggi, Pechino è il maggior creditore bilaterale a livello globale, con gran parte dei suoi fondi canalizzati sui paesi in via di sviluppo. Secondo i dati del 2021, la Cina detiene il 17.6% del debito dello Zambia; nel caso del Venezuela, nonostante i pochi dati disponibili, si stima che il paese abbia un debito verso la Cina di circa $ 12 miliardi. Negli ultimi anni, sia il Paese africano che quello sudamericano hanno cercato di ottenere delle ristrutturazioni del loro debito con la Cina, per far fronte ai loro livelli di debito sempre più preoccupanti.
All’inizio di quest’anno, lo Zambia è stato il primo paese a ottenere un’importante riduzione del debito attraverso il cosiddetto Common Framework. Pechino ha avuto un ruolo centrale, coordinandosi con gli altri creditori del Club di Parigi e gli obbligazionisti. Gran parte delle discussioni tra il Presidente Hakainde Hichilema e Xi Jinping si focalizzerà dunque sulla questione del debito. Soprattutto perché il tanto cercato accordo per rinegoziare il debito dello Zambia necessita ancora di un memorandum d’intesa per essere effettivo.
La Cina, però, ha anche altri interessi in ballo con lo Zambia. L’importanza globale del Paese africano sta crescendo grazie ai suoi vasti depositi di minerali, una componente imprescindibile per attuare la transizione energetica. Le risorse zambiane comprendono anche il rame, le miniere di nichel e le risorse di cobalto. Pechino punta dunque ad assicurare la sua influenza nel paese: ad esempio, la Zijin Mining Group Co. è in lizza per acquisire una partecipazione nelle attività della Mopani Copper Mines Plc dello Zambia, rilevata dal governo nel 2021 e ora società a maggioranza statale.
Per quanto riguarda l’arrivo del Presidente venezuelano in Cina, è da intendersi come parte del processo di riavvicinamento tra i due Paesi, dopo anni di relazioni più fredde. Appena dopo aver messo piede a Shenzhen, Maduro ha twittato che la sua visita “storica” era volta a “rafforzare la cooperazione e la costruzione di un nuovo ordine mondiale”. In realtà, anche in questo caso, è lecito pensare che una buona parte delle discussioni sarà riservata a questioni economiche. Energia, il rimborso del debito e i nuovi finanziamenti saranno probabilmente il vero focus della visita. Il Venezuela ha una delle più importanti riserve di petrolio al mondo, mentre la Cina è uno dei maggiori acquirenti mondiali della materia prima. Per questo, dal 2007, Pechino si è affermata come uno dei principali finanziatori venezuelani, fornendo fondi per infrastrutture e progetti petroliferi. Secondo Bloomberg, la Cina avrebbe erogato fino al 2015 circa 60 miliardi di dollari in prestiti, garantiti con forniture di petrolio. Adesso, in vista della candidatura ad un terzo mandato, Maduro sta cercando di massimizzare i guadagni del petrolio e, dunque, ha necessità di rinvigorire i rapporti con la Cina. A maggior ragione, date le sanzioni internazionali che gravano sul paese, rendendo la Cina un creditore e compratore da tenersi stretto.
L’altra sponda
La Cina porta avanti la sua offensiva diplomatica su più fronti, dando però priorità a quelli in cui si respira un’aria di frustrazione verso l’Occidente e gli Stati Uniti. I BRICS e l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai – di cui Pechino è fondatore o attore principale – hanno acquisito alla luce della crescente frattura con l’Occidente un valore chiave per l’ascesa cinese. Il mese prossimo, Xi Jinping dovrebbe ospitare il Belt and Road Forum per celebrare 10 anni dall’annuncio della BRI – l’iniziativa infrastrutturale, commerciale e anche geopolitica, simbolo della sua leadership.
Putin-Erdogan: l’incontro a Sochi e l’accordo sul grano
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
Lunedì 4 settembre, il presidente turco Erdogan incontrerà il suo omologo russo, Vladimir Putin. Secondo quanto riportato dal portavoce del Cremlino, l’incontro dovrebbe tenersi a Sochi, una cittadina russa sul Mar Nero. La scelta del luogo non è affatto casuale: infatti, il centro della discussione sarà rimettere in piedi la Black Sea Grain Initiative, interrotta unilateralmente dalla Russia il 17 luglio. L’accordo aveva permesso di riprendere, nonostante la guerra, le esportazioni di grano ucraino e russo verso i mercati globali. A renderlo possibile, era stata proprio la mediazione di Ankara, insieme alle Nazioni Unite.
Il Segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres ha detto di aver inviato al ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov “una serie di proposte concrete” volte a rilanciare l’iniziativa. Sulla base, però, delle dichiarazioni anonime di un diplomatico russo, riportate da Reuters, la lettera di Guterres a Lavrov si limiterebbe a “riassumere le precedenti idee delle Nazioni Unite, che non hanno funzionato”, lasciando poco spazio alle speranze di ripresa della Black Sea Grain Initiative.
La Black Sea Grain Initiative: “un faro di speranza”
Durante la cerimonia per la firma dell’accordo, il 22 luglio 2022, il Segretario Generale delle Nazioni Unite António Guterres lo definì come un “faro di speranza” in un mondo che ne ha disperatamente bisogno. L’invasione russa ha reso il Mar Nero un luogo estremamente pericoloso dove transitare, bloccando dunque anche le rotte commerciali che passavano da lì. L’accordo ha garantito per circa un anno la possibilità all’Ucraina di riprendere le esportazioni di grano dai suoi tre porti principali sul Mar Nero – Odesa, Chornomorsk e Pivdennyi – responsabili del passaggio di circa il 37% di tutte le esportazioni agricole ucraine prima dell’invasione. Allo stesso tempo, l’accordo ha fornito assicurazioni anche alla Russia, promettendo che le sue esportazioni di grano e fertilizzanti non sarebbero state escluse dai mercati globali.
Secondo Mosca, però, le garanzie nei suoi confronti non sono state rispettate e per questo si è ritirata dal patto lo scorso luglio. Ora, per riportarlo in vita chiede che vengano rispettate le sue condizioni per tutelare le esportazioni russe di grano e fertilizzanti. Soprattutto, una delle richieste principali di Mosca è che la Banca Agricola Russa venga ricollegata al sistema di pagamenti internazionali SWIFT, da cui è esclusa da giugno 2022.
Infatti, seppure le esportazioni di alimentari e di fertilizzanti russi non sono soggette alle sanzioni imposte dall’Occidente dopo l’invasione dell’Ucraina, le varie restrizioni sui pagamenti, sulla logistica e sulle assicurazioni hanno comunque ostacolato le spedizioni russe.
In vista dell’incontro tra Putin ed Erdogan, il ministro degli Esteri russo Lavrov avrebbe fornito al governo turco un elenco di azioni che l’Occidente deve intraprendere per far sì che l’accordo sul grano possa ritornare operativo. La speranza, è che i colloqui tra i due leader possano contribuire a sbloccare la situazione.
La centralità turca
La Turchia era stata l’attore che aveva davvero reso possibile l’accordo sul grano. In base alla convenzione di Montreux firmata nel 1936, spetta ad Ankara la supervisione del traffico marittimo negli stretti del Bosforo e dei Dardanelli. Ma il motivo della mediazione turca si lega soprattutto ai rapporti tra Erdogan e Putin. Nonostante la Turchia sia uno dei principali membri della NATO, il paese ha sempre mantenuto delle relazioni economiche, militari e politiche molto strette con la Russia. Anche dopo la decisione di Putin di invadere l’Ucraina, la Turchia di Erdogan ha cercato in tutti i modi di mantenere una posizione il più possibile neutrale: ha dato pieno supporto a Kiev, anche militare, ma non ha abbracciato posizioni drasticamente anti-putiniane come il resto dei membri NATO. Ad esempio, la Turchia non si è unita all’imposizione di sanzioni alla Russia. Erdogan è riuscito fino ad ora a sfruttare in pieno il suo ruolo da mediatore, mostrando ottime doti da ‘equilibrista’. La sua strategia nella guerra tra Russia e Ucraina si è guadagnata il rispetto dell’opinione pubblica turca, contribuendo, almeno indirettamente, alla sua rielezione. Allo stesso tempo, la Turchia ha sfruttato i vantaggi economici di mantenere rapporti con la Russia. Non solo gli scambi commerciali turco-russi sono aumentati, Putin è anche venuto in contro ad Erdogan, nel periodo precedente alle elezioni, accettando di ritardare i pagamenti del gas naturale della Turchia e depositando valuta estera nella Banca centrale turca.
Dopo aver vinto le elezioni, però, Erdogan sembra più propenso a un riavvicinamento al blocco occidentale. Ne sono stati un esempio i fatti di Vilnius, al vertice NATO tenutosi a luglio in Lituania: il leader turco ha finalmente sbloccato l’ingresso della Svezia nell’alleanza militare transatlantica e ha rispolverato, con grande sorpresa di tutti, la candidatura della Turchia per l’adesione all’Unione Europea.
Tra i due litiganti, i paesi in via di sviluppo pagano le conseguenze
La Black Sea Grain Initiative – data la centralità di Russia e Ucraina nella supply chain del grano – aveva come obiettivo principale quello di mantenere ad un livello accessibile i prezzi, evitando che si potesse arrivare a situazioni di carestia nei vari paesi a rischio. Spesso, dunque, quando si parla di questo accordo lo si fa in riferimento ai suoi effetti sui paesi più poveri e in via di sviluppo. Sicuramente, l’aumento di offerta della materia prima seguito all’avvio del patto, ha contribuito ad abbassare il livello generale dei prezzi, dando sollievo quindi anche ai paesi economicamente più fragili. Ciononostante, bisogna sottolineare che solo una piccola quantità di questo grano è andato effettivamente ai paesi più poveri. Secondo i dati rilasciati dalle Nazioni Unite, il 2,5% del grano è stato destinato a Somalia, Etiopia, Sudan, Yemen e Afghanistan, ovvero paesi devastati da conflitti e dagli effetti del cambiamento climatico. Altri leggermente più prosperi come Kenya, Egitto, Tunisia e Bangladesh hanno ricevuto il 17%. La maggior parte del grano è finito in paesi ben più ricchi: i maggiori beneficiari sono stati Cina, Spagna, Turchia e Italia.
Anche se i dati testimoniano una ripartizione del grano non proprio equa, è innegabile che la Black Sea Grain Initiative sia cruciale per garantire la sicurezza alimentare dei paesi più poveri, situati soprattutto in Africa. Nell’ultimo anno, l’Ucraina ha contribuito per oltre l’80% alle forniture di grano del World Food Program. Inoltre, l’Indice dei prezzi alimentari della FAO era pari a 140,6 nel luglio 2022, prima che entrasse in vigore l’Iniziativa; un mese prima che fosse interrotta, a giugno 2023, era sceso a 122,3 punti.
Il ripristino dell’accordo sul grano rimane una priorità. Sarà sicuramente una priorità anche nei dialoghi tra Putin ed Erdogan, seppur le prospettive non sono rosee, si spera che si possa ritrovare un compromesso.
Niger: la giunta golpista ordina all’ambasciatore francese di lasciare il Paese
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
La giunta del Niger, salita al potere con un colpo di stato il 26 luglio scorso, ha ordinato all’ambasciatore francese Sylvain Itte di lasciare il Paese entro 48 ore. L’annuncio è arrivato venerdì 25 agosto, e rispecchia un clima sempre più teso e conflittuale tra Niamey e il suo ex dominatore coloniale. Da questo punto di vista, il colpo di stato nigerino condivide alcune similitudini con altri recenti golpe africani, in Burkina Faso e in Mali. Entrambi si sono verificati nel mezzo di una crescente ondata di sentimenti antifrancesi, motivati con accuse di ingerenza verso Parigi.
La giunta golpista ha riportato i motivi che l’avrebbero spinta a chiedere la partenza dell’ambasciatore francese, giustificando la propria azione come una risposta ad azioni contrarie agli interessi del Paese africano. Nello specifico, una di queste sarebbe il rifiuto dell’inviato di incontrare il nuovo ministro degli Esteri scelto dai militari dopo il colpo di stato. Il Ministero degli Esteri francese ha dichiarato di aver “preso nota” dell’ordine di espulsione, ma ha anche che i “putschisti” non hanno nessuna autorità per fare questa richiesta.
Fino ad ora, non sembra che la giunta golpista si sia fatta intimorire dalle minacce della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (ECOWAS), che venerdì scorso ha ri-esortato i leader nigerini a ripristinare il governo civile. Per l’ECOWAS la minaccia della forza rimane ancora “molto presente”; infatti, la comunità avrebbe stabilito un “D-Day” non rivelato per l’intervento militare in Niger.
Messaggi contrastanti
Nonostante tutto, l’ECOWAS continua a sottolineare come i negoziati rimangano la sua priorità. Ma continua anche a sottolineare che, se necessario, si ricorrerà ad un “uso legittimo della forza” per ripristinare la democrazia. Agli occhi del presidente della commissione ECOWAS Omar Alieu Touray, la questione supera i confini del Niger: si tratta di testare “la determinazione della comunità a fermare la spirale dei colpi di Stato nella regione”. Ad oggi, la comunità regionale si trova già coinvolta nella negoziazione con le amministrazioni militari del Mali, del Burkina Faso e della Guinea. In teoria, tutte stanno lavorando alla transizione verso la democrazia dopo i loro colpi di stato; in pratica, le giunte di Burkina Faso e Mali continuano ad esprimere il loro supporto per i ‘compagni di golpe’ in Niger.
I nuovi governanti del Niger si dicono anch’essi aperti ai negoziati, superando l’iniziale chiusura. Ma, anche in questo caso, i messaggi sono contrastanti. Continuano, infatti, le minacce di accusare il presidente eletto Bazoum – ancora detenuto nella sua residenza ufficiale insieme alla famiglia – di tradimento. Inoltre, gli ufficiali militari hanno rilasciato un comunicato congiunto con Mali e Burkina Faso che autorizza questi ultimi a intervenire nel Paese in caso di “aggressione” da parte dell’ECOWAS.
Un test per l’Africa occidentale (e non solo)
Quando il mese scorso il presidente nigeriano Bola Ahmed Tinubu è stato eletto presidente dell’ECOWAS, nel suo discorso di accettazione ha promesso che il blocco non poteva permettere “un colpo di Stato dopo l’altro”, rimarcando che, per quanto difficile da gestire, la democrazia rimane “la migliore forma di governo”.
Per tanti analisti specializzati nelle dinamiche politiche del continente, il colpo di stato in Niger sarà un evento di svolta per la geopolitica intra-africana. Per Tatiana Smirnova, ricercatrice presso il Centre FrancoPaix sulla risoluzione dei conflitti e le missioni di pace, “Per l’ECOWAS, la posta in gioco è enorme”, poiché da come reagirà dipenderà gran parte del suo futuro.
Quando è stata fondata nel 1975, l’ECOWAS era stata concepita per promuovere i legami economici e monetari all’interno della regione. Ma il suo campo d’azione si è notevolmente ampliato negli ultimi decenni – a partire dagli interventi armati degli anni ’90 nelle guerre civili in Sierra Leone e Liberia – arrivando ad includere operazioni di sicurezza e coordinamento militare.
La crisi politica nigerina supera i confini nazionali e regionali, ma anche del continente. Se era iniziata come un affare interno, è stata velocemente proiettata in un contesto più ampio di competizione tra i Paesi occidentali e la Russia. Quest’ultima è stata accolta calorosamente da diverse giunte africane e, anche nel caso nigerino, non sono mancati gli indizi su un coinvolgimento attivo di Mosca nel golpe. Il Niger è uno degli stati africani che più stava coltivando un buon rapporto con l’Occidente, ospitando soldati statunitensi e francesi nell’ambito delle iniziative antiterrorismo. Questi elementi hanno reso il colpo di stato in Niger un evento polarizzante, carico di valore geopolitico. Dalla sua risoluzione o meno, passa il futuro dei cittadini nigerini, del Sahel, dell’ECOWAS e anche dell’influenza occidentale nella regione. Tanta carne al fuoco che rende la questione una priorità internazionale.
Ucraina: la corruzione rimane il “nemico interno” di Kiev
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
Da quando è partita l’invasione russa, ormai più di 500 giorni fa, gli Ucraini hanno resistito con tutte le loro forze. Se da un lato molti cittadini hanno abbracciato volontariamente la causa e le armi, molti altri si sono ritrovati obbligati a farlo.
Da quando nel febbraio 2022 è stata introdotta la legge marziale, agli uomini di età compresa tra i 18 e i 60 anni è stato vietato lasciare il Paese. Esistono delle esenzioni per motivi medici, di studio all’estero e familiari (essere padre single, avere più di tre figli o doversi prendere cura di una persona disabile). Ma sono tanti gli uomini che, non potendovi accedere, cercano disperatamente di sfuggire alla chiamata militare. Per farlo, sono disposti anche a pagare.
Da qui nasce la questione che ha portato alla rimozione dal proprio ruolo i capi dei centri di reclutamento militare di 11 regioni diverse. I funzionari sono accusati di aver accettato tangenti da persone che volevano evitare il servizio di leva, ad esempio chiedendo 6mila dollari in cambio di un certificato medico che garantisse la loro esenzione dal servizio militare. Attualmente, sono in corso circa 112 procedimenti penali legati a questa indagine.
Un problema strutturale
La corruzione non è un problema nuovo per Kiev. Prima della rivoluzione di Maidan del 2014, l’Ucraina era considerata uno dei Paesi più corrotti d’Europa. Da allora il Paese ha costruito una serie di istituzioni anticorruzione sempre più efficaci, senza però riuscire a risolvere davvero il problema. Nel 2016, il New York Times titolava così un suo editoriale: “La corruzione inflessibile dell’Ucraina”.
L’articolo faceva i conti con i problemi endemici dello stato ex Sovietico, raccontando come la corruzione avesse sempre fatto parte della politica del Paese, fin dalla sua indipendenza dall’URSS. Ad alimentarla, gli stretti legami tra politici e oligarchi, un sistema giudiziario debole e tante riforme mancate.
Da quando è scoppiata la guerra, le cose non vanno meglio. Anzi, in risposta all’invasione russa su larga scala dello scorso febbraio, le risorse per gli organismi addetti alla causa – come l’Ufficio nazionale anticorruzione – sono state drasticamente ridotte. Inoltre, sempre dopo l’invasione russa, l’Ucraina ha temporaneamente sospeso diverse delle sue politiche anticorruzione, come l’obbligo per i funzionari di dichiarare pubblicamente i propri beni.
L’anno scorso Kiev ha ottenuto dall’Unione Europea lo status di candidato. Uno dei requisiti fondamentali per poter diventare membro dell’UE è proprio la lotta alla corruzione. Quest’ultima è stata anche una delle grandi promesse portate avanti da Zelensky durante la sua campagna elettorale del 2019 e rimane tutt’oggi, a suo dire, una delle priorità insieme allo sforzo bellico. Il Presidente ucraino, infatti, non ha nascosto la sua rabbia per l’accaduto, affermando che “il sistema dovrebbe essere gestito da persone che sanno esattamente cos’è la guerra e perché il cinismo e la corruzione durante la guerra sono un tradimento”.
Le controversie del reclutamento militare ucraino
A dicembre, il Servizio di Stato per le Frontiere ucraino ha dichiarato che, da quando è stata dichiarata la legge marziale in seguito all’invasione russa, circa 12.000 uomini hanno cercato di lasciare il Paese illegalmente. Almeno 950 persone sono state accusate di crimini legati all’elusione del servizio militare, dalla falsificazione di documenti al trasferimento illegale di persone. Una parte del problema, dice il Financial Times, sarebbe da ricondurre a un sistema di reclutamento obsoleto, dove le promozioni degli ufficiali sono ancora legate al raggiungimento di determinate quote di arruolati. Questo sistema porta con sé situazioni spiacevoli: ad esempio, un ufficiale addetto al reclutamento nella regione di Vinnytsia era stato filmato mentre discuteva con la madre di un uomo disabile dichiarato idoneo al servizio da una commissione medica militare, anche se aveva bisogno di essere nutrito con un cucchiaio. La decisione fu poi annullata.
Un sistema di reclutamento inadatto si collega profondamente agli episodi di corruzione in questione. Maggiori sono le forzature all’arruolamento, maggiori saranno le persone che cercheranno un modo per sfuggirvi, dunque, creando i presupposti per episodi di corruzione.
Per far fronte a questa situazione, un deputato del parlamento ucraino, Heorhiy Mazurashu, ha presentato recentemente una bozza di emendamento che consentirebbe agli uomini di rifiutare la leva per motivi personali o religiosi. La ratio dell’iniziativa sarebbe quella di attirare nell’esercito cittadini motivati, consentendo invece a coloro che non vogliono combattere di cercare un impiego e contribuire così a tenere viva l’economia ucraina. “Le autorità devono smettere di inseguire vergognosamente chiunque con avvisi di leva”, ha detto Mazurashu. Il deputato ha sottolineato come questa situazione crei “una bella immagine da diffondere per il nemico” e stia avendo “un effetto negativo sulla situazione socio-economica del Paese e sullo stato psicologico della gente”.
Usa/Taiwan: 345 milioni di dollari in aiuti militari per scoraggiare l’invasione cinese
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
Gli Stati Uniti invieranno 345 milioni di dollari in aiuti militari a Taiwan per dissuadere – o nel caso, affrontare – un potenziale attacco della Repubblica Popolare Cinese. L’annuncio è arrivato venerdì 28 luglio e, ovviamente, ha fatto infuriare Pechino.
Si tratta del primo grande pacchetto militare, fornito dall’amministrazione Biden a Taipei, sfruttando la Presidential Drawdown Authority. Quest’ultima è una misura di emergenza, che autorizza il Presidente Usa ad approvare il trasferimento di articoli e servizi – nello specifico, armi e servizi – direttamente dalle scorte statunitensi, senza passare da un via libera del Congresso. Nella pratica, dunque, Taiwan non dovrà aspettare la produzione e la vendita di queste armi, che saranno consegnate in tempi molto più rapidi. La stessa autorità emergenziale è stata fino ad ora usata per fornire miliardi di dollari in munizioni e armi all’esercito Ucraino per resistere all’invasione russa.
Secondo l’annuncio della Casa Bianca, il pacchetto comprenderà articoli militari per la difesa, nonché istruzione e formazione per i taiwanesi. Non si entra nei dettagli di cosa verrà fornito. I media, però, hanno riportato alcune indiscrezioni: secondo due funzionari statunitensi che hanno parlato in anonimato, Washington invierà sistemi di difesa aerea portatili, sistemi di intelligence e sorveglianza, armi da fuoco e missili; secondo altre fonti anonime, il pacchetto avrebbe dovuto includere quattro droni da ricognizione MQ-9A disarmati, ma questi potrebbero essere stati esclusi in quanto attrezzature avanzate ad utilizzo esclusivo dell’aeronautica statunitense.
Il pacchetto fa parte del bilancio da 1 miliardo di dollari, approvato dal Congresso, di aiuti militari da fornire a Taiwan sotto la Presidential Drawdown Authority. Inoltre, arriva dopo che gli Stati Uniti hanno approvato la vendita a Taipei di vari F-16 e altri importanti sistemi d’arma, per un valore di circa 19 miliardi. La consegna di queste armi, però, avvenuta secondo le normali procedure, ha subito vari ritardi a causa di problemi di disgregazione e pressione sulla catena del valore globale, dovuti a Covid-19 e alla guerra in Ucraina.
Una Cina, due reazioni?
Il Ministero della Difesa di Taiwan ha ringraziato gli Stati Uniti per il loro “fermo impegno per la sicurezza” dell’isola, aggiungendo che non è necessario un commento approfondito dei dettagli del pacchetto poiché vi è un “tacito accordo” tra le due parti. Dall’altra parte dello stretto, invece, la reazione è stata opposta. Liu Pengyu, portavoce dell’ambasciata cinese a Washington, ha dichiarato che Pechino è “fermamente contraria” ai legami militari degli Stati Uniti con Taiwan. Liu ha detto che gli Stati Uniti dovrebbero “smettere di vendere armi a Taiwan” e “smettere di creare nuovi fattori che potrebbero portare a tensioni nello Stretto di Taiwan”. Ciò che a Taiwan viene visto come un rafforzamento della propria sicurezza, in Cina appare come una minaccia. Quando a maggio 2023 si era sparsa per la prima volta la notizia di un probabile invio di armi sotto la Presidential Drawdown Authority, il Global Times – un tabloid di partito – aveva avvertito che il piano rischiava di trasformare l’isola in una polveriera. Secondo il tabloid, queste mosse provocatorie degli Stati Uniti hanno il solo obiettivo di contenere l’ascesa cinese, anche a scapito della sicurezza dei taiwanesi. Ciò rappresenta la retorica della Cina continentale: gli Stati Uniti portano avanti i loro interessi a discapito degli altri.
Imparare la lezione
L’invio di questo pacchetto non fa altro che aumentare le tensioni tra Cina e Stati Uniti. Nell’ultimo periodo, c’era stata una timida ripresa dei dialoghi, anche ad alti livelli. Ma questa mossa spinge nella direzione opposta di un riavvicinamento tra le parti. Molti direbbero però che in realtà, nonostante i dialoghi recenti, un riavvicinamento non ci sia mai stato. La tensione rimane alta.
Per gli Stati Uniti armare Taiwan vuol dire far vedere che la lezione ucraina è stata appresa. Ad oggi, Washington è il grande sponsor dietro la resistenza Ucraina. Miliardi di dollari per permettere agli Ucraini di resistere all’invasione dell’esercito Russo, molto più grande e, inizialmente, equipaggiato. Forse, se gli Ucraini fossero stati armati prima, l’invasione non ci sarebbe stata. Non lo si può sapere, ma nel dubbio questa volta non si vuole rifare lo stesso errore. Soprattutto perché di fronte non si avrebbe una potenza decadente come la Russia – seppur armata con testate nucleari – ma un paese come la Cina, che ogni anno diventa più forte e influente, sia a livello militare che economico e geopolitico. Quindi, meglio giocare di anticipo.
Inoltre, diversamente da Kiev, Taipei è un nodo cruciale della catena del valore globale. Soprattutto, è indispensabile per la produzione di semiconduttori, la componente che ormai manda avanti il mondo, letteralmente. Dalla lavatrice ai pannelli solari, dal nostro smartphone ai missili dell’esercito: tutto incorpora i microchip, e quindi semiconduttori. Taiwan ne produce oltre il 60% del totale a livello mondiale e oltre il 90% di quelli più avanzati. Anzi, finora i più avanzati sono stati prodotti solo a Taiwan. Affermarsi in questo settore è stata la grande assicurazione di Taipei per la sua sopravvivenza da stato indipendente. Ma, allo stesso tempo, rappresenta la grande fragilità del sistema globale che, se ci fosse una guerra tra le due entità dello stretto, si troverebbe scoperto.
Ambiguità (strategiche)
Il triangolo Cina-Taiwan-Usa è fatto di ambiguità. Gli Stati Uniti aderiscono alla “politica dell’unica Cina” in base alla quale non riconoscono l’indipendenza formale di Taiwan e non hanno relazioni diplomatiche formali con l’isola per ossequio a Pechino. Vi è però molta differenza rispetto al “principio dell’unica Cina” a cui aderisce invece Pechino. Infatti, gli Stati Uniti nella pratica intrattengono profondi rapporti economici e politici con Taiwan, e più di una volta si son detti anche pronti ad intervenire per difenderne l’indipendenza. La legge statunitense supporta una difesa credibile di Taiwan e il fatto che tutte le minacce all’isola siano trattate come questioni di “grave preoccupazione”.
Nel mezzo dei due fuochi, ci sono i cittadini taiwanesi, fieri della propria indipendenza e di aver sviluppato un’identità propria, ma anche desiderosi di mantenere un rapporto “civile” con il grande, armato, vicino cinese. Dalla Cina continentale dipende anche profondamente l’economia dell’isola. Una situazione ambigua, che con il passare del tempo diventa sempre più instabile. Gran parte di cosa accadrà in futuro però, non dipende solo dalle due superpotenze, Usa e Cina, ma anche dalle scelte elettorali che faranno i cittadini di Taiwan nelle elezioni presidenziali del 2024. A contendersi la presidenza saranno l’attuale vicepresidente filoamericano Lai Ching-te e il candidato del partito filocinese Kuomintang. In ogni caso, l’isola è destinata a rimanere sotto i riflettori internazionali.
India: il caso di violenza sessuale nel Manipur accende la protesta delle donne
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
Dividiamo la vicenda in quattro diversi momenti temporali. Il 3 maggio due donne vengono denudate, fatte sfilare e violentate nello stato indiano di Manipur da un gruppo di uomini. Per oltre tre mesi questa vicenda rimane nel più terribile silenzio. Giovedì 20, emerge un video terribile del fatto, dove si vedono chiaramente i volti dei carnefici, e diventa virale su Twitter. Venerdì 21, centinaia di donne si riuniscono per protestare, chiedono giustizia, danno fuoco alla casa di uno dei principali indiziati e tirano pietre. Sabato 22, arriva la notizia che i 4 principali sospettati sono stati tutti presi in custodia e che la polizia sta cercando di rintracciare anche tutte le altre persone coinvolte, circa 30.
Ci sono voluti più di tre mesi prima che questa vicenda ricevesse attenzione da chi di dovere. La violenza riporta alla luce due diverse questioni, che si intrecciano l’una con l’altra: la violenza etnica, una delle principali piaghe del Paese, e il profondo problema indiano con lo stupro di gruppo, qualcosa di cui tante donne sono state vittima e che, nonostante un’India avviata allo sviluppo e alla modernizzazione, continua a macchiare indelebilmente la storia presente del Paese.
Sull’orlo di una guerra civile
Da maggio lo stato del Manipur, nel nord-est dell’India, è lacerato da violenze etniche tra il gruppo maggioritario dei Meitei, prevalentemente indù, e il gruppo minoritario Kuki, principalmente cristiano. I report dal campo raccontano di un clima da simil-guerra civile con sparatorie, saccheggi e violenze sessuali.
In questo contesto si inserisce la violenza di gruppo sulle due donne. Lo stupro diventa spesso un’arma, di offesa o vendetta, durante i conflitti. Un articolo del quotidiano online indiano The Print, racconta come le violenze sessuali mostrate nel video siano seguite alla diffusione di notizie false sullo stupro e l’omicidio di una donna Meitei, avvenuta subito dopo l’inizio delle violenze nello stato indiano. Questo ha “scatenato un nuovo, mortale ciclo di violenze di rappresaglia sulle donne tribali Kuki, presumibilmente da parte di folle Meitei”, si legge nell’articolo.
Da quando sono scoppiati a maggio, gli scontri tra Meitei e Kuki hanno causato più di cento morti, migliaia di sfollati e innumerevoli edifici rasi al suolo. Purtroppo Manipur non è nuovo a questo tipo di violenze, seppur questa volta la situazione sembri più grave. Lo stato indiano confina con il Myanmar e ospita più di 33 diversi gruppi etnici; la maggioranza dei 3.3 milioni di abitanti però si divide fra Meitei e Kuki. I problemi ci sono sempre stati ma nell’ultimo anno la situazione è andata in contro ad un’escalation, in parte alimentata anche dal conflitto civile nella vicina Birmania. Da quando c’è stato il colpo di stato nel 2021, un grande numero di rifugiati birmani ha varcato i confini in cerca di un luogo sicuro. Molti sono arrivati nel Manipur. Una buona parte di questi appartiene all’etnia Chin, che condivide un profondo legame con i Kuki, la minoranza cristiana dello stato indiano in questione. In un contesto dominato dai Meitei e dove il governo di Manipur è guidato da un membro del partito induista di Modi, il Bharatiya Janata Party (BJP), i rifugiati Chin hanno infiammato le già presenti faide tra i gruppi: i Meitei vedono i rifugiati Chin come una minaccia, mentre le tribù Kuki sono aperte ad accoglierli.
Il governo fino ad ora non ha saputo favorire la riconciliazione della situazione. In molti casi lo strumento messo in campo è l’interruzione di Internet, o la censura di social e piattaforme, per arginare la diffusione di contenuti sul web di contenuti che possano incitare alla violenza. Ma come testimonia la violenza che hanno subito le due donne il 3 maggio, la situazione sembra fuori controllo.
Narenda Modi – da sempre accusato di fomentare la violenza etnica con la sua retorica nazionalista indù – ha commentato le violenze etniche del Manipur, comprese le violenze sulle donne, solo fuori dal Parlamento. Ha parlato con i giornalisti giovedì 20, prima dell’inizio di una seduta in Parlamento, definendo le aggressioni “vergognose” e un “insulto” al Paese. Mallikarjun Kharge, presidente dell’Indian National Congress e leader dell’opposizione nella Camera alta del Parlamento ha detto che “Il Manipur sta bruciando. Le donne vengono violentate e fatte sfilare nude. Il Primo Ministro rilascia una dichiarazione all’esterno. È un insulto al Parlamento”. Infatti, successivamente, i partiti dell’opposizione hanno interrotto i lavori parlamentari, accusando il governo Modi di voler evitare una discussione approfondita sulle violenze del Manipur.
La situazione purtroppo è complicata e non sembra essere destinata a risolversi nel breve periodo. E le possibilità di una pace diminuiscono ulteriormente senza una presa di posizione ferma del governo.
La piaga della violenza sulle donne
Purtroppo, in India come nel resto del mondo, quando ci sono conflitti spesso l’incidenza delle violenze sessuali sulle donne aumenta drasticamente. Questa dinamica è profondamente malata e trova fondamento in una società permeata ancora da un maschilismo tossico, spesso presente anche dove non si vede. Nel caso indiano però, c’è un problema culturale che ha trasformato gli stupri di gruppo alle donne in una tragedia endemica. Nel 2021, si stima che in India sia stata violentata una donna ogni circa 16 minuti. Sempre nel 2021, sono stati denunciati alle autorità indiane oltre 2.200 stupri di gruppo.
Vidya Krishnan è una giornalista indiana specializzata in questioni di salute e sul New York Times ha scritto la sua opinione a riguardo. In un pezzo scrive: “ Ma non si può sfuggire alla cultura dello stupro in India: il terrorismo sessuale è considerato la norma. La società e le istituzioni governative spesso scusano e proteggono gli uomini dalle conseguenze della loro violenza sessuale. Le donne vengono incolpate di essere state aggredite e ci si aspetta che sacrifichino libertà e opportunità in cambio della sicurezza personale. Questa cultura contamina la vita pubblica nei film e in televisione; nelle camere da letto, dove il consenso sessuale femminile è sconosciuto; nelle chiacchiere da spogliatoio da cui i ragazzi imparano il linguaggio dello stupro. Le bestemmie preferite dagli indiani riguardano il fare sesso con le donne senza il loro consenso.”
Usa: i CEO dell’industria statunitense dei microchip alla Casa Bianca per discutere la questione cinese
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
Le più importanti aziende statunitensi di semiconduttori non sono contente di come sta andando il rapporto tra il loro Paese e la Cina. La prossima settimana i loro rispettivi dirigenti dovrebbero recarsi a Washington, alla Casa Bianca, per parlare esporre le proprie preoccupazioni direttamente ai funzionari dell’amministrazione Biden. La notizia è stata riportata da Reuters e Bloomberg, citando fonti interne anonime.
Tra le aziende in questione ci sarebbero Intel Corp., Qualcomm Inc. e Nvidia Corp., tutte realtà con importanti legami commerciali nella Repubblica Popolare. Le fonti hanno riportato che l’obiettivo della visita a Washington sarà di fare pressing. Nelle prossime settimane, infatti, il governo Biden dovrebbe estendere le restrizioni alla vendita in Cina di alcuni chip e attrezzature per la produzione dei semiconduttori.
Le istanze che porteranno i dirigenti delle aziende saranno sia politiche che economiche. Sicuramente non hanno la speranza di invertire il corso degli eventi, ma quella di ammorbidirlo sì. Un ulteriore round di restrizioni rischierebbe di rovinare non solo i loro affari, ma anche i pochi step in avanti fatti a livello diplomatico nell’ultimo mese. Probabilmente il dialogo si fonderà su questo assunto: ulteriori restrizioni faranno male alle aziende statunitensi e anche alla diplomazia del Paese.
Al centro del ciclone
L’industria dei semiconduttori, e quindi dei microchip, è uno dei principali piani di scontro tra le due superpotenze. Ciò nasce dal fatto che da questa tecnologia ormai passa un po’ tutto, dai telefoni ai computer, dai missili ai sistemi anti-missili, dall’economia alla sicurezza. Gli Stati Uniti, da cui proviene la maggior parte della tecnologia, vedono nel limitare l’accesso cinese ai semiconduttori un modo per rafforzare la propria sicurezza nazionale e allo stesso tempo indebolire l’avversario. Impedire l’accesso alla componenti dei microchip – che si parli di know-how o di materiali e componenti – risponde ad un doppio obiettivo, dove i due elementi sono profondamente collegati: vincere la corsa per la leadership tecnologica e, dunque, mantenere quella militare.
Da ottobre 2022 l’amministrazione Biden ha introdotto delle norme che impediscono ai produttori di apparecchiature per semiconduttori di vendere determinati strumenti alla Cina; inoltre, è stata vietata anche l’esportazione di alcuni chip utilizzati per lo sviluppo dell’intelligenza artificiale. Per quanto a queste misure sia stato affiancato un piano da miliardi di dollari a supporto dell’industria nazionale, il contraccolpo per le aziende statunitensi è stato duro. Molte di loro, come nel caso di Applied Materials Inc., hanno visto i loro ricavi e le loro previsioni di guadagno scendere per miliardi di dollari.
Le restrizioni – che sembrano destinate ad ampliarsi sempre di più nei prossimo mesi – stanno restringendo l’accesso ad uno dei mercati più cruciali per lo sviluppo di queste aziende. La Cina è attualmente leader nella produzione di macchine elettriche, pannelli solari e mantiene larghe quote di mercato nella vendita di smartphone e di computer. Per tutto ciò, servono i microchip e tutto ciò che compone il loro processo produttivo. Non è un caso che Qualcomm, società statunitense di ricerca e sviluppo nel campo delle telecomunicazioni, ottenga oltre il 60% delle entrate dalla Cina, fornendo componenti a produttori di smartphone come Xiaomi Corp.
Se da un lato le misure varate dal governo Usa hanno l’obiettivo di mettere in difficoltà Pechino, le aziende statunitensi sostengono che essere esclusi dal loro mercato più profittevole danneggerà anche la loro capacità di investire in ricerca e sviluppo, quindi nel progresso della loro tecnologia. Il risultato rischia di essere un danno – autoinflitto – alla leadership tecnologica degli Usa.
“Business” o “non-business”, questo è il dilemma
Ad oggi, è difficile pensare ad un piano politico su cui Cina e Stati Uniti possono incontrarsi. Sembrano in disaccordo su tutto. Vedono le relazioni internazionali in modo diametralmente opposto e desiderano due equilibri mondiali totalmente diversi e incompatibili. Entrambi considerano gli interessi del proprio avversario come una minaccia alla propria sicurezza. A livello economico, però, la situazione è molto diversa. Lo dimostra lo scetticismo mostrato dalle aziende statunitensi davanti all’ipotesi di un decoupling dal Dragone d’oriente; lo dimostra l’accoglienza a braccia aperte che Pechino riserva alle figure economiche che vi fanno visita, come è accaduto con i guru del tech Bill Gates e Musk. Cina e Stati Uniti sanno di essere entrambe un ingranaggio chiave del sistema del proprio antagonista. Infatti, nonostante le restrizioni su industrie strategiche e sensibili per la sicurezza, le due parti hanno mantenuto una forte interconnessione economica. Commerciano, finanziano le rispettive imprese e creano applicazioni, prodotti e film per i consumatori di entrambi i Paesi. Il tutto è fortemente in antitesi con l’attuale stato della loro relazione politica.
Sarà interessante vedere se i Ceo delle aziende Usa, portando le loro istanze e preoccupazioni alla Casa Bianca, riusciranno in ciò in cui finora la diplomazia ha fallito: allentare le tensioni tra Pechino e Washington.
ONU e G20: tempo di cambiamenti
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
L’11 e il 12 Luglio, a Vilnius, si incontreranno i leader dei paesi membri dell’Alleanza Atlantica; i temi sul tavolo sono tanti, dall’appoggio a Kiev all’ingresso della Svezia, con un occhio verso le sfide future. L’invasione russa dell’Ucraina ha compattato l’Occidente e dato nuova forza alla NATO.
Se un paio di anni fa era stata definita come “cerebralmente morta”, adesso l’organizzazione è viva, vegeta e in espansione. La coesione emersa nel blocco Occidentale, però, non deve far pensare che siamo davanti ad un mondo più unito. Il conflitto, infatti, ha avuto un impatto generale profondamente diviso: ha radicalizzato la diffidenza e la competizione tra Usa e Cina; dato forza alla postura neutrale di molti stati, primo fra tutti l’India; lasciato scettici e frustrati molti paesi del Sud Globale. Agli occhi di questi ultimi, la guerra in Ucraina è una delle tante che affligge il mondo, e neanche la più letale. I doppi standard messi in campo dall’Occidente nell’assistenza, nell’accoglienza e nell’attenzione riservata agli ucraini non ha fatto altro che aumentare il risentimento di alcuni paesi. Ad oggi, circa 40 stati – quasi tutti appartenenti al Sud Globale – si sono si sono ripetutamente astenuti dal condannare le azioni di Putin. Rappresentano circa il 50% della popolazione mondiale e sono lo specchio di un sistema internazionale più diviso che mai.
Il futuro del mondo è a Sud
Se si guarda alle proiezioni demografiche e ai trend economici risalta subito che chi darà forma al mondo del futuro saranno proprio gli attori del Sud Globale. I paesi economicamente sviluppati affrontano condizioni demografiche sempre più difficili e si prevede che nel 2100 otto persone su dieci vivranno in Asia e in Africa. Di conseguenza, anche gli equilibri economici cambieranno profondamente: nel 2075 cinque delle sei maggiori economie mondiali saranno paesi in via di sviluppo.
Una buona parte dei paesi che compongono il Sud Globale non sono democrazie e non condividono i valori occidentali. Sono stati vittima del colonialismo europeo, dell’interventismo americano e delle politiche economiche del Washington Consensus. Questi aspetti rendono il consenso occidentale fragile e hanno spinto molti attori del Sud Globale tra le braccia di un rivale sistemico dell’Occidente, la Cina. Pechino ha trovato degli alleati con cui condividere l’obiettivo di riformare un sistema internazionale che, ora come ora, non rappresenta più gli equilibri di potere globali, e ancora meno quelli economici. Lo ha fatto facendo leva sulla storia – che ha visto anche la Cina vittima delle ambizioni di potere occidentale – e offrendo una partnership economica senza condizioni. Questo le ha permesso di attirare nella sua sfera di influenza tutti quegli attori del Sud volenterosi di seguire un modello di sviluppo slegato dai valori portati avanti da Europa e Stati Uniti, o che non si sentivano esclusi e “bullizzati” dalle istituzioni internazionali a guida occidentale.
Da tutto ciò emerge un’immagine molto chiara: è il momento di riformare il sistema internazionale in chiave più inclusiva. Per l’Occidente non si tratta solo di un obbligo morale, ma anche di una necessaria mossa strategica. Il primo passo per fare ciò è “attualizzare” le istituzioni internazionali in modo che siano più rappresentative del mondo presente e che verrà.
La volontà (e la paura) occidentale di riformare le Nazioni Unite
Dalla creazione delle Nazioni Unite dopo la Seconda Guerra Mondiale, i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza sono rimasti invariati. Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Cina e Russia (ex Unione Sovietica) hanno il potere di veto, ovvero il monopolio sulle decisioni dell’organo. Infatti, il potere del Consiglio di sicurezza risiede nella sua capacità di approvare risoluzioni vincolanti, a differenza di quelle approvate dall’Assemblea generale. Oltre ai cinque seggi permanenti, il Consiglio comprende 10 membri non permanenti eletti per due anni, senza potere di veto. Col passare del tempo, questa architettura è diventata sempre più anacronistica, danneggiando l’autorevolezza dell’istituzione.
Lo scorso settembre, davanti ai leader uniti, Biden disse: “È giunto il momento che questa istituzione diventi più inclusiva”. A questa affermazione si è accompagnata la richiesta ai membri permanenti del Consiglio di Sicurezza di limitare l’uso del loro potere di veto a “rare situazioni straordinarie”. Da quel giorno, l’amministrazione Biden ha iniziato a lavorare ad un piano per la revisione dell’organo, sperando che una sua riforma possa riabilitare la fiducia e la sua efficacia. L’obiettivo sarebbe raggiungere un accordo prima dell’incontro annuale dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York in autunno.
Linda Thomas-Greenfield, inviata del Presidente Biden alle Nazioni Unite, si sta confrontando a questo scopo con i diplomatici dei 193 Stati membri dell’organizzazione per sollecitare un feedback su una potenziale espansione del Consiglio. Nella proposta statunitense – non ufficiale – si parla di aggiungere circa 6 nuovi seggi permanenti al Consiglio; per loro, però, non sarà previsto nessun potere di veto. I candidati principali – sostenuti anche da Francia e UK – sono la Germania, il Giappone, l’India, il Brasile e almeno una nazione africana.
Sebbene l’idea che sia arrivato il momento di una riforma del Consiglio di Sicurezza sia condivisa, lo stesso non si può dire per le modalità e il risultato della riforma. Dalla sua nascita, il Consiglio è stato modificato solo una volta, quando negli anni ’60 sono stati aggiunti quattro seggi non permanenti. Tutti i tentativi più recenti di modificare l’organismo sono naufragati. Qualsiasi modifica richiede il consenso di almeno 128 dei 193 Stati membri e, poiché comporterebbe modifiche alla Carta delle Nazioni Unite, la ratifica di tutti i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza. Ciò significherebbe, ad esempio, inviare le modifiche al Senato degli Stati Uniti per l’approvazione. Probabilmente una battaglia persa in partenza.
Tra chi si opporrebbe fermamente all’allargamento dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza ci sarebbe anche la Cina. Infatti, per quanto Pechino supporti una riforma delle istituzioni internazionali per riequilibrare il potere decisionale, non avrebbe motivo di perdere il suo potere nel Consiglio di Sicurezza a discapito di India e Giappone, due dei candidati principali nonché rivali di Pechino.
Includere l’Africa nel G20
Le grandi fratture del sistema internazionale rendono il G20 – che riunisce 19 tra le maggiori economie del mondo insieme all’Unione Europea – più importante che mai. Il forum offre uno spazio per discutere i problemi di rilevanza globale condivisi, dalla sicurezza alimentare alla stabilità finanziaria, fino al cambiamento climatico.
Tuttavia, per quanto ambizioso, il G20 non è ancora un forum veramente globale: dalla sua nascita nel 1999, non è riuscito ad includere a dovere il continente africano, incredibilmente sottorappresentato. L’unico membro africano per ora è il Sudafrica. Di conseguenza, circa il 96% della popolazione africana – produttrice dell’85% del Pil del continente – non ha voce nel forum. Questa mancanza di rappresentanza è paradossale, essendo l’Africa uno degli attori chiave in molte delle principali sfide globali – come la transizione energetica, quella digitale e la lotta alle diseguaglianze. Vi sarebbe però un modo molto efficiente per colmare questa lacuna di rappresentanza: integrare l’Unione Africana (UA) nel G20. L’UA comprende quasi tutti i paesi africani e alzerebbe la rappresentatività del forum dal 65% della popolazione all’80%.
Il prossimo vertice del G-20 si terrà a settembre a Nuova Delhi e potrebbe essere un’occasione d’oro per sollevare la questione. L’India, attuale presidente del G-20, ha posto grande enfasi sull’inclusione del Sud Globale. Affinché l’UA possa accedere serve il sostegno da parte dei principali paesi del G-20. Non c’è un requisito formale di ammissibilità e nemmeno un processo per l’aggiunta di nuovi membri. Attualmente l’inclusione dell’UA gode di grande supporto, almeno sulla carta. Al vertice G20 di Bali nel 2022, Cina, Francia, Indonesia e Sudafrica hanno espresso pubblicamente il loro sostegno all’adesione all’UA; gli Stati Uniti si sono detti favorevoli durante il vertice Usa-Africa di dicembre 2022; ugualmente si son detti favorevoli anche Russia e Giappone; recentemente, si è espresso a favore anche il ministro degli Esteri tedesco, Annalena Baerbock.
Alla luce di tutte queste dichiarazioni il ritrovo del G20 a settembre potrebbe essere il momento opportuno per concretizzare. Un ulteriore impulso è dato dal fatto che la presidenza del G20 nei prossimi tre anni sarà detenuta da paesi del Sud globale: India quest’anno, Brasile nel 2024 e Sudafrica nel 2025. Se l’adesione all’UA venisse approvata durante il mandato dell’India, ciò costituirebbe un catalizzatore immediato per ulteriori iniziative del G20 rivolte ai paesi e alle regioni a basso-medio reddito nei due anni successivi.
Cina: entra in vigore una nuova legge che disciplina i rapporti esteri
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
Da Sabato 1 Luglio, giorno in cui si celebra il centoduesimo anniversario della fondazione del Partito Comunista Cinese (PCC), in Cina entra in vigore una nuova legge sulle relazioni estere. La norma ha esplicitamente l’obiettivo di proteggere gli interessi di Pechino, in materia di sicurezza nazionale e sviluppo, da un clima geopolitico sempre più teso e inospitale. Una delle principali minacce a cui si cerca di rispondere sono i crescenti controlli sulle esportazioni di tecnologie avanzate fatti e promossi dagli Stati Uniti.
Il Global Times, un tabloid megafono della propaganda cinese, definisce questa nuova misura una “pietra miliare”, fondamentale per colmare alcune lacune della legislazione cinese in materia di politica estera.
La legge va vista come un atto di continuità. Lo è rispetto ad altre norme varate negli ultimi anni per far fronte alle sanzioni statunitensi, come la legge Anti-Sanzioni del 2021, e rispetto all’approccio adottato recentemente dalle autorità cinesi verso le aziende straniere – dai sempre più frequenti raid alle aziende di consulenza straniere nel paese, fino al divieto di utilizzare i prodotti del chipmaker statunitense Micron per le infrastrutture critiche.
Leggere fra le righe
Se si leggono le singole disposizioni presenti nel testo – qui si può leggere la versione tradotta in inglese – queste sono nella maggior parte dei casi piuttosto vaghe. Se, però, si considerano nel loro insieme, allora emerge un quadro molto ampio e che conferma la svolta assertiva, se non combattiva, abbracciata da Pechino negli ultimi anni. Soprattutto, la legge segue la direzione generale impartita sotto la leadership di Xi Jinping, e resa ancora più esplicita dal ventesimo Congresso del Partito Comunista di ottobre: accentra tutti i poteri su Xi e il Partito. Nello specifico quindi, anche la gestione dei rapporti esteri viene rimandata alla guida del Partito Comunista e non al governo. Wang Yi, capo della diplomazia cinese, ha scritto in un suo recente editoriale che si tratta di “una misura importante per rafforzare la leadership centralizzata e unificata del Comitato Centrale del Partito Comunista sugli affari esteri”.
Nella legge viene dato molto spazio anche alla figura di Xi Jinping e alla sua ideologia. Nella prima parte del documento, dedicata alle disposizioni generali, il pensiero di Xi – che dal 2018 appare nel preambolo della Costituzione cinese – è menzionato insieme agli altri punti cardine dell’ideologia cinese come guida anche delle relazioni estere, affermando che “la Repubblica Popolare Cinese si attiene alle linee guida del marxismo-leninismo, nel pensiero di Mao Zedong, della teoria di Deng Xiaoping, della teoria delle tre rappresentanze, delle prospettive scientifiche di sviluppo e del pensiero di Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era”.
Invece, nella parte del documento dove si parla degli obiettivi viene fatta menzione delle due iniziative targate Xi: la Global Security Initiative e la Global Civilization Initiative. In entrambi i casi si tratta di documenti che riportano il pensiero Xi, descrivendo in maniera ampia e vaga l’approccio cinese a determinate questioni, come la sicurezza, la coesistenza tra civiltà diverse e la stabilità.
L’articolo 33, invece, affronta direttamente la questione delle sanzioni o delle interferenze estere, cercando di dare delle basi giuridiche per rispondere ora e scoraggiarle in futuro. Secondo il testo, la Cina è autorizzata ad adottare “misure per contrastare o adottare misure restrittive contro atti che mettono in pericolo la sua sovranità, la sua sicurezza nazionale e i suoi interessi di sviluppo”. Anche in questo caso, si resta sul generico in modo da lasciare ancora più spazio di azione al partito. Questi “atti” è probabile si riferiscano alle restrizioni delle esportazioni di semiconduttori imposte dagli Stati Uniti, dal Giappone o recentemente dall’Olanda. Inoltre, la nuova legge richiede a tutte le organizzazioni e agli individui di sostenere gli interessi cinesi negli scambi internazionali. Viene specificato esplicitamente che gli attori stranieri, individui o aziende,”non devono mettere in pericolo la sicurezza nazionale della Cina, danneggiare l’interesse pubblico della società o minare l’ordine pubblico della società.”
Un ambiente sempre più ostile per le aziende straniere
Da quando la Cina ha riaperto le porte al mondo, dopo due anni di dure restrizioni per il Covid, sia Xi Jinping che il premier Li Qiang hanno sempre cercato di rassicurare gli investitori stranieri e le aziende sul proseguire o iniziare un business in Cina. Anche nella legge in questione, si parla di una “apertura ad alto livello” e dell’intenzione di proteggere gli investimenti stranieri in entrata, nonché incoraggiare la cooperazione economica esterna.
Nella pratica però, sono sempre di più i timori che la Cina non sia più un ambiente accogliente per le aziende straniere. I concetti vaghi riportati in questa legge, uniti alla recente legge anti-spionaggio, contrastano fortemente con le parole della leadership cinese e anche con la volontà di attirare investimenti stranieri per far fronte ad un’economia che fatica a riprendersi. Le imprese straniere si ritrovano in un contesto legale e geopolitico sempre più incerto; il fatto che le leggi continuino ad avere formulazioni molto vaghe, accompagnate poi da azioni concrete contro la libertà, fa sì che le aziende straniere siano sempre più diffidenti. “La legge fornisce una maggiore base legale per le incursioni e le indagini sulle imprese straniere che sono già in corso” ha detto alla BBC Chong Ja-Ian, non-resident fellow presso il Carnegie China. Questi cambiamenti concreti di attitudine potrebbero spingere da un lato le aziende sul territorio cinese a conformarsi maggiormente agli interessi nazionali di Pechino ma, più probabilmente, a ripensare i propri investimenti sul territorio.
Usa/India: (quasi) tutti pazzi per Modi
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
Dalla visita di stato del Presidente indiano Narendra Modi a Washington emerge una dichiarazione congiunta in cui si parla di India e Usa come di due “dei partner più vicini al mondo”. Poi ancora: “La partnership globale e strategica tra Stati Uniti e India è ancorata a un nuovo livello di fiducia e comprensione reciproca ed è arricchita dai caldi legami di famiglia e amicizia che uniscono indissolubilmente i nostri Paesi.”
Il tutto prende forma con un obiettivo ben preciso, per quanto tacito: per arginare l’ascesa della Cina e far fronte alla sua assertività nelle dinamiche territoriali e politiche dell’ Indo-Pacifico, l’India è un attore cruciale e un partner imprescindibile per gli Stati Uniti.
Dalle parole ai fatti
Nella pratica, tutte queste dichiarazioni si sono tradotte in una serie di accordi che rafforzeranno profondamente i legami militari ed economici tra i due Paesi. Non a caso, alla cena di stato alla Casa Bianca c’erano diversi special guest della Silicon Valley, tra cui Tim Cook di Apple, i CEO di Google e OpenAI.
Nella dichiarazione congiunta viene citato tutto: si parla di semiconduttori, minerali critici, tecnologia, cooperazione spaziale e nel settore della difesa. Alcuni accordi hanno come focus principale la diversificazione delle catene di approvvigionamento, sempre nell’ottica di un “de-risking” – o forse “de-coupling” – da Pechino. Altri invece puntano ai mercati delle tecnologie avanzate, che daranno forma all’economia, ma anche alle apparecchiature militari, del futuro.
Per quanto concerne la difesa, Biden e Modi hanno annunciato dei progressi su un ordine di droni MQ-9B SeaGuardian prodotti da General Atomics e un accordo che consentirà alle navi della Marina americana di effettuare importanti riparazioni presso i cantieri navali indiani. Inoltre, General Electric Co. dovrebbe produrre congiuntamente con l’azienda statale indiana Hindustan Aeronautics Ltd. i motori F414 per gli aerei da combattimento leggero Tejas.
Nell’ambito dei semiconduttori, invece, i due leader hanno presentato una serie di accordi pensati per sfruttare le sovvenzioni messe in campo dal governo indiano per attirare la produzione di tecnologia avanzata in India. Micron Technology Inc. investirà più di 800 milioni di dollari per la costruzione di un impianto di assemblaggio e collaudo di semiconduttori da 2,75 miliardi di dollari in India; Applied Materials Inc. annuncerà un nuovo centro per la commercializzazione e l’innovazione dei semiconduttori; Lam Research annuncerà un programma di formazione in India per un massimo di 60.000 ingegneri del settore. Gli investimenti saranno anche nella direzione inversa: diverse aziende indiane hanno in programma progetti negli Stati Uniti, tra cui un impianto di produzione di energia solare in Colorado, un impianto siderurgico in Ohio e un impianto per la produzione di fibre ottiche nella Carolina del Sud. Il tutto per un valore di oltre 2 miliardi di dollari.
In ambito spaziale, tra gli altri annunci, l’India ha espresso l’intenzione di firmare gli Accordi di Artemide, un quadro firmato da diverse nazioni – ma non da Russia e Cina – che regola le missioni congiunte e l’esplorazione civile dello spazio. Sempre in quest’ottica, martedì 20 giugno, Modi si è incontrato anche con Musk, il capo di SpaceX. Vi è stato inoltre l’annuncio da parte della NASA e dell’Organizzazione indiana per la ricerca spaziale di aver concordato una missione congiunta per visitare la Stazione spaziale internazionale il prossimo anno.
Niente unisce più di un nemico comune
Nel complesso, le due democrazie più grandi del mondo si sono trovate in ottimo accordo. Però, c’è qualcosa che stona. Nessun paese, a parte la Cina, ha sostenuto l’economia di guerra della Russia quanto l’India, che ha trovato nel petrolio a prezzi stracciati di Mosca un input formidabile alla sua crescita economica. E poche grandi democrazie sono scivolate negli ultimi anni così tanto verso un sistema più autoritario. Eppure, se si guarda l’accoglienza entusiasta che Biden ha riservato a Modi, non c’è traccia di queste controversie indiane. Tutto ciò, non è che lo specchio del nuovo valore economico, ma soprattutto geopolitico, acquisito dall’India negli ultimi anni.
Durante questo secolo, Nuova Delhi ha abbracciato un percorso di sviluppo brillante. Si è affermata come una democrazia solida – anche se zoppicante negli ultimi anni – nonostante tutte le sfide che un Paese così grande e con così tanta diversità può porre ad un sistema di governo così complicato. La sua economia è la quinta più grande del mondo. Ha una diaspora fiorente di 18 milioni di persone sparsa in tutto il mondo.
L’India è diventato l’altro grande gigante dell’Asia, per popolazione, economia e potere militare. Il primo gigante asiatico, più affermato, è la Cina e con l’India non ha un buon rapporto. Tra dispute territoriali e marittime, competizione regionale e diverse alleanze, i due Paesi hanno mantenuto nel tempo un rapporto complicato. Negli ultimi dieci anni poi, si sono create ulteriori condizioni per intensificare la competizione: l’India è diventata più potente e influente, la Cina più potente e assertiva.
La crescente competizione tra Cina-Stati Uniti e l’invasione russa dell’Ucraina sono stati però il vero propulsore per l’influenza geopolitica indiana. Infatti, se già di per sé il Paese stava diventando sempre più importante per gli equilibri globali, adesso è diventato decisivo. Per arginare l’ascesa cinese è l’alleato più strategico che Washington può trovare. E quindi, un alleato da corteggiare. Nuova Delhi sta sfruttando al meglio questa sua nuova posizione di ago della bilancia. Da una parte fa affari con Mosca, dall’altra fa affari con gli Stati Uniti. Mantiene una politica estera indipendente e neutrale; dialoga con tutti, ma non si aggancia davvero a nessuno.
Non va però dimenticato che l’India è anche un Paese di contraddizioni. Dove la maggior parte della popolazione ha un conto in banca, ma dove una grande parte non ha accesso ai servizi igienici. È anche un Paese povero, populista, dove le donne sono escluse dalla vita lavorativa. Soprattutto, il suo leader, Modi, negli ultimi anni ha iniziato a flirtare con una politica più autoritaria: diverse figure politiche o impegnate politicamente, non violente, sono state imprigionate; la minoranza musulmana, circa il 14% della popolazione, affronta un clima sempre più ostile. Inoltre, quest’anno il suo principale oppositore politico è stato escluso dal parlamento a causa di vaghe accuse di diffamazione.
A prescindere poi dalla condizione interna del paese, non bisogna confondere il recente avvicinamento agli Stati Uniti e all’Occidente con un partnership per ideali. Si tratta di avvicinamento pragmatico, dettato da interessi momentanei. Da Jawaharlal Nehru a Modi, l’India ha sempre ritenuto l’ordine del dopoguerra ingiusto e figlio della dominazione occidentale. Questi impulsi contraddittori lo rendono un partner strategico, ma anche imprevedibile per gli Stati Uniti.
A Pechino arriva Blinken: un dialogo necessario
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
Il viaggio di questo weekend del Segretario di Stato Antony Blinken a Pechino, lo rende il più alto funzionario statunitense a visitare il Paese negli ultimi cinque anni. La visita sarebbe dovuta essere a febbraio 2023, ma il “Baloon-gate” aveva fatto saltare tutto. Anche questa volta il viaggio è stato messo a dura prova. Per un attimo, sembrava di essere tornati nel 1962, alla crisi dei missili di Cuba, quando il Wall Street Journal ha scritto, settimana scorsa, che la Cina aveva stipulato (in segreto) un accordo con Cuba per stabilire una base di intelligence a pochi chilometri dai confini statunitensi. Questa volta, però, il governo USA ha disinnescato, etichettando il rapporto come “inaccurato” ed evitando che ciò portasse ad una nuova crisi diplomatica.
Abbassiamo le aspettative per non restare delusi
Se l’attesa per questo viaggio è stata alta, le aspettative sono molto basse. A mettere le mani avanti sono gli stessi funzionari americani, poco fiduciosi che l’incontro a Pechino con le controparti cinesi, tra cui forse il anche il presidente Xi Jinping, possa davvero portare a qualche risultato concreto. “Non si tratta di una visita per la quale prevedo una lunga lista di risultati”, ha dichiarato il Vicesegretario di Stato Dan Kritenbrink; “Ridurremo almeno il rischio di errori di calcolo, in modo da non sfociare in un potenziale conflitto”.
Il clima rispetto a febbraio non si è alleggerito. L’ultimo contatto prima di questa visita è stata una chiamata tra Blinken e Qin Gang, il Ministro degli Esteri cinese, che ha ribadito le solite accuse: gli Stati Uniti alimentano la tensione, non lasciano spazio alle aspirazioni altrui, non hanno rispetto per le preoccupazioni cinesi e, anzi, continuano a interferire.
Alla luce del contesto pericolante e teso, l’importanza di questo viaggio non sta tanto in quello che emergerà, quanto nella ripresa di un dialogo ad alti livelli tra le due superpotenze. Come aveva sottolineato Kissinger durante l’intervista al The Economist per i suoi cent’anni, parlarsi è l’unico modo per evitare una guerra, perché i problemi tra le due parti non spariranno magicamente. La speranza è che la visita possa essere un primo step per ulteriori momenti di dialogo.
Taiwan: l’elefante nella stanza
Sicuramente, una delle questioni principali discusse durante questo “weekend cinese” di Blinken è Taiwan. La Cina ribadisce che si riprenderà l’isola di Formosa, e per farlo non esclude l’utilizzo della forza. Salvo cambiamenti radicali interni alla leadership cinese – cosa altamente improbabile – la questione è destinata a rimanere il punto più caldo e delicato del rapporto tra le due superpotenze. Per Pechino, si tratta di una questione esistenziale su cui nessuna potenza estera deve interferire, una linea rossa da non varcare.
Taiwan racchiude tutto: economia, politica e questioni identitarie. C’è chi dice che entro il 2027, per i cento anni dell’Esercito di Liberazione Popolare, la Cina invaderà l’isola di Formosa. Il limite massimo dovrebbero essere i cento anni del Partito Comunista Cinese alla guida della Cina continentale, dunque il 2049. Per quella data, la leadership del PCC ha sempre detto che la Cina sarà riunita.
Secondo la maggior parte degli esperti, invadere Taiwan non sarebbe una mossa razionale per Pechino. Se è vero che la RPC si è dimostrata fino ad ora un attore estremamente pragmatico, è vero anche che l’irrazionalità è sempre dietro l’angolo – vedasi la scelta di Putin di invadere l’Ucraina. Da questo punto di vista, la probabile leadership a vita di Xi Jinping non aiuta; mai come oggi, dalla morte di Mao Zedong, la Cina era stata nella mani di un solo uomo e questo aumenta il rischio di scelte ideologiche, non ponderate dal confronto con gli altri e, dunque, pericolose.
Dal punto di vista statunitense, Taiwan ha un valore sia simbolico che economico. Se venisse invasa e gli Stati Uniti non reagissero, potrebbe dar forza alla politica estera assertiva portata avanti dalla Cina nell’ultimo decennio. Potrebbe essere il primo step di un espansionismo negli altri territori contesi della regione, soprattutto nel Mar Cinese Meridionale. Ciò minerebbe gli interessi di vari alleati, come il Giappone, e quindi anche quelli degli stessi Stati Uniti. Per quanto riguarda la centralità economica di Taiwan, l’elemento chiave sono i microchip, ingranaggio imprescindibile su cui si gioca la competizione per la leadership tecnologica tra USA-Cina. Gran parte delle apparecchiature elettroniche di uso quotidiano, dai telefoni ai computer portatili, dagli orologi alle console di gioco, contengono chip prodotti a Taiwan. Lo stesso vale per apparecchiature più sensibili legate alla sicurezza e al campo militare. Se Taiwan venisse attaccata, la catena globale del valore legata ai microchip subirebbe un colpo devastante.
In teoria, Washington non riconosce l’indipendenza di Taipei, non ha relazioni diplomatiche ufficiali con l’isola, professa il principio della “One China Policy” e aderisce ad una posizione di “ambiguità strategica”. Nella pratica, gli Stati Uniti intrattengono rapporti con Taipei e ne supportano l’indipendenza. Soprattutto nell’ultimo periodo, è diventato sempre più esplicito che in caso di invasione gli USA interverrebbero per difendere l’indipendenza di Taiwan.
Xi e Bill Gates: vecchi amici
Se Blinken non è stato accolto a braccia aperte in Cina, un’altro visitatore lo è stato: Bill Gates. Il cofondatore e filantropo di Microsoft ha incontrato venerdì Xi Jinping. Anche in questo caso, si tratta di uno dei primi contatti negli ultimi anni tra una figura imprenditoriale statunitense di alto profilo e il presidente cinese. Secondo i media cinesi, queste sarebbero state le parole di Xi: “Sono molto felice di vederla. Non ci vediamo da più di tre anni… e lei è un nostro vecchio amico”, Xi ha sottolineato che Gates è stato il primo “amico americano” che ha incontrato quest’anno e ha sottolineato l’importanza degli scambi di persona per le relazioni tra Stati Uniti e Cina. Poco tempo fa anche Elon Musk era volato in Cina, dove aveva incontrato Qin Gang. Come sottolinea Lorenzo Lamperti, giornalista di base a Taiwan, con questo incontro Xi ha voluto mandare un messaggio: la Cina è aperta agli investimenti americani ed è pronta a fare business, il problema è la politica. La visita di Gates, però, non ha un gran valore in termini politici, poiché arriva in un momento storico dove si è capito che l’interconnessione economica non è la panacea per evitare tutti i conflitti. In questo periodo, in cui il sistema internazionale è scosso da transizioni di potere e conflitti, servono dialoghi più alti, che facciano i conti con il fatto che molti stati, soprattutto Cina e Stati Uniti, hanno riabbracciato un approccio realista alle relazioni internazionali. Vedremo se il viaggio di Blinken porterà a casa qualche risultato.
Tunisia: procedono gli sforzi italiani per facilitare i negoziati con il Fmi
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
C’è un grande via vai tra Tunisi e Roma. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni si è recata oggi a Tunisi, per la seconda volta in meno di una settimana. È stata accompagnata dal suo omologo olandese e dalla presidente della Commissione europea. L’obiettivo della visita rimane la ricerca di un compromesso per evitare il fallimento dell’economia tunisina. Da una parte, si punta a sbloccare gli aiuti europei – 500 milioni di euro – e, almeno alcune rate, dei 1.9 miliardi di dollari messi sul tavolo dal Fmi; dall’altra, a stimolare la flessibilità del presidente tunisino Saied, fino ad ora intransigente sull’accettare i “diktat” del Fondo monetario internazionale per ottenere i fondi.
Un partner necessario
Gli annunci della Meloni, dopo i colloqui con Saied dell’ultima visita di martedì 6 Giugno, dimostrano l’importanza che l’Italia attribuisce al travagliato Paese nordafricano. Ad oggi, giugno 2023, sono oltre 51000 i migranti sbarcati sulle coste italiane. Un numero che contrasta fortemente con la narrativa portata avanti dalla leader di Fratelli d’Italia in campagna elettorale e che, dunque, potrebbe mettere in crisi il suo consenso. Se la percentuale di migranti di origine tunisina è solo del 7%, si stima che più della metà del totale degli arrivi abbia avuto come luogo di partenza la Tunisia.
Il Paese ha una lunga storia come hub di transito dei flussi migratori; negli ultimi anni, però, un mix tra fattori interni ed esterni, tra cui la pandemia e l’invasione russa dell’Ucraina, hanno intensificato il flusso di persone in uscita dalla Tunisia. Se prima le partenze riguardavano principalmente persone provenienti da paesi subsahariani, oggi sono sempre di più i tunisini che scelgono di lasciare la propria patria. Dallo scioglimento del Parlamento nel 2020, un clima politico sempre più dispotico e violento, la disoccupazione giovanile, l’aumento dell’inflazione e dei prezzi dei generi alimentari stanno spingendo un numero crescente di tunisini a migrare in Europa.
“C’è una grande differenza se si confronta la vita di oggi con quella di due o tre anni fa”, dice Bechir, un padre di due figli intervistato da Euronews che sta risparmiando nella speranza di poter lasciare il Paese.
Inoltre, la xenofobia portata avanti da Saied ha spinto molti migranti, che si erano instaurati nel territorio tunisino, ad adoperarsi per accelerare la propria partenza alla volta dell’Europa. A febbraio, il presidente della Tunisia ha detto alle forze di sicurezza di espellere tutti gli immigrati clandestini e ha denunciato quella che, a suo dire, è una cospirazione per cambiare la demografia della Paese, rendendola più africana e meno araba.
I dati dimostrano la centralità di Tunisi per controllare i flussi migratori irregolari nel mediterraneo. Dunque, evitare il tracollo economico del Paese da cui partirono le primavere arabe si trasforma in una priorità per il governo Meloni e per tutta l’Europa. Senza i fondi, la Tunisia rischia il default. Se ciò accadesse, il risultato sarebbe un drastico aumento delle partenze per attraversare il Mediterraneo verso l’Europa, in cerca di una vita migliore . E soprattutto verso l’Italia, la meta più vicina. Una Tunisia in default, inoltre, sarebbe un fattore destabilizzante per tutto il Nordafrica, data la centralità dell’attore per gli equilibri del Maghreb.
Ma il presidente Kais Saied è un interlocutore tutt’altro che conciliatorio.
Un interlocutore difficile, in una situazione difficile.
È da aprile che Saied si scaglia contro il Fondo monetario internazionale, respingendo ed etichettando come “diktat inaccettabili” le condizioni poste dal Fondo monetario internazionale per concedere a Tunisi il nuovo prestito da 1,9 miliardi di dollari. Seppur vi sia un’opinione piuttosto condivisa tra gli esperti sulla indispensabilità dell’assistenza del Fmi, il governo tunisino deve ancora finalizzare le riforme necessarie stabilite ad Ottobre scorso, necessarie per un accordo finale. Il presidente Saied è rimasto fermo nelle sue posizioni affermando che il Paese, piuttosto che accettare condizioni reputate dannose, può “contare su se stesso”. Anche durante l’incontro con Meloni il 6 giugno ha ribadito le sue posizioni: “Chi fornisce ricette pronte per l’uso è come un medico che prescrive la medicina prima di diagnosticare la malattia”.
La Tunisia, però, è in una situazione economica sempre più complicata e sempre più mal vista dai mercati internazionali. Da poco è stata ulteriormente declassata a “junk” da Fitch Ratings, proprio per l’incapacità di raggiungere un accordo con il Fmi e di implementare le riforme richieste. L’agenzia di rating ha rilasciato un comunicato in cui si legge che la mossa “riflette l’incertezza sulla capacità della Tunisia di mobilitare fondi sufficienti per soddisfare il suo ampio fabbisogno finanziario”.
L’Italia e l’Unione Europea, sono chiamate ad un importante sforzo diplomatico per evitare un tracollo economico che avrebbe conseguenze devastanti sulle rotte mediterranee, già responsabili ogni settimana di troppi morti in mare. Nel frattempo, Saied chiede un dialogo internazionale sulla questione migratoria, incolpando per la situazione i migranti stranieri che si spostano irregolarmente e le “bande criminali dedite al traffico di organi e di esseri umani nell’Africa subsahariana e nei Paesi del Mediterraneo settentrionale”.
Africa Social: tra libertà e manipolazione
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
L’Africa sta vivendo una trasformazione digitale che plasmerà le sue economie e società nei decenni a venire. Con un’età media di 18 anni e il 60% della popolazione under 25, è un continente di nativi digitali. Rispetto al 2015, le persone con accesso alla rete sono più che raddoppiate, arrivando nel 2022 a circa 570 milioni di utenti. Entro il 2030, si prevede che saranno online tre quarti dell’intera popolazione. La diffusione dell’accesso alla rete e degli smartphones ha fatto crescere esponenzialmente anche l’utilizzo dei social media, che contano attualmente più di 385 milioni di africani iscritti, un dato in costante crescita. Su queste piattaforme le nuove generazioni passano il loro tempo libero, si informano e interagiscono.
Le più utilizzate nel continente sono sotto il controllo della big tech americana Meta: in prima posizione c’è Facebook, che nel 2022 contava circa 271 milioni di utenti e, secondo le previsioni, nel 2025 supererà i 377 milioni.
Negli ultimi anni, però, in Africa come nel resto del mondo, sta spopolando Tik Tok, l’app dell’azienda cinese ByteDance; si basa sulla condivisione di brevi video, principalmente coreografie a suon di musica, qualcosa che è estremamente in linea con la ricchissima cultura artistica, musicale e ballerina dell’Africa. L’espressività e la creatività sono caratteristiche che uniscono trasversalmente le variegate culture e popolazioni africane, nonché ciò che diventa virale su Tik Tok.
Informazione e manipolazione
Come nel resto del mondo, in Africa il ruolo dei social va ben oltre l’uso ricreativo, rappresentando uno dei canali fondamentali da cui passa l’informazione e la comunicazione pubblica e politica. Facebook e Tik Tok rispondono ad esigenze fondamentali del popolo africano, ma lo espongono anche a rischi di manipolazione. Da un lato, aiutano le persone ad aggirare i limiti della stampa e dei media che, in quasi tutta l’Africa, sono sotto il controllo del potere statale; permettono a chi vive nel continente di raccontarlo direttamente, senza intermediari, controbilanciando l’immagine pessimista e fuorviante riportata al mondo dai media internazionali, soprattutto quelli occidentali – troppo concentrati sulle tragedie del continente e poco sulle sue belle storie. Allo stesso modo, però, i due social sono anche un’arma che può essere usata contro la libertà delle persone. Sono sempre di più i casi in cui attori interni – governi, gruppi armati ribelli o terroristici – o esterni – come Paesi o aziende – utilizzano le piattaforme per spargere disinformazione. Ghana 24 è uno dei tanti esempi: la pagina Facebook, che ora è stata eliminata, si presentava come un organo di informazione libero del Ghana, ma in realtà amplificava storie e notizie filogovernative ed era sotto la gestione di Israele e Regno Unito.
Nel caso di Tik Tok si aggiunge un ulteriore aspetto connesso ai suoi potenziali legami con il Partito Comunista Cinese (PCC). In Cina, il confine tra aziende private – come ByteDance – e Partito Comunista è labile, e ciò trasforma il social in un potenziale strumento di soft power molto potente. Il PCC potrebbe usarlo per promuovere la sua ideologia e propaganda, oltre a spingere per la censura di contenuti scomodi, come quelli inerenti all’indipendenza di Taiwan, al Tibet o alla questione uigura.
Colonialismo digitale
Quando si parla di social media, però, la questione principale rimane quella dei dati. Clive Humby, data scientist e matematico inglese, coniò nel 2006 uno slogan, rivelatosi col tempo tremendamente accurato: “i dati sono il nuovo petrolio”. E se i dati sono il petrolio, i social network sono degli enormi, inestimabili, giacimenti. Accedere ai dati degli africani vuol dire gestire la risorsa più importante dell’ecosistema digitale del continente. Non stupisce allora che app come Facebook e Tik Tok rivestano un ruolo centrale nella competizione tra Stati Uniti e Cina per affermare la loro influenza sull’Africa. A riguardo, c’è chi parla di colonialismo digitale: il riferimento è all’estrazione e al controllo decentralizzato dei dati – con o senza l’esplicito consenso degli utenti – attraverso reti di comunicazione sviluppate e possedute da attori esterni.
I rappresentanti degli interessi statunitensi e cinesi sono le big tech, come Meta e ByteDance. Nel caso americano, il governo non ha un controllo diretto sui dati in mano alle aziende, mentre nel caso cinese questo è molto più in dubbio, a causa dello stretto controllo – soprattutto in un settore strategico come il tech – esercitato dal PCC sulle aziende del Paese. Questa eventualità, rende ancora più cruciale agli occhi di Washington affermare il dominio delle aziende americane in questo settore.
Per due potenze che competono per chi detterà gli standard dell’ecosistema digitale, i social media sono dei giacimenti di cui si deve avere il controllo. Ai governi africani, per ora, sembra importare poco di queste dinamiche tra superpotenze, purché esse investano nello sviluppo digitale dell’Africa.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di aprile/giugno di eastwest
Puoi acquistare la rivista sul sito o abbonarti
NATO-Turchia: Stoltenberg vola da Erdoğan per sciogliere i nodi sull’ingresso svedese nella NATO
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
Il Segretario Generale della NATO Jens Stoltenberg è in Turchia questo weekend – 3 e 4 giugno 2023 – per discutere su come accelerare il via libera all’ingresso della Svezia nell’alleanza atlantica. Fino ad oggi, Ankara ha ritardato l’espansione NATO, accusando la Svezia di ospitare terroristi. Adesso, però, Stoccolma ha annunciato una nuova legge antiterrorismo più severa, entrata in vigore questo giovedì, che ci si aspetta che possa soddisfare Erdoğan.
Proprio così, è ancora lui l’uomo da compiacere. Erdoğan, fresco di rielezione, sarà ancora per cinque anni alla guida della Turchia. In un universo parallelo, Stoltenberg avrebbe potuto incontrare Kemal Kiliçdaroğlu, il candidato che si pensava potesse davvero mettere fine al monopolio di Erdoğan. Invece, così non è stato: il “sultano che non perde mai”, ha vinto anche questa volta, in delle elezioni giudicate come “discutibili” dagli osservatori internazionali.
Pressing occidentale per accelerare l’ingresso svedese
La prima tappa del Segretario Generale NATO è stata la cerimonia di inaugurazione per la rielezione di Erdoğan. Poi, domenica 4 giugno, spazio ad incontri bilaterali con il Presidente e con alti funzionari turchi.
Il viaggio di Stoltenberg è totalmente focalizzato sulla questione svedese. Non è un caso, infatti, che oltre a Stoltenberg anche l’ex premier svedese Carl Bildt partecipi al viaggio. Bildt è stato uno dei principali sostenitori della candidatura turca all’Unione Europea durante i suoi primi anni come ministro degli Esteri svedese; dunque, gode di un’ottima reputazione e di grande rispetto in Turchia.
I Paesi occidentali, stanno infatti aumentando le pressioni sulla Turchia affinché quest’ultima sblocchi l’ammissione della Svezia nella NATO. Stoccolma, dal canto suo, ha fatto un ulteriore sforzo per superare l’opposizione di Ankara, rassicurando le sue paranoie sul PKK: giovedì è entrata in vigore una nuova legge contro il terrorismo, che renderà illegale organizzare incontri, fornire aiuto logistico e finanziario, o persino cibo, ai gruppi fuorilegge. La generalità della legge ha suscitato preoccupazioni in Svezia, evidenziando la possibilità che questa violi la libertà di parola e altri diritti fondamentali. Il governo, però, spera che questo drastico approccio convinca finalmente Tayyip Erdoğan a dare il via libera all’adesione alla NATO, prima del vertice dell’alleanza programmato per luglio a Vilnius.
Il direttore delle comunicazioni di Erdoğan, Fahrettin Altun, ha mostrato ancora dubbi a riguardo. Pochi giorni fa ha scritto su Twitter che il governo turco “spera sinceramente che la nuova legge antiterrorismo […] venga applicata correttamente”. Inoltre, è stato chiesto alla Svezia di dare subito prova concreta del suo impegno e perseguire le persone che hanno proiettato la bandiera del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) sul palazzo del Parlamento di Stoccolma in occasione delle elezioni turche.
Stoccolma è stata più volte teatro di eventi che hanno turbato Erdoğan – che della lotta al PKK ha fatto uno dei suoi baluardi – tra cui il rogo di un Corano davanti all’ambasciata turca, lo srotolamento di una bandiera del PKK nel centro della capitale e la proiezione di simboli e messaggi pro-PKK su edifici importanti.
La centralità della Turchia
Le elezioni che si sono appena concluse in Turchia sono state etichettate come le più importanti di tutto il 2023. Questo perché dal futuro del Paese passa anche quello della NATO, del Caucaso, dell’Asia centrale, dell’Ue, del Mediterraneo e del Medio Oriente.
Ankara controlla il passaggio attraverso gli stretti turchi – il Bosforo, il Mar di Marmara e i Dardanelli – che collegano il Mar Nero con il Mar Egeo e attraverso cui passano centinaia di milioni di tonnellate di merci ogni anno. Sul suo territorio, ci sono forze armate e armi nucleari statunitensi. Il Paese ha svolto un ruolo in molti dei conflitti post-Guerra Fredda in Medio Oriente, che tuttora destabilizzano la regione. La sua posizione geografica ha reso il paese un importante punto di transito durante le crisi migratorie, nonché un attore chiave per la loro gestione; a riguardo, Ankara ha saputo sfruttare questo elemento a suo vantaggio, facendo della migration diplomacy uno dei suoi punti di forza per trattare (e ricattare), ad esempio, l’Ue. Inoltre, adesso che la presenza degli Stati Uniti in Medio Oriente si riduce, per l’influenza di Ankara nella regione si prospetta un’ulteriore crescita di importanza.
Tutti questi elementi, negli ultimi 20 anni, sono stati nelle mani di Erdoğan. Negli ultimi due decenni, il Presidente turco ha dominato senza rivali la scena politica del Paese, riformandolo profondamente. Internamente, ha gradualmente eroso le istituzioni democratiche della Turchia, dandogli una forma sempre più illiberale. Per quanto riguarda la politica estera, invece, ha abbracciato un approccio indipendente, non sempre allineato agli interessi NATO.
La pecora nera della NATO
La questione svedese è solo uno dei tanti casi in cui la Turchia si è mostrata disallineata dagli altri membri dell’Alleanza Atlantica. L’essere membro della Nato, e alleato occidentale, non ha infatti impedito alla Turchia di Erdoğan di esplorare altre partnership e relazioni. In particolare, ciò è avvenuto con Cina e Russia, non proprio amici della NATO.
Pechino è dal 2021 il principale partner di Ankara per le importazioni. Nel 2015, la Turchia ha aderito alla Belt and Road Initiative, accedendo dunque a finanziamenti non occidentali per progetti infrastrutturali e instaurando un legame con la Cina che, dato il valore del progetto, è anche politico. Gli stretti legami con Pechino, hanno portato la Turchia a sorvolare sulla dura repressione cinese degli Uiguri, una minoranza musulmana dello Xinjiang, di cui la Turchia ospita la più grande diaspora. Nel 2009, Erdoğan aveva definito “genocidio” gli abusi della Cina nei confronti degli Uiguri, ma da allora l’argomento è finito nel dimenticatoio.
Per quanto riguarda la Russia, Ankara e Mosca hanno un rapporto particolare. Collaborano su progetti infrastrutturali e la Turchia dipende fortemente dalle importazioni di energia russe. Tuttavia, i due Paesi hanno appoggiato parti opposte nei recenti conflitti.
Nell’ultimo scenario, la guerra tra Russia e Ucraina, la Turchia ha fatto l’equilibrista tra i due Paesi. Ankara ha fornito droni a Kiev, ha appoggiato il voto delle Nazioni Unite che condannava l’invasione russa e ha bandito tutte le navi da combattimento dallo Stretto di Turchia, nonché bloccato gli aerei russi diretti in Siria dallo spazio aereo turco. Allo stesso tempo, però, si è opposta alle sanzioni occidentali contro la Russia, che avrebbero minato la propria sicurezza energetica. Come riporta il Council on Foreign Relations, la Turchia mira a posizionarsi come mediatore nel conflitto, portando avanti i suoi interessi.
Adesso che Erdoğan è stato rieletto, è lecito aspettarsi che l’atteggiamento della Turchia in politica estera rimarrà uguale, continuando a mantenere una posizione da “pecora nera” all’interno dell’Alleanza Atlantica.
Ucraina/Russia: la difficile mediazione di Cina e Brasile
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
Lula ribadisce la volontà del Brasile di dialogare con entrambe le parti, mentre venerdì l’inviato speciale di Pechino è arrivato a Mosca dopo un tour diplomatico. Ma le posizioni cinesi non sembrano allineate con quelle ucraine né con quelle occidentali.
Il conflitto in Ucraina non sembra lasciar spazio a soluzioni nel breve periodo. Continuano i bombardamenti russi, si prepara (o è già partita) la controffensiva ucraina e i morti aumentano, al contrario delle possibilità di concreti dialoghi sulla pace. Cina e Brasile ribadiscono la loro volontà a mediare nel conflitto, ma non sembra che le loro posizioni riescano ad incastrarsi con quelle Ucraine, in primis, ed Occidentali.
Il 26 Maggio, Li Hui – l’inviato speciale di Pechino sulla crisi ucraina – è arrivato a Mosca. La capitale russa era l’ultima tappa del suo primo, lungo tour diplomatico volto a trovare una soluzione politica al conflitto.
Quasi in concomitanza, c’è stata una chiamata tra il presidente brasiliano Lula e Vladimir Putin, il quale ha confermato che la Russia è aperta al dialogo sull’Ucraina. Anche Lula, tramite un tweet, ha ribadito la disponibilità del Brasile a dialogare con entrambe le parti. Nel tweet, Lula menziona anche altri attori del Sud Globale e la Cina, richiamando la propria posizione di non allineamento all’Occidente e la possibilità che siano proprio i Paesi in via di sviluppo a mediare nel conflitto, come aveva già affermate durante il viaggio a Pechino.
Cosa emerge dal viaggio di Li Hui
A livello concreto niente, o almeno nulla di nuovo.
Li Hui, rappresentante speciale della Cina per gli affari eurasiatici, ha concluso il suo tour diplomatico al tavolo con il ministro degli esteri russo Sergei Lavrov. Secondo il Global Times – tabloid cinese del PCC – i due avrebbero parlato per circa 90 minuti, riflettendo sulle prospettive di risoluzione del conflitto in Ucraina. Il ministro degli esteri russo avrebbe ribadito l’impegno di Mosca per una soluzione politico-diplomatica del conflitto, ma sottolineando i gravi ostacoli alla ripresa dei colloqui di pace creati dalla parte ucraina e dai suoi sostenitori occidentali.
Prima di arrivare a Mosca, Li è passato da Kiev, Varsavia, Parigi, Berlino e Bruxelles per sondare il terreno e promuovere una pace cinese per il conflitto, basata sui 12 punti del white paper di posizionamento rilasciato in corrispondenza dell’anniversario dell’invasione russa dell’Ucraina. Questo tour non sembra aver portato a grandi novità: tutti gli attori chiamati in causa, compresa la parte cinese, hanno presentato la loro idea di soluzione del conflitto, mostrandosi poco aperti a compromessi.
Nell’incontro tra Li e Kuleba – il ministro degli esteri Ucraino – quest’ultimo aveva sottolineato che l’Ucraina non è disposta ad accettare nessuna proposta che comporti la perdita dei suoi territori o il congelamento del conflitto. Lo stesso vale – seppur in modo meno drastico ed esplicito – per quanto emerso dall’incontro tra Li ed Enrique Mora, vice segretario generale dell’UE per gli affari politici: infatti, nel documento rilasciato dall’UE che riassume l’incontro tra Li e Mora, si ringrazia l’inviato cinese per aver visitato Kiev, ma allo stesso tempo si riafferma il totale supporto all’Ucraina, anche nel lungo periodo, contro “l’aggressione immotivata e ingiustificata” della Russia ai suoi danni.
Dal canto suo, però, anche Li Hui ha riportato la (ben nota) posizione del governo cinese con tutti i suoi interlocutori, senza sostanziali avanzamenti. Il Wall Street Journal, citando funzionari occidentali aggiornati sui progressi dei negoziati di Li Hui nelle capitali europee, ha riportato come sia emerso un messaggio abbastanza chiaro di Li e del governo cinese all’Europa: l’Europa deve cercare un’autonomia strategica dagli Stati Uniti e sollecitare un immediato cessate il fuoco, lasciando alla Russia il possesso delle parti occupate da quest’ultima.
Un mediatore di parte, tra le parti.
Da quando è tornato presidente del Brasile, Lula è riuscito a mantenere una posizione che davvero somiglia ad una indipendenza strategica da entrambi gli schieramenti della guerra. Condanna l’invasione Russa, ma riconosce una bipartizione delle colpe, nonché una spiegazione alla base del conflitto più complessa di quella proposta dalla Nato. Diversamente, la Cina – nonostante il suo position paper e i suoi sforzi per una risoluzione del conflitto – non ha mai condannato l’invasione russa dell’Ucraina; anzi, tra accordi economici e visite di stato ha celebrato “l’amicizia senza limiti” tra i due Paesi. Un paio di giorni prima dell’arrivo di Li Hui a Mosca, è arrivato a Pechino il primo ministro russo Mikhail Mishustin, che ha avuto colloqui con il presidente cinese Xi Jinping e il premier Li Qiang.
Agli occhi dell’Europa e della Nato questo compromette profondamente l’immagine di Pechino come mediatore credibile super partes; per quanto riguarda l’Ucraina, Zelensky aveva accolto con favore la chiamata di Xi e la volontà della Cina di mediare, ma come si è potuto constatare durante la visita di Li Hui nel Paese, le parti rimangono comunque distanti.
La Cina rifiuta fermamente la narrativa occidentale che collega la sua partnership con Mosca alla guerra in Ucraina, insistendo che niente di ciò violi le norme internazionali e che la Cina abbia il diritto di collaborare per i suoi interessi con qualsiasi Paese. Anzi, dopo il G7 di Hiroshima in cui si è parlato di tutte e due le potenze in modo ostile, Cina e Russia vedono ancora più necessario un allineamento dei propri interessi. Ovviamente, a tenere le redini di tutto è la Cina, con la Russia sempre più stato vassallo di Pechino. La guerra è ormai al suo secondo anno, Mosca è sempre più isolata e teme l’effetto di lungo periodo delle sanzioni, dunque, il sostegno di Pechino è sempre più cruciale.
Tra luci e ombre, il Quad si è riunito a margine del G7
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
Sabato 20 maggio, a margine del G7 di Hiroshima, si è tenuto anche il Quad. L’incontro tra Giappone, Stati Uniti, India e Australia si sarebbe dovuto svolgere il 24 Maggio a Sidney, ma Joe Biden ha dovuto disdire a causa della crisi del tetto del debito americano, un problema troppo urgente che va risolto il prima possibile.
Così, durante il G7, il primo ministro australiano Anthony Albanese e il leader indiano Narendra Modi – entrambi invitati a partecipare al vertice del G7 come ospiti – si sono uniti al primo ministro Fumio Kishida e a Biden per il terzo incontro di persona dei leader del Quad. Il primo ministro australiano Anthony Albanese ha affermato che, nonostante la disdetta, era comunque importante che i leader dei rispettivi paesi si parlassero : “Il Quad è un organismo importante e vogliamo assicurarci che si svolga a livello di leadership”.
Nonostante ciò, anche se inespresso, rimane dell’amaro in bocca. La retromarcia di Biden sminuisce l’importanza del meeting agli occhi del mondo e degli altri partecipanti. Il messaggio è arrivato anche alla Cina: il Global Times, il tabloid del Quotidiano del Popolo, non ha perso l’occasione per mettere l’accento su questo aspetto, affermando come “la cancellazione del vertice di Sydney è un presagio del destino del Quad”. Soprattutto, il tabloid del partito cerca di mettere il coltello nella piaga, ponendo l’attenzione su come il meeting sia saltato a causa dei problemi interni statunitensi; “Il vertice previsto è stato annullato principalmente perché il governo statunitense è in bancarotta” ha riportato, affiancando al tutto una vignetta satirica che allude a come i problemi interni interni – in questo caso legati alla crisi del tetto del debito – rallentino la diplomazia Usa.
Il tabloid cinese, riflette su una questione importante, ovvero su come i media occidentali si siano precipitati a parlare di come il mancato incontro fosse una vittoria per l’influenza di Pechino. Secondo il Global Times, questa è la dimostrazione che gli osservatori occidentali in primis non hanno una grande opinione del Quad, il quale assume valore solo rispetto al contenimento della Cina.
Effettivamente, questo ultimo punto centra il bersaglio. Finché la Cina manterrà un approccio assertivo e revisionista, sia nella regione asiatica che a livello globale, il Quad avrà motivo di esistere. Per questo, lo smacco di Biden non va a minare la ragion d’essere dell’alleanza (informale) militare, che comunque avrà modo di parlarsi. Anzi, il dialogo avverrà marginalmente ad un altro evento, il G7, in cui il contenimento della Cina è uno degli argomenti principali.
Il percorso a ostacoli del QUAD
Il QUAD è progetto in divenire, che fino ad ora ha avuto un percorso frastagliato. La sua nascita risale al 2007, quando dopo una cooperazione iniziale sui soccorsi in caso di calamità, i suoi quattro membri – Usa, Australia, India e Giappone – si incontrarono per un “dialogo quadrilaterale” sulle questioni di sicurezza. Fin da subito, in molti scommettevano sul naufragio del blocco. E avevano ragione. L’India, non allineata e sospettosa di tutto ciò che sapeva di alleanza, era indisposta. Il colpo di grazia, però, lo diede l’Australia, che si tirò fuori dal gruppo un anno dopo, nel 2008, per non fare un torto alla Cina.
Erano tempi diversi, Pechino aveva una postura internazionale diversa e non era ancora concepita come una minaccia sistemica dall’Occidente. Da allora, però, la Cina ha continuato la sua ascesa e ha sempre di più mostrato i muscoli, soprattutto nella regione orientale. Tutti e quattro i membri hanno visto, con il tempo, un graduale deterioramento delle proprie relazioni con la Cina. In un mix tra questioni di sicurezza ed economiche, le tensioni con la Cina sono cresciute, dando ai 4 paesi una ragione concreta per riunirsi. Così, nel 2017, il Quad è tornato in scena.
C’è futuro per il Quad?
Sarebbe avventato trarre conclusioni a lungo termine sul futuro del Quad. Negli ultimi due anni, l’alleanza ha visto dei cambiamenti importanti, passando dall’essere un canale di coordinamento di basso profilo a un colloquio tra i vari leader. Fino ad adesso, il Quad non si è dato una reale struttura, rimanendo di fatto un’alleanza informale. Per i suoi critici questa è una debolezza, che impedisce ai suoi membri di parlare con una voce coesa. Allo stesso tempo, però, da altri commentari questo aspetto è visto come una forza, nonché nell’interesse di tutti i membri: infatti, tutti e quattro considererebbero la natura flessibile del raggruppamento un vantaggio. Un’alleanza di scopo, che permetta di lavorare congiuntamente sulle questioni condivise, senza forzare un allineamento su altre, data comunque la sostanziale differenza di interessi e priorità tra gli attori coinvolti. A riguardo, è utile la risposta data dal Primo Ministro indiano Modi a una domanda ricevuta durante questo G7 riguardo alla partecipazione dell’India a diversi raggruppamenti, come il Quad e l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai; Modi ha affermato che Nuova Delhi non si è mai legata ad una alleanza di sicurezza “al contrario, ci impegniamo con un’ampia gamma di amici e partner che la pensano al nostro stesso modo in tutto il mondo, sulla base dei nostri interessi nazionali”, ha dichiarato.
Il collante dell’alleanza resta principalmente uno: tutti concordano sul fatto che una regione dominata da Pechino è uno scenario da evitare. Questo suggerisce che, fino a quando Pechino continuerà a mostrare i muscoli, il Quad continuerà a essere una parte importante del panorama securitario dell’Indo-Pacifico, prescindendo anche da eventuali cambi di amministrazione negli Usa, dato che una delle poche cose che unisce Repubblicani e Democratici è il timore verso il revisionismo cinese. Ciononostante, i risultati osservabili raggiunti dal Quad sono limitati. Sicuramente, per quanto riguarda la Cina, l’alleanza non ha scoraggiato Pechino dal far valere le sue ambizioni e minacciare i suoi membri.
Turchia: il ruolo dei giovani nelle elezioni cruciali del 14 maggio
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
Le elezioni del 14 Maggio potrebbero rimanere nella storia moderna della Turchia. Per la prima volta in più di due decenni, Erdogan non è il favorito. Da quando è salito al potere nel 2002, ha sempre vinto. Questa volta, però, si dovrà scontrare con un candidato forte, che è riuscito a portare unità nell’opposizione: Kemal Kilicdaroglu, leader del Partito Popolare Repubblicano (CHP) e candidato alla presidenza per il blocco dei sei partiti dell’Alleanza Nazionale.
Gli analisti prevedono un’affluenza alle urne record quest’anno e un testa a testa tra i due contendenti che andrà fino all’ultimo voto. Ci sono tanti fattori che rendono queste elezioni particolari e particolarmente importanti. Da un lato, un contesto internazionale instabile e in cambiamento, che attribuisce a chi vincerà la responsabilità di districarsi tra scenari complicati come la guerra in Ucraina e la competizione USA-Cina, con tutte le rispettive conseguenze ed esternalità. Dall’altro, lo scenario interno di un paese travolto a febbraio da un terremoto disastroso, che è andato ad aggravare uno scenario di profonda crisi economica, e trasformato da Erdogan sempre di più in paese autocratico. Tra democrazia, economia e politica estera, c’è tanta carne al fuoco.
Non è un paese per giovani. Per ora.
Queste elezioni sono speciali anche per un altro motivo: circa 5,2 milioni di giovani turchi voteranno per la prima, e il loro voto non potrebbe essere più importante per decidere le sorti di un paese che non li rispecchia. A circa 20 anni, non hanno mai fatto esperienza di un paese senza Erdogan, al massimo lo hanno sentito raccontare. Alla luce dei sondaggi – che mostrano Erdogan e Kilicdaroglu a un passo l’uno dall’altro – la partecipazione delle nuove generazioni sarà un fattore decisivo per stabilire chi dei due trionferà.
Secondo Ozer Sencar, direttore di MetroPoll, un’organizzazione di sondaggi turca, il 78% degli elettori nella fascia d’età tra i 18 e i 24 anni ha espresso l’intenzione di votare. Tra questi, “Kilicdaroglu è di gran lunga il candidato preferito” ha affermato. Ciò trova conferma anche in un sondaggio condotto dalla Grand National Assembly of Turkey e riportato da France 24, secondo cui solo il 20% dei giovani tra i 18 e i 25 anni intende votare per il presidente e il suo partito AKP. Una volta, Erdogan sognava di crescere una generazione a sua immagine e somiglianza ma, oggi, la maggior parte dei giovani turchi non si rivede nel percorso intrapreso dal loro paese sotto il “sultano”. Vogliono liberarsi dalle catene della religione, godere delle libertà civili; insomma, rimanere al passo con i diritti e la libertà a cui hanno accesso i giovani europei.
Due strategie diverse
La crisi economica che negli ultimi anni ha logorato la Turchia e portato l’inflazione alle stelle, la qualità dell’istruzione e le prospettive di lavoro future sono preoccupazioni ampiamente condivise da tutto l’elettorato giovanile, che superano le divisioni politiche. Sia Erdogan che Kilicdaroglu sanno che il voto dei giovani, circa l’8% del elettorato, è fondamentale; per questo entrambi negli ultimi anni hanno cercato di attirare i giovani dalla loro parte, facendo leva, però, su tattiche diverse.
Erdogan ha storicamente più appeal sulla parte conservatrice della popolazione e, dunque, per attirare i giovani ha messo in campo i suoi cavalli di battaglia: il nazionalismo e l’industria militare, cercando di mostrare come questi elementi possano giocare un ruolo chiave per dare prospettive ai giovani. Un buon esempio di questa strategia è il Teknofest, il più grande evento tecnologico della Turchia, organizzato dal governo e da Selcuk Bayraktar, l’uomo dietro il programma di droni della Turchia e genero di Erdogan, che ha cercato di attirare giovani talenti da tutto il paese. L’evento è stato utilizzato come un’opportunità per il governo di dimostrare che è ancora in grado di generare idee ed eventi per ispirare i giovani nei campi della tecnologia d’avanguardia.
Kemal Kilicdaroglu ha una strategia molto diversa per conquistare i giovani, per quanto anche lui riconosca la centralità dell’industria per la difesa, e nello specifico del programma per la costruzione di droni. Il candidato dell’opposizione punta su quello che più manca a Erdogan, ovvero una visione democratica della politica. Kilicdaroglu ha promesso ai giovani che se vincerà si impegnerà a rinforzare la democrazia, cercando di uniformarsi agli standard dei paesi democratici. Il simbolo della sua campagna è diventato un cuore, che forma con le mani, dicendo ai giovani che possono muovere critiche quanto vogliono senza paura. Sempre France 24, riporta l’intervista di un ragazzo della comunità LGBT, che spiega come l’omosessualità rimane ancora un argomento tabù in una società a maggioranza musulmana e conservatrice. Proprio in virtù delle sue aspirazioni di libertà, ha già deciso che il suo voto andrà a Kilicdaroglu.
Un ragionamento simile viene fatto da molte ragazze, anch’esse desiderose di vivere in una società moderna che le valorizzi e protegga la loro emancipazione. La decisione di Erdogan di ritirare la Turchia dalla Convenzione di Istanbul – un accordo internazionale volto a proteggere le donne dalla violenza domestica – provocò grandi proteste, con in prima linea le giovani donne. Ai loro occhi, il governo non crede nell’uguaglianza sessuale e ha limitato le libertà delle donne.
Allo stesso modo, ci sono anche ragazze giovani che supportano Erdogan e che anzi, si rivedono nel suo approccio conservatore. E’ il caso, ad esempio, di una ventenne intervistata dalla BBC: “Se oggi in questo paese ci sono insegnanti, medici, ingegneri che indossano il velo, è solo grazie alle libertà concesse da Erdogan. Se non fosse stato per lui, saremmo ancora oppressi in nome della laicità” ha spiegato, riferendosi a una delle riforme storiche di Erdogan, ovvero l’abolizione del divieto decennale di indossare il velo nelle università e nella pubblica amministrazione.
I giovani turchi sono chiamati alle urne per decidere che direzione dare al loro futuro. Il loro voto, però, contribuirà anche a delineare il futuro del Mediterraneo e della regione, data la centralità del loro paese nel sistema internazionale.
Avere 21 anni in Iran
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
La globalizzazione ha assottigliato le differenze nel mondo. Vale soprattutto per le nuove generazioni e, ancora di più, per chi è cresciuto nelle grandi città. I giovani si assomigliano un po’ tutti: stessi tagli di capelli, vestiti e stili; comuni aspirazioni, sogni e desideri. Laleh ha 21 anni, vive a Teheran e studia genetica all’Università. Nell’intimità della sua camera, da cui risponde alla videochiamata, non indossa l’hijab. Fino a poco tempo fa, casa sua era l’unico luogo in cui poteva non indossarlo. Oggi, dopo mesi di proteste, i capelli rimangono liberi e sciolti pure in pubblico. È una delle grandi, fragili vittorie che i manifestanti sono riusciti ad ottenere. Come gran parte delle ragazze che frequentano l’università, ha partecipato alle proteste per la morte di Masha Amini, uccisa dalla polizia morale il 16 settembre 2022, dopo essere stata detenuta per non aver indossato correttamente il velo. Sono state le proteste più grandi che la Repubblica Islamica e gli Ayatollah abbiano mai dovuto affrontare da quando sono saliti al potere nel 1979. Così potenti e coinvolgenti da diventare più simili a una rivoluzione, sfidando le fondamenta ideologiche del regime. I cambiamenti più evidenti si vedono nelle grandi città come Teheran, da cui arrivano video di centri commerciali, strade, bazar e stazioni dove le ragazze a indossare il velo sono la minoranza. I cambiamenti più grandi, però, non si vedono con gli occhi, si sentono e sono anche difficili da spiegare a chi non è sul posto. Le proteste sono riuscite a superare la frammentazione della società iraniana: i due sessi hanno scoperto di essere più vicini di quello che pensavano e le ragazze hanno preso coraggio. Le proteste per la morte di Amini sono sì delle donne, ma anche di tutti gli uomini che ambiscono a vivere liberi dai dogmi della Repubblica Islamica. Le nuove generazioni, figlie di un mondo globalizzato e secolarizzato, rivendicano un Iran laico, al passo con i tempi.
Come procede attualmente la situazione?
In questo momento non sta succedendo granchè all’interno del Paese. Due mesi fa, le persone inondavano le strade, si scontravano con la polizia, rischiando la vita. Da quel periodo sono successe molte cose. Molti sono stati arrestati, altri condannati a morte e giustiziati. Le esecuzioni hanno spaventato le persone e molti di loro hanno smesso di scendere in strada. Ci sono, però, dei giorni specifici in cui ci si organizza per scendere in strada a protestare. Anche se negli ultimi due mesi c’è stato poco movimento, le forze di polizia sono ovunque. Nella mia Università a Teheran, che è stata un luogo centrale delle proteste, ora ci sono sempre tantissimi poliziotti, sempre pronti a picchiare e uccidere.
Che cosa è rimasto delle proteste?
Non so se ha senso per le ragazze di altri Paesi ma, prima di tutto questo, la maggior parte di noi ragazze non si sentiva sicura con i ragazzi o gli uomini estranei. Quando uscivamo da sole ci sentivamo a disagio, ma dopo le proteste ci si sente al sicuro. È come se le persone fossero diventate vicine l’una all’altra dopo quei momenti. Vedo un ragazzo per strada e so che è dalla mia parte. Non avevo idea che i ragazzi del nostro Paese fossero così solidali con noi. Abbiamo sempre pensato che si trattasse solo di interessi sessuali, eccetera. Durante le proteste, ragazzi sconosciuti si buttavano davanti alle ragazze solo per salvarle, capisci? Non ci guadagnavano nulla. Rischiavano la vita per delle sconosciute.
Dopo le proteste, tu e le tue amiche indossate ancora l’hijab?
Indossare l’hijab era la normalità, anche se non ci piaceva. Non era l’hijab di cui spesso si parla, non dovevamo coprire tutti i nostri capelli, ma dovevamo indossarlo, altrimenti la polizia morale ti avrebbe fermato. Oggi non lo indossiamo più. Non lo portiamo nemmeno con noi quando usciamo. Quando due ragazze si incrociano per le strade, e non indossano l’hijab, ci si scambia un sorriso. Sì, c’è questo feeling.
Pensi che – non indossare più il velo – sia qualcosa che avete conquistato una volta per tutte?
Sì, sento che è qualcosa che è stato conquistato, ma non si può dire se rimarrà così, perché non sai mai cosa possono fare [gli Ayatollah]. In questo momento non stanno facendo nulla perché sono spaventati da tutto ciò che sta accadendo e da tutta l’attenzione internazionale. Ma se tutto finisse senza cambiamenti concreti, allora è probabile che si vendichino sulle persone. Personalmente non voglio più indossare l’hijab. Non voglio indossarlo e non lo indosso, ma se un giorno le forze di polizia mi dovessero forzare, sarei costretta a farlo per proteggermi.
Che effetto ha avuto la repressione sul morale dei manifestanti?
Quando le proteste hanno iniziato a diventare sempre di meno, a causa della repressione e delle esecuzioni, si è diffusa una grande paura che le cose potessero tornare alla vecchia normalità. La gente si arrabbiava con tutti quelli che avevano ripreso a postare [su Instagram] la vita normale. Dopo un po’ si è arrivati alla conclusione che, in fondo, era giusto così. Era necessario tornare a vivere, a vedere i propri amici e divertirsi per guarire dai profondi traumi che la repressione ci ha provocato. Altrimenti finiresti per ammazzarti. Mi ricordo che durante il periodo delle esecuzioni, piangevo per 10 minuti, continuavo a studiare per gli esami del semestre e poi piangevo di nuovo per altri 10 minuti. Quando andavo a dare gli esami, sentivo che qualcuno era stato giustiziato alle 5 del mattino. Le persone si stanno riprendendo dai traumi subiti. Stanno vivendo la loro vita normalmente ma, nel profondo, sognano ancora tutti di cambiare le cose. Ecco perché spero che le proteste possano riprendere.
Dopo le esecuzioni, il governo ha rilasciato diversi manifestanti arrestati durante le proteste. Come mai?
Gira voce che, prima di essere rilasciati, gli venga imposto di firmare una sorta di contratto. In questo modo diventano spie del governo, oppure, promettono che si comporteranno normalmente una volta usciti, come se durante la loro prigionia fosse andato tutto bene. Ti racconto la storia di questa ragazza, viveva a Rasht, siamo state migliori amiche per circa 2 anni, poi si è trasferita e ci siamo perse di vista. La sua storia è diventata famosa con i social e il passaparola: è stata arrestata durante le proteste ed è rimasta in prigione per circa 80 giorni. Un giorno, mentre era in prigione, è stata trasferita in ospedale. Le forze di polizia non permettevano a nessuno di avvicinarla e hanno vietato alle infermiere di parlare di quello che le era successo. I genitori della ragazza, che non avevano sue notizie dal giorno dell’arresto, hanno saputo che era ricoverata in ospedale e sono corsi a cercarla. Quando hanno chiesto dove fosse la loro figlia, le autorità hanno risposto che non era là. Alcuni giorni dopo è stata riportata in prigione, senza che nessuno potesse vederla. Il motivo del suo ricovero, però, si è venuto a sapere: un’infermiera ha rivelato, anonimamente, che aveva delle ferite sul corpo ed era stata stuprata. Quando è stata rilasciata, ha iniziato subito a comportarsi come se nulla fosse. Postava le foto della sua vita di tutti i giorni, i suoi trucchi, le serate con gli amici e tutto il resto. Era tutto troppo strano. Come puoi comportarti così normalmente dopo essere stata in prigione per 80 giorni ed essere stata violentata? Le persone sanno che, probabilmente, lei è tra quelli a cui è stato fatto firmare uno di quei contratti, per cui vieni rilasciato e in cambio prometti di comportarti normalmente, come se fosse andato tutto bene. Questo è quello che [gli Ayatollah] stanno facendo: giustiziano le persone oppure le forzano a comportarsi come se non fosse accaduto nulla.
Anche andare in prigione fa tanta paura, immagino. Ci vuole davvero tanto coraggio per scendere in strada a lottare per i propri diritti.
La gente preferirebbe morire spesso piuttosto che andare in prigione. L’ho sentito dire molto spesso dalle persone che conosco che ci sono state. Conosco questo ragazzo, un bodybuilder, è stato arrestato solo per aver postato una storia Instagram. Un mese prima aveva partecipato a una gara di bodybuilding. Era muscoloso, in splendida forma. Dopo solo un mese di carcere era magrissimo, irriconoscibile. Lo hanno picchiato tantissimo, senza nessuna ragione e, nel mentre, ridevano di lui. Molte persone e miei amici sono stati arrestati e picchiati. Prima di vederli protestare, non mi sarei mai aspettata che potessero farlo. Erano persone normali che non avrebbero mai litigato con nessuno e, invece, li ho visti rischiare la loro vita, tirare fuori un coraggio che non pensavo avessero. Credo che certe situazioni ti costringano a farlo, non hai scelta. Lo fai e basta.
Pensi che i social media abbiano supportato le proteste?
Penso che tutto quello che è successo è stato possibile anche grazie ai social. Appena si è sparsa la voce della morte di Masha Amini, ricordo che eravamo su Twitter 24 ore su 24, 7 giorni su 7, e postavamo hashtags su hashtags. Anche i familiari più grandi, che non sapevano nemmeno cosa fosse Twitter, hanno iniziato a usarlo per far sapere al mondo cosa stava accadendo. È così che si è sparsa la voce. Prima ci sarebbero stati solo i notiziari. Se non ci fossero stati i social media, non avremmo potuto fare nulla, perché il governo ci ha chiuso i battenti. Oggi stanno cercando in tutti i modi di chiuderci internet e questo dimostra quanto siano spaventati dal fatto che usiamo i social per raccontare la situazione al mondo. Per accedere a Instagram, Twitter o qualsiasi altra cosa, bisogna avere una VPN (Rete virtuale privata). Prima si trovavano facilmente e gratuitamente, ora nessuna di quelle gratuite funziona più. Si devono comprare da una sorta di spacciatori, spacciatori di VPN. Credo che molte persone ci abbiano fatto un business. I social media sono come l’ossigeno per le persone in questo momento, quindi tutti sono disposti a pagare per averli.
I social, insieme a internet, hanno reso i giovani del mondo molto più interconnessi. Ci assomigliamo un po’ tutti. Seppur con sfumature diverse, una ragazza/o in Iran ha gli stessi sogni e le stesse ambizioni di un ragazzo italiano. Fanno tutti parte di un mondo globalizzato e più secolarizzato. A riguardo, che ruolo ha oggi la religione nella vita delle nuove generazioni iraniane?
Quello che dico non vale per tutti, ma la maggior parte dei giovani non segue e non crede nei valori della religione. È come se fossimo nati e fossimo stati costretti a essere musulmani, costretti a memorizzare il Corano, a indossare l’hijab. Siamo stati costretti a studiare qualcosa in cui non crediamo nemmeno, come ci dicono loro [gli Ayatollah]. Anche se non ci crediamo dobbiamo studiarlo per forza per superare gli esami. Anche ora che studio all’Università ho dovuto dare un esame legato all’Islam.
Nel complesso, com’è avere 21 in Iran dopo le proteste?
Direi che oggi c’è speranza, siamo molto più fiduciosi. Prima delle proteste, tutti noi pensavamo di lasciare il Paese e la nostra famiglia un giorno. I nostri genitori non sono così flessibili da andarsene. Hanno un lavoro, hanno delle cose da fare qui, quindi non se ne vanno. Lasciano che siano i loro figli a farlo. Non è così facile, perché sanno che una volta andati via non vorranno più tornare. In questo momento, però, ho la speranza di poter costruire qualcosa qui nel mio Paese.
Quanta miopia in uno stato che non valorizza i propri giovani, anzi li ammazza. I ragazzi e le ragazze, come Laleh, sono il capitale umano su cui si fonda il futuro dell’Iran e che il regime sta soffocando. Gli effetti economici del conflitto in Ucraina, uniti al rafforzamento delle sanzioni statunitensi imposte da Trump nel 2018, hanno eroso il potere d’acquisto del riyāl e le riserve di valuta estera, facendo decollare l’inflazione e aggravando una crisi economica che va avanti da 10 anni. Per molte famiglie è diventato difficile persino reperire lo yogurt, uno degli alimenti fondamentali della dieta iraniana. La classe media non esiste quasi più. Si sta creando un mix pericoloso per il potere degli Ayatollah: quando l’ideologia perde il suo appeal sulla popolazione, la performance economica può essere un buon sostituto per mantenere la stabilità e la pace sociale; se non vi è ideologia e neanche benessere economico iniziano a venir meno le basi del consenso. Il sovrapporsi della crisi sociale alla crisi economica sta creando i presupposti affinché gli iraniani prendano coscienza che uniti possono rovesciare la Repubblica Islamica, come successe con l’ultimo scià di Persia.
Il nome della ragazza è stato modificato per garantire la sua sicurezza.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di aprile/giugno di eastwest
Puoi acquistare la rivista sul sito o abbonarti
Russia/Ucraina: davvero le truppe della Wagner si ritireranno da Bakhmut?
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
“Dichiaro a nome dei combattenti Wagner, a nome del comando Wagner, che il 10 maggio 2023 siamo obbligati a trasferire le posizioni nell’insediamento di Bakhmut alle unità del Ministero della Difesa e a ritirare i resti di Wagner nei campi logistici per leccarci le ferite”, ha dichiarato Prigozhin, il capo dell’esercito mercenario Wagner . “Sto ritirando le unità Wagner da Bakhmut perché in assenza di munizioni sono destinate a morire senza senso”.
L’annuncio arriva da un video registrato, probabilmente, in una delle zone ucraine sotto il controllo dei russi; Yevgeny Prigozhin – noto anche come lo chef di Putin – parla circondato dal suo esercito di mercenari, quasi tutti a volto coperto; indossa una mimetica, un elmetto e porta un’arma automatica a tracolla.
La minaccia del ritiro segue un escalation, sia del conflitto per la conquista della città di Bakhmut, sia tra le forze della Wagner e l’esercito russo.
Partiamo dal conflitto: Bakhmut – una città ucraina che prima del conflitto contava circa 70.000 abitanti – ha assunto un’enorme importanza simbolica per entrambe le parti a causa dell’intensità e della durata dei combattimenti per il suo controllo. La città è, dall’estate scorsa, uno dei principali obiettivi dell’assalto russo alla parte orientale dell’Ucraina; a guidare l’avanzata russa è stato, principalmente, il gruppo mercenario della Wagner, comandato da Yevgeny Prigozhin. La battaglia è stata la più lunga e la più letale della guerra e per entrambe le parti le perdite sono state massicce. Lo scenario è descritto come un inferno: “Nel cuore dell’area urbana della città si stanno svolgendo sanguinose battaglie senza precedenti negli ultimi decenni”, aveva dichiarato Serhiy Cherevatyi, portavoce del comando militare orientale dell’Ucraina.
In questo contesto infernale, stanno emergendo anche tutte le frustrazioni e conflittualità della Wagner con il Cremlino e il suo esercito. Il leader del gruppo di mercenari ha portato di recente, però, queste tensioni allo scoperto. Infatti, prima di annunciare la sua volontà di ritirare le truppe dalla città ucraina, aveva già rilasciato un altro video in preda all’ira, pieno di imprecazioni, in un campo disseminato di cadaveri. Nel video incolpa duramente i vertici della difesa russa per le perdite subite dal suo esercito privato, ribadendo che i suoi uomini “sono venuti qui come volontari e stanno morendo perché voi possiate sedervi come gatti grassi nei vostri uffici di lusso”.
Prigozhin ha citato direttamente il ministro della Difesa russo, Sergei Shoigu, e il capo delle forze armate russe, il generale Valery Gerasimov, insultandoli e chiedendo loro le forniture militari.
È difficile capire se l’annuncio del ritiro delle truppe Wagner da Bakhmut sia un bluff, o avverrà davvero.
Le sfuriata pubblica del capo della Wagner è solo l’ultima di una lunga serie, e mostra i problemi intestini alla leadership russa con cui Putin si sta confrontando in silenzio, nonché le difficoltà che sta incontrando nel garantire i rifornimenti necessari ai soldati per continuare la sua aggressione ai danni dell’Ucraina.
È difficile, però, affidarsi alle parole di Prigozhin e credere che davvero la Wagner abbandonerà la prima linea. Sarebbe una mossa catastrofica per la lunga e sanguinosa campagna russa per la conquista di Bakhmut e che, inoltre, macchierebbe indissolubilmente la reputazione di Prigozhin, un oligarca legato da uno stretto legame con il Cremlino e Putin, che ha fatto fortuna attraverso contratti statali prima di fondare il suo noto gruppo di mercenari.
Il Washington Post riporta le parole dell’analista pro-Cremlino Sergei Markov, che vede l’annunciato ritiro come un bluff. Secondo l’analista il 10 maggio è troppo vicino e non lascerebbe il tempo necessario per un simile passaggio di consegne. Se Prigozhin dovesse seguire la procedura, Markov ha detto che potrebbe rischiare l’arresto e la potenziale distruzione di Wagner. Ritirarsi “sarebbe un grande errore, ma sono stati commessi molti errori”, ha dichiarato Markov in un’intervista. “Immagino che il Ministero della Difesa sarebbe molto contento se il Gruppo Wagner scomparisse. Così le risorse del Gruppo Wagner verrebbero prese da qualcun altro”. Meno contento sarebbe Prigozhin, che grazie alla forza del suo esercito privato si è ritagliato un ruolo chiave al Cremlino: le forze della Wagner sono un asset cruciale per Putin, usato non solo in Ucraina, ma per espandere l’influenza russa in Africa e in Medio Oriente.
Per quanto non ci si possa fidare delle parole a caldo del capo della Wagner – già solito a ritirare le sue dichiarazioni – i toni delle ultime uscite di Prigozhin sono più forti del solito e arrivano in un momento molto delicato del conflitto. Il The Guardian cita, in anonimato, un ex funzionario della difesa che avrebbe lavorato in passato a stretto contatto con il capo della Wagner: “Siamo stati abituati a molte cose da Prigozhin, ma questa è certamente un’escalation”, ha detto; secondo lui, la minaccia di Prigozhin di lasciare Bakhmut fa parte di una “campagna di ricatto” per ottenere più munizioni per la Wagner.
Mentre il Cremlino ha dichiarato di essere a conoscenza del messaggio di Prigozhin, ma ha rifiutato di commentare ulteriormente, l’Ucraina ha respinto tali affermazioni. Anna Malyar, vice ministra della Difesa ucraina, ha dichiarato che la Russia punta a catturare Bakhmut entro il 9 maggio, giorno in cui si celebra la vittoria sovietica sulla Germania nazista. Per farlo, la Wagner starebbe facendo affluire truppe a Bakhmut da “tutte le direzioni” per raggiungere questo obiettivo. A questa dichiarazione, però, si è unita anche quella dell’intelligence militare ucraina, che ha dichiarato come le dichiarazioni di Prigozhin illustrino uno stato di conflitto in corso tra lui e il Ministero della Difesa russo.
Cile: la strategia di Boric per il controllo del litio
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
“Basta con l’estrazione per pochi”, ha detto Gabriel Boric – il giovane Presidente di sinistra del Cile. “Dobbiamo essere in grado di condividere la ricchezza del nostro Paese tra tutti i cileni”; “Questa è la migliore opportunità che abbiamo per la transizione a un’economia sostenibile e sviluppata. Non possiamo permetterci di sprecarla”, ha dichiarato in un discorso trasmesso a livello nazionale.
Le parole di Boric sono parte del discorso, tenuto il 20 Aprile, per presentare la “strategia nazionale sul litio”, che ribadisce la ferma volontà di rispettare uno dei grandi impegni assunti in campagna elettorale: la nazionalizzazione dell’industria del litio. Non sarà semplice – poiché servirà la maggioranza assoluta in entrambe le camere del Congresso – e ci vorrà del tempo, ma questa rimane la direzione del governo progressista di Gabriel Boric.
Il Presidente cileno ha espresso l’ambizione che il Paese diventi il principale produttore di litio al mondo “aumentando così la sua ricchezza e il suo sviluppo, distribuendolo in modo equo e proteggendo allo stesso tempo la biodiversità delle saline”. Nel suo discorso, Boric ha citato la nazionalizzazione del rame cileno ai tempi di Eduardo Frei Montalva e durante il governo di Salvador Allende.
Il Cile si unisce a una serie di altri Paesi che, negli ultimi anni, stanno cercando un maggiore controllo sulle risorse chiave del loro territorio. Lo scorso anno, il Messico ha nazionalizzato la sua industria del litio e lo Zimbabwe ha vietato le esportazioni di litio non lavorato. Anche l’Indonesia sta limitando le esportazioni di materie prime, tra cui il nichel.
Il Cile e il litio
Conosciuto come “l’oro bianco”, il litio è l’elemento solido più leggero della tavola periodica. Viene prodotto dalle salamoie o da giacimenti di minerali duri. Il Cile, a livello assoluto, è il secondo produttore al mondo – dopo l’Australia – ma il primo produttore per quanto riguarda il litio di alta qualità estratto dalle salamoie. Nel 2021, ha prodotto il 26% del litio mondiale e il deserto di Atacama (Cile) detiene una delle tre maggiori riserve al mondo – 9,3 milioni di tonnellate.
L’elevato potenziale elettrochimico del litio lo rende un componente fondamentale per la costruzione di batterie, soprattutto quelle per i veicoli elettrici. Dato il trend di elettrificazione in atto nel settore dell’automotive, garantirsi un approvvigionamento stabile e sicuro di litio è una delle maggiori sfide che le case automobilistiche devono affrontare per rispondere alla crescente domanda. Si prevede che per questo motivo, entro il 2030, la domanda di litio sarà quasi quintuplicata.
Il fatto che il Cile sia così ricco di questo elemento – in un momento in cui la transizione ad un’economia green rende sempre più cruciali le batterie – è un grande vantaggio comparato nelle mani del Paese. Ciononostante, fino ad ora, il controllo di questa risorsa è rimasto nella mani di due aziende private: una è Albemarle, ed è statunitense, l’altra si chiama Soquimich (SQM), è cilena e da tre decenni è controllata da Julio Ponce, il cui suocero era il dittatore Augusto Pinochet; inoltre, l’azienda cinese Tianqui Lithium ne ha acquisito il 23,77% nel 2018. Entrambe le aziende sono dei fornitori cruciali per Tesla, LG e altri produttori di vetture elettriche e batterie.
Il contratto di SQM scadrà nel 2030 e quello di Albemarle nel 2043. Il governo, senza fare direttamente i nomi delle aziende coinvolte, ha voluto rassicurare che non intende rescindere gli attuali contratti; piuttosto, ha detto Boric, spera che esse possano aprirsi ad una partecipazione statale prima delle loro rispettive scadenze.
Il Presidente ha incaricato la società statale Codelco – il più grande produttore di rame al mondo – di trovare il modo migliore per creare una società statale per il litio, per chiedere poi l’approvazione del piano al Congresso nella seconda metà dell’anno. Nel frattempo, Cadelco inizierà a trattare con chi detiene i contratti, con l’obiettivo di raggiungere una partnership tra pubblico e privato. Il governo sa bene che il settore privato è cruciale nell’estrazione del litio e che non è pensabile una sua totale esclusione. Recentemente, la Ministra cilena per le risorse minerarie, Marcela Hernando, aveva dichiarato al Congresso che “la tecnologia e le conoscenze sono nell’industria privata”. Per questo motivo, aveva sottolineato Hernando, è necessario un partenariato pubblico-privato.
La strategia di Boric
La strategia di Boric ha come fulcro e obiettivo la creazione di una Compagnia Nazionale del Litio, ma è più articolata di così. Essa affronta anche la necessità di sviluppare nuove tecnologie di estrazione, che siano più efficienti e sostenibili, coinvolgere e tutelare le comunità connesse ai siti di estrazione e sviluppare prodotti con valore aggiunto.
Nelle idee del governo cileno, in futuro, ci sarà spazio solo per i progetti che utilizzeranno una nuova tecnologia, ovvero l’estrazione diretta del litio (DLE), progettata per estrarre il litio senza affidarsi al tradizionale processo di evaporazione. La speranza è che la tecnologia DLE riduca l’uso di acqua nell’Atacama, una delle aree più aride del mondo.
L’estrazione diretta, più efficiente e sostenibile
La tecnologia DLE non è ancora stata testata su larga scala. Ma la corsa globale al litio – con le grandi potenze coinvolte, come Stati Uniti, Cina ed Europa – metterà a disposizione sempre più fondi per promuovere la sperimentazione in questo settore strategico, e ciò coinvolgerà anche il Cile. Negli Stati Uniti, ad esempio, l’Inflation Reduction Act dello scorso anno ha promesso miliardi di dollari di incentivi per promuovere la produzione e l’adozione di veicoli elettrici, nonché per rafforzare la catena di approvvigionamento delle tecnologie green. Questo potrebbe essere un vantaggio per il Cile, in quanto la legge incoraggia i produttori statunitensi ad acquistare minerali critici, tra cui il litio, dalle miniere americane o da Paesi come il Cile – che hanno accordi di libero scambio con gli Stati Uniti. Per lo stesso motivo, l’Unione Europea ha recentemente rinegoziato il proprio accordo commerciale con il Cile per facilitare l’accesso europeo al litio cileno.
I rischi
Negli ultimi anni, il settore cileno del litio ha perso quote di mercato. L’Australia ha superato il Cile nel 2017 e l’Argentina ha guadagnato terreno. JPMorgan ha recentemente previsto che, entro il 2030, la quota cilena del mercato mondiale del litio potrebbe scendere ad appena il 10%, rispetto all’attuale 28%. Oggi, il Cile rimane ancora competitivo, fornendo litio di alta qualità e a basso costo, estratto dai due grandi attori sopracitati, Albemarle e SQM, che hanno investito solo nel 2022 circa 2,3 miliardi di dollari. L’annuncio, però, potrebbe avere un effetto negativo, spaventando gli investitori e spingendoli verso l’altro grande fornitore globale, l’Australia.
Stati Uniti: chi è Jack Teixeira
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
Le accuse sono due: la conservazione e la trasmissione non autorizzata di informazioni sulla difesa nazionale; la rimozione e la conservazione non autorizzata di documenti o materiali classificati. Rischia fino a 20 anni di carcere.
Il caso di Teixeira è estremamente particolare e differisce dai casi precedenti in cui vi erano state fughe di documenti segreti o governativi. Il responsabile, sembrerebbe, non ha agito come un agente estero – dunque non è assimilabile ad una classica spia – e neanche mosso da ideali o dalla volontà informare il mondo su dei retroscena giudicati da lui ingiusti – come invece era accaduto per Edward Snowden. La motivazione emersa fino ad ora è semplice spacconeria, per far colpo sui suoi amici gamer.
Chi è Jack Teixeira?
Jack Teixeira ha 21 anni ed è un militare della Guardia Nazionale Aerea. Si è arruolato il 26 settembre 2019 ed è stato mobilitato per il servizio attivo federale lo scorso autunno, secondo quanto dichiarato da Nahaku McFadden, portavoce dell’Ufficio della Guardia Nazionale. I genitori erano fieri della carriera che aveva intrapreso il figlio, come mostra un post su Facebook della madre, risalente a Giugno 2021: “Jack sta tornando a casa oggi, con la scuola tecnica completata, pronto a iniziare la sua carriera nella Guardia Nazionale Aerea!”
Un amico di Jack, lo descrive come un patriota, un cattolico devoto e un libertario con un interesse per le armi e dubbi sul futuro dell’America. Si sono conosciuti poco prima dello scoppio della Pandemia nel 2020 su un gruppo di Discord – una piattaforma statunitense – incentrato principalmente sulle armi e sulla politica libertaria. A creare un legame tra i due sono stati gli interessi comuni, pistole Glock e il cattolicesimo.
Su Discord Jack aveva creato un gruppo: Thug Shaker Central. Si tratta di un gruppo di circa 25 persone, tra cui tanti teenager, nato come luogo di aggregazione per giovani uomini e adolescenti durante l’isolamento della pandemia. Tutti i membri, come Jack e il suo amico, condividevano la passione per le armi, per i meme – a volte razzisti – e per i videogiochi a tema bellico. Il gruppo è dove sono apparsi per la prima volta i documenti di intelligence trapelati. Sarebbe stato Jack Teixeira a caricarli, per far vedere ai suoi amici un po’ di retroscena sulla guerra vera. Il suo obiettivo – secondo i membri del gruppo – era borderline, a metà tra voler impressionare e voler informare.
I documenti sono iniziati a circolare nel gruppo già dall’anno scorso. Jack – soprannominato “OG” – aveva iniziato a inviare messaggi pieni di strani acronimi e in un gergo difficile da comprendere per la maggior parte dei membri del gruppo Discord. Proprio per questo, in un primo momento, le informazioni condivise da Jack Teixeira non avevano attirato troppa attenzione da parte dei suoi amici. Ciononostante, lui ha continuato a pubblicare sempre più informazioni e veri e propri documenti fotografati, impegnandosi anche a tradurre il gergo militare per i suoi amici più inesperti.
Cosa dicono i documenti?
Le prime informazioni emerse sui documenti trafugati da Jack riguardano la guerra in Ucraina, ma vi è molto di più. C’è la prova delle importanti attività di spionaggio che gli Stati Uniti conducono anche sui propri alleati, che risulta in materiale sensibile informativo su Canada, Cina, Taiwan, Israele e Corea del Sud, nonché su scenari militari dell’indo-pacifico e del Medio Oriente.
Ucraina
Secondo il New York Times, i documenti non modificano sostanzialmente la comprensione pubblica di ciò che sta accadendo al fronte, né contengono piani di battaglia specifici. Essi, però, descrivono in dettaglio i piani segreti americani e della NATO per supportare lo sviluppo dell’esercito ucraino.
Mostrano la profonda penetrazione statunitense nei servizi di sicurezza e di intelligence russi. Confermano l’estrema dipendenza della resistenza Ucraina dagli aiuti occidentali – senza l’afflusso di munizioni, il sistema di difesa aerea ucraino potrebbe presto crollare, consentendo alla Russia di scatenare la sua forza aerea contro le truppe ucraine. Discutono scenari estremi come la eventuale morte del presidente Vladimir V. Putin o di Volodymyr Zelensky, la rimozione dei vertici delle forze armate russe e un attacco ucraino al Cremlino.
Allo stesso tempo, però, dipingono una Russia in grande difficoltà, con le proprie forze speciali distrutte dalla guerra, e con dispute intestine, dove gli ufficiali militari si rifiuterebbero di “trasmettere le cattive notizie lungo la catena di comando”.
Cina
I documenti riportano intercettazioni dei servizi segreti russi, che testimoniano la volontà di Pechino di fornire segretamente a Mosca aiuti in armamenti letali, camuffando “gli aiuti militari come attrezzature civili consegnate via mare, ferrovia e aria”.
Inoltre, nei documenti si parla anche dei palloni spia, affermando che oltre a quello scoperto, le agenzie di intelligence statunitensi erano a conoscenza di altri quattro palloni spia cinesi, di cui uno avrebbe girato il globo armato con una sofisticata tecnologia di sorveglianza.
Taiwan
Dalle informazioni trapelate risulta che è improbabile che Taiwan riesca a contrastare la superiorità aerea militare cinese in caso di un conflitto tra le due sponde dello Stretto. Allo stesso tempo, la tattica cinese di usare navi civili per scopi militari ha eroso la capacità delle agenzie di spionaggio statunitensi di rilevare con anticipo una potenziale invasione.
Nei documenti vi sarebbero altre informazioni che mostrerebbero una crescente preoccupazione sulla capacità dell’isola di Formosa di prevenire la guerra.
Egitto ed Emirati Arabi Uniti
Secondo il Washington Post, l’Egitto e gli Emirati Arabi Uniti, due partner chiave degli Stati Uniti in Medio Oriente, avrebbero pianificato di collaborare con la Russia contro gli interessi americani.
Entrambi gli stati hanno negato queste ipotesi.
Sud Corea
Secondo i documenti, i funzionari della Corea del Sud – un importante alleato americano la cui politica ufficiale è di non fornire armi letali ai Paesi in guerra – avrebbero espresso timori sulla possibilità che gli Stati Uniti potessero dirottare le armi sudcoreane verso Kiev.
Israele
Una valutazione del Pentagono ha suggerito che la leadership del Mossad, il servizio di intelligence di Israele, potrebbe aver incoraggiato il personale dell’agenzia e i cittadini israeliani a partecipare alle proteste antigovernative che hanno sconvolto il Paese a marzo.
Il tutto è stato smentito dagli ufficiali israeliani.
Canada
Un gruppo di hacker guidati dal Servizio di sicurezza federale russo potrebbe aver attaccato e compromesso una società canadese di gasdotti a febbraio, causando danni alla sua infrastruttura.
Imbarazzo del Pentagono
La diffusione di tutte queste informazioni sensibili fa sorgere delle domande sulla sicurezza interna del Pentagono e su cosa debbano fare gli Stati Uniti per tutelarsi in futuro da questo tipo di situazioni, non nuove.
Tutti gli ufficiali a cui è stato chiesto come fosse potuto capitare non sono riusciti a nascondere quanto fossero anch’essi rimasti sbigottiti. Un ragazzo di 21 anni è riuscito per mesi e mesi a trafugare indisturbato documenti e questo ha dell’incredibile.
Afghanistan: le donne non potranno più lavorare per le Nazioni Unite
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
Secondo quanto riportato dalle Nazioni Unite, durante la prima settimana di Aprile 2023, l’amministrazione talebana ha vietato alle donne afghane di lavorare per l’Onu. La decisione allarga il divieto, imposto a Dicembre 2022, che impedisce alle donne di lavorare nelle organizzazioni umanitarie locali e internazionali.
L’esclusione delle donne afghane dalle organizzazioni umanitarie operanti in Afghanistan aveva già portato alla sospensione o alla riduzione, a causa della mancanza di personale, di gran parte dei programmi attivi nel Paese. Con questa ultima mossa, viene preso di mira uno degli ultimi canali rimasti per far passare gli aiuti, rischiando di peggiorare ulteriormente le condizioni tragiche della popolazione. A Dicembre, quando era stato introdotto il divieto, il Ministero degli Affari Esteri afghano aveva assicurato ai funzionari dell’organizzazione che il decreto non si sarebbe applicato alle Nazioni Unite. Questa settimana, però, è stata invertita la rotta. Sheikh Haibatullah Akhundzada, l’autorità suprema del governo, ha chiarito che il divieto si estende anche alle Nazioni Unite e ha dato istruzioni all’intelligence di farlo rispettare.
Come riportato da Ramiz Alakbarov, vice rappresentante e coordinatore umanitario delle Nazioni Unite per l’Afghanistan, per fronteggiare la condizione di povertà estrema in cui versa il Paese sarebbero necessari 4,6 miliardi di dollari per il 2023, la più grande operazione di aiuto al mondo. Purtroppo, l’operazione è stata finanziata per meno del 5%: fino ad oggi, ha ricevuto solo 213 milioni di dollari, presentandosi come l’operazione di soccorso che ha ricevuto meno fondi a livello globale. “Il mondo non può abbandonare il popolo afghano in questo momento precario”, ha insistito Alakbarov, esortando la comunità internazionale a “non punire ulteriormente il popolo afghano trattenendo i finanziamenti essenziali”. A dicembre 2021, il Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP) aveva stimato che le limitazioni sull’occupazione femminile sarebbero costate fino al 5% del prodotto interno lordo dell’Afghanistan. Oggi, l’ulteriore stretta annunciata rischia di aggravare ulteriormente la situazione. Secondo i funzionari Onu, la politica del governo afghano viola direttamente lo statuto delle Nazioni Unite e rischia, dunque, di spingere i vertici dell’organizzazione a chiudere le operazioni di aiuto in Afghanistan.
Da quando i Talebani hanno riacquistato il potere sono cambiate tante cose. Kabul, che per circa vent’anni ha eletto governi civili, è ora la capitale di un Paese che non ha più nulla a che vedere con quello che gli Stati Uniti hanno provato a costruire durante due decenni di occupazione. Con l’evacuazione americana è finita la guerra civile: da un lato il sollievo, niente più raid aerei e scontri armati; dall’altro, la disperazione di chi si era abituato alle libertà introdotte – seppur con grandi spargimenti di sangue – dalle forze armate USA. Nel report dell’UNDP, rilasciato nel 2022, si afferma che è stato vanificato “in 12 mesi ciò che aveva richiesto 10 anni per essere accumulato”.
Nell’anno e mezzo in cui l’amministrazione talebana ha governato, la disoccupazione è esplosa, il prezzo del cibo è salito alle stelle e la malnutrizione è peggiorata drasticamente in tutto il Paese. Oggi, quasi 20 milioni di persone – più della metà della popolazione – si trovano in una situazione di grave insicurezza alimentare e sei milioni sono vicini alla carestia.
Per quanto la presa di potere dei Talebani abbia impattato duramente il rispetto dei diritti civili, politici ed umani di tutta la popolazione, le privazioni più grandi sono subite dalle donne, escluse arbitrariamente dalla vita sociale, economica e politica del Paese. I loro diritti sono stati cancellati, rendendo l’Afghanistan uno dei Paesi più restrittivi al mondo per le donne. I Talebani hanno proibito alla maggior parte delle ragazze di frequentare la scuola secondaria, hanno vietato a tutte gli studi e l’insegnamento nelle Università, nonché il lavoro in generale. Inoltre, sono ritornati a crescere i tassi di matrimonio infantile. Le donne afghane continuano a non rassegnarsi a questa realtà, trovando solidarietà anche in parte della popolazione maschile, soprattutto nelle nuove generazioni. Nonostante ciò, la guerra allo stato islamico è estenuante. Amnesty International ha segnalato un drastico aumento del numero di donne arrestate per aver violato le politiche discriminatorie a cui sono sottoposte, come il divieto di apparire in pubblico senza un accompagnatore maschio, oppure l’obbligo a coprire completamente il loro corpo.
Queste politiche sono arrivate a definire il governo talebano agli occhi del mondo, causando anche tensioni interne: i cambiamenti minacciano gli aiuti offerti dai donatori occidentali, riconosciuti come fondamentali pure da molti estremisti del movimento. Oggi, l’Afghanistan è quasi totalmente isolato a livello internazionale. Le azioni del nuovo governo afghano sono state condannate universalmente, persino da altri governi islamici, come nel caso dell’Arabia Saudita.
Nel 2021, i Talebani rassicurarono il mondo che non si sarebbe tornati alla misoginia che ne aveva caratterizzato il governo negli anni ‘90. Queste promesse, una ad una, sono state infrante.
Myanmar e la vulnerabilità marittima cinese
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
Sembrerebbe che il Tatmadaw – le forze armate birmane della giunta militare – stia militarizzando l’isola Great Coco. A fornire le prove a riguardo sono delle foto scattate nel gennaio 2023 dalla Maxar Technologies – un’azienda privata specializzata in immagini satellitari, appaltatrice del governo Usa – e riportate sul magazine di Chatham House. Le immagini mostrano segni di una dinamica attività di costruzione sull’Isola Birmana. Sono visibili due nuovi hangar, una nuova strada rialzata, un apparente blocco di edifici e una pista di atterraggio di circa 2.300 metri appena asfaltata, con una stazione radar. Si può notare, inoltre, che sulla punta meridionale di Great Coco sono visibili i segni di un’attività di disboscamento che indica le intenzioni di proseguire i lavori di costruzione. L’esercito della giunta militare birmana potrebbe presto essere in grado di condurre operazioni di sorveglianza dal nuovo sito; ciò sarebbe motivo di non poche preoccupazioni per la seconda maggiore potenza dell’Asia, l’India.
L’isola Great Coco, del Myanmar, è situata nel Golfo del Bengala ed è da sempre oggetto di intrighi e controversie geopolitiche. È la più grande componente di un arcipelago che si trova a soli 55 chilometri a nord delle strategiche isole Andamane e Nicobare, sotto la sovranità dell’India. Le preoccupazioni indiane, però, non sono tanto legate alla presenza del Tatmadaw sull’isola, ma piuttosto al pericolo che dietro le forze birmane ci sia la Cina, il grande rivale regionale dell’India.
È dall’inizio degli anni ’90 che girano voci secondo cui l’esercito cinese avrebbe installato un’antenna di 50 metri su Great Coco, dotata di apparecchiature per l’intercettazione dei segnali. Diversi giornalisti hanno raccontato storie su come la Cina stesse usando l’isola per monitorare i test missilistici e i lanci dell’agenzia spaziale indiana. Sia i funzionari indiani che gli analisti occidentali hanno fatto ben poco per smentire queste voci, ma non hanno neanche mai portato elementi concreti che le confermassero. Per un periodo si è arrivati anche a dire che l’isola fosse stata completamente data in leasing a Pechino. Tutte queste voci si sono dimostrate fino a questo momento soltanto speculazioni, senza mai trovare nessuna evidenza di una presenza cinese sull’isola.
Le nuove immagini satellitari riaccendono l’attenzione su Great Coco e, anche se la militarizzazione dell’isola è imputabile al Tatmadaw, i crescenti legami del regime birmano con la Cina di Xi aprono una concreta possibilità che Pechino possa trarre vantaggio o sfruttare direttamente il nuovo sito nel Golfo del Bengala.
Da quando la giunta militare ha ripreso con la forza il controllo del Paese, il Myanmar è entrato in una spirale di violenza che lo ha profondamente isolato. In questo contesto, l’influenza di Pechino è cresciuta notevolmente, prendendosi gli spazi lasciati liberi da stati e aziende che, dopo un riavvicinamento durante la transizione democratica della Birmania, hanno nuovamente abbandonato il Paese. Con una guerra civile in atto tra le forze armate del Myanmar e l’opposizione democratica, si è tornati ad una condizione di instabilità estrema che spaventa tutti gli investitori, tranne la Cina, la quale per ora sembra essere decisa a continuare il sostegno del regime e proteggere i suoi interessi nell’area. Si ritiene che le aziende cinesi stiano continuando ad operare in loco, costruendo importanti progetti infrastrutturali, mentre la giunta sta stanziando le poche truppe, non impiegate nel conflitto con il Governo di Unità Nazionale, per proteggerle.
Se effettivamente si concretizzasse la costruzione di una base militare del Tatmadaw sull’isola Great Coco, ci sarebbero importanti implicazioni per gli interessi strategici dell’India nella regione. Nuova Delhi sta cercando di contenere e controbilanciare la crescente influenza della Cina in Asia meridionale – soprattutto nella regione dell’Oceano Indiano – e una nuova base aerea di un Paese sempre più legato a Pechino, nelle sue immediate vicinanze, sarebbe una potenziale minaccia per la sicurezza indiana. Le isole indiane Andamane e Nicobare – a 55 km da Great Coco – forniscono alla flotta orientale indiana un vantaggio strategico nel Golfo del Bengala, un asset di valore per controllare i transiti nello Stretto di Malacca, un choke point cruciale nei rapporti di forza con Pechino.
Gli interessi di Pechino in Myanmar: il corridoio economico e il dilemma dello stretto di Malacca.
La Repubblica Popolare Cinese (RPC) è fortemente dipendente dalle importazioni di materie prime per far fronte al suo fabbisogno energetico. Se una buona parte arriva dalla Russia – soprattutto in questo periodo di isolamento per Mosca – l’import è diversificato tra altri importanti rivenditori distribuiti tra Africa e Medio Oriente. Secondo il Warsaw Institute, oltre il 70% delle esportazioni di petrolio e Gas naturale della RPC passa attraverso lo Stretto di Malacca, rendendolo un nodo cruciale della politica di sicurezza energetica cinese. La sua importanza, però, va ben oltre le materie prime, riguardando gran parte del commercio globale generale della Cina.
Per queste ragioni, Hu Jintao – il predecessore di Xi Jinping alla guida della RPC – aveva introdotto il concetto di “dilemma di Malacca“, riferendosi alla mancanza di alternative di accesso convenienti al Mar Cinese Meridionale. Ciò rende la Cina vulnerabile a un blocco navale e, a sua volta, più complicato per Pechino attuare un eventuale blocco navale contro Taiwan. L’isolamento di Taipei, per attuare un eventuale attacco anfibio all’isola, è uno degli schemi di attacco più immediati che potrebbe attuare la Cina nel caso decidesse di riprendersi con la forza la sua controparte repubblicana. Allo stesso tempo, però, intraprendere azioni di questo tipo potrebbe portare ad azioni analoghe da parte delle forze statunitensi e dei loro alleati contro la Cina, che potrebbero sfruttare lo stretto di Malacca.
A rendere ancora più delicata questa situazione è il rapporto complicato, e spesso teso, tra la Cina e l’India, l’altro grande attore regionale. La posizione dell’India è strategica per il controllo dello stretto e rappresenta un potenziale, grande vantaggio in caso di conflitto armato tra le due potenze. Proprio per questo motivo una base di appoggio per la Cina su Great Coco sarebbe motivo di grande frustrazione per l’India, che ridurrebbe un suo importante vantaggio competitivo sulla zona.
Per risolvere il dilemma cinese dello stretto di Malacca, il Myanmar ha un ruolo cruciale: esso sarebbe un corridoio perfetto per accedere all’Oceano Indiano e aggirare lo Stretto di Malacca. Non è un caso che una delle componenti principali dell’articolazione della Belt and Road Initiative nel continente asiatico sia il China-Myanmar Economic Corridor (CMEC). Il CMEC non era tra le componenti originali della Belt and Road Initiative ma era una parte del più piccolo – ma ugualmente ambizioso – corridoio economico attraverso Bangladesh-Cina-India-Myanmar, proposto nel 2013 dal premier Li Keqiang. Questo progetto non ha mai potuto prendere vita a causa dell’avversità mostrata dall’India, già allora sempre più in competizione con la Cina.
Proprio a causa della centralità del Myanmar nei progetti di Pechino per tutelarsi dagli attori ostili, come India e Usa, e dalla possibilità che questi sfruttino lo stretto di Malacca per arginare la Cina, Xi ha continuato a mantenere rapporti stabili con la giunta militare Birmana, anche dopo il colpo di stato e nonostante la grande instabilità politica in cui versa il Paese. L’isolamento della Birmania rende la Cina un partner irrinunciabile per la giunta, aprendo la possibilità che Pechino possa utilizzare questa dipendenza come leva politica. Great Coco è quindi, potenzialmente, un punto su cui fare leva in futuro. Se il Myanmar stabilisse la base, è molto probabile che essa attirerebbe subito l’attenzione cinese; in questo modo, dopo anni di speculazione sull’isola, l’India potrebbe avere davvero un concreto motivo per cui preoccuparsi.
Brasile/Cina: slitta il viaggio di Lula a Pechino per incontrare Xi Jinping
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
Domenica 26 Marzo, Lula avrebbe dovuto iniziare un tour di 4 giorni in Cina. Poco prima della partenza, al Presidente brasiliano era stata diagnosticata una polmonite che ne aveva ritardato la partenza di un giorno. “Nonostante il miglioramento clinico, il servizio medico della Presidenza della Repubblica raccomanda di rinviare il viaggio in Cina fino alla fine del ciclo di trasmissione virale” si legge nella nota rilasciata dall’ufficio stampa del Presidente. Il governo brasiliano ha poi informato le autorità cinesi della necessità di rinviare la visita e riprogrammarla appena sarà possibile.
Il viaggio – che avrebbe dovuto includere il 28 Marzo un incontro con il leader cinese Xi Jinping – era una chiara manifestazione della volontà di Lula di dare nuovo corso ai rapporti tra i due Paesi, dopo la presidenza Bolsonaro. Sarebbe stata la visita di stato più significativa, fino a questo momento, del suo terzo mandato presidenziale. Lo si poteva dedurre dalla numerosa e variegata delegazione che lo avrebbe accompagnato in Cina: governatori, membri del Congresso, ministri e centinaia di imprenditori.
Per Xi Jinping, reduce dalla visita all’amico Putin, l’incontro dava il la ad un periodo di fitto traffico diplomatico: il 30 Marzo sarà il turno del Premier spagnolo Pedro Sanchez, seguito poi dal Presidente francese Emmanuel Macron con la Presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. Dovrebbe poi arrivare anche il momento dell’Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri, Josep Borrell.
Lula, però, diversamente dai leader Europei che visiteranno Xi, porta avanti una visione del mondo più in linea con le ambizioni del leader cinese. La visita a Pechino – che sarà recuperata nel breve futuro – rientra nel percorso, portato avanti da Lula, per riaffermare il ruolo del Brasile come potenza regionale e globale indipendente, che persegue una politica estera pragmatica, focalizzata a sostenere gli interessi brasiliani.
Da oltre un decennio, il Dragone è il più importante partner commerciale del Brasile; nel 2022, la Cina ha importato oltre 89,7 miliardi di dollari di prodotti brasiliani – soprattutto soia e minerali – e ha esportato in Brasile per un valore di circa 60,7 miliardi di dollari. Questo commercio, che nel complesso vale 150,4 miliardi di dollari, è aumentato di 21 volte rispetto a quando Lula visitò per la prima volta la Cina nel 2004.
Ad oggi, il settore agricolo è la componente principale degli scambi economici tra i due Paesi, nonché un tassello cruciale degli equilibri interni politici brasiliani. Non a caso, sarebbero stati oltre 100 gli imprenditori appartenenti a questo settore ad accompagnare il Presidente Lula nel suo viaggio in Cina. Si sarebbe parlato anche di turismo e di altri investimenti, con una particolare attenzione all’ambito dei semiconduttori e allo sviluppo tecnologico-digitale. Durante la visita, era prevista la firma di almeno 20 accordi bilaterali, posticipata al momento in cui questa verrà recuperata; uno degli accordi riguarda la costruzione del CBERS-6, il sesto di una serie di satelliti costruiti insieme da Brasile e Cina. La tecnologia di questo nuovo modello consentirà di monitorare i biomi brasiliani, come la Foresta Amazzonica, anche nelle giornate nuvolose.
Poco importa se il viaggio non è ben visto da Washington – che vorrebbe un Brasile schierato apertamente ed esplicitamente con le democrazie occidentali – la Cina è un partner troppo importante per gli interessi economici brasiliani. Fin da subito, dopo essere stato rieletto presidente, Lula ha rivendicato il ruolo del Brasile come Paese non allineato. Nel caso della Guerra in Ucraina, ad esempio, ha deciso di non sostenere militarmente Kiev e supporta l’idea che il Brasile – insieme agli altri Paesi del BRICS non coinvolti direttamente nella guerra, al contrario della Russia – possa essere un attore neutrale in grado di svolgere un ruolo concreto e costruttivo di mediazione, in un contesto dove la pace sembra un orizzonte sempre più sfocato. Questa idea è ben vista anche da Pechino che, seppur non possa essere considerato alla luce delle sue azioni un attore imparziale, sarebbe ben contento di vedere i negoziati per la pace guidati dai Paesi non allineati, in perfetto stile multipolare.
Il viaggio in Cina si unisce ad una serie di altre azioni intraprese dal Brasile, sotto la guida del presidente di sinistra, che non sono piaciute alle potenze occidentali. Nelle ultime settimane, Lula ha inviato una delegazione in Venezuela, si è rifiutato di firmare una risoluzione delle Nazioni Unite che condannava le violazioni dei diritti umani compiute dal governo del Nicaragua e ha permesso alle navi da guerra iraniane di attraccare nel porto di Rio de Janeiro.
La politica estera portata avanti da Lula rientra nell’ottica di un Brasile sovrano, libero e neutrale. Un approccio pragmatico – che porta avanti gli interessi nazionali brasiliani rapportandosi con chiunque possa supportarli, prescindendo da giudizi morali – non piace a Washington, ma piace a Pechino. La Cina supporta un mondo multipolare e rifiuta la superiorità morale rivendicata dalle democrazie occidentali; dunque, chiunque si distacchi da questa visione del mondo è per la Cina un potenziale buon alleato nei suoi piani per ridefinire l’ordine internazionale.
Ruanda/Uk: il controverso accordo sui rifugiati
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
Questo weekend – 18 e 19 Marzo – Suella Braverman, il Ministro degli Interni britannico, sarà in Ruanda per discutere la Migration and Economic Development Partnership, un accordo da 146 milioni di dollari, tra gli UK e Ruanda, per ricollocare i richiedenti asilo arrivati irregolarmente nel Regno Unito. Durante il viaggio, Braverman incontrerà il presidente ruandese Paul Kagame. Ha dichiarato che la visita ha l’obiettivo di “rafforzare l’impegno del governo nella partnership come parte del nostro piano per fermare i barconi e discutere i piani per rendere operativo il nostro accordo a breve”.
Il controverso accordo risale ad aprile 2022 ed è stato subito oggetto di diverse critiche e ricorsi legali, tra cui quello della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, impedendo che diventasse operativo. Nel dicembre 2022, l’Alta Corte britannica ha stabilito la legalità del piano, affermando che esso non violerebbe la Convenzione delle Nazioni Unite sui rifugiati. Tuttavia, il 16 gennaio 2023, l’Alta Corte ha deciso che alcune parti dei gruppi usciti sconfitti dalla causa hanno il diritto di appellarsi contro determinate sezioni della decisione. A livello pratico, ciò significa che i voli previsti per la ricollocazione non potranno decollare verso il Ruanda finché il caso non sarà risolto. Per intanto, non è stata fissata nessuna data.
L’accordo UK-Ruanda è una componente fondamentale della proposta di legge del Governo britannico – nota come “Illegal Migration Bill” – per trattenere e poi deportare i richiedenti asilo che raggiungono il Regno Unito attraversando il canale della Manica su piccole e precarie imbarcazioni. Il piano è stato etichettato dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati come una “messa al bando del diritto d’asilo politico”, mentre i partiti dell’opposizione e le NGO negli UK lo hanno definito come immorale e inattuabile, evidenziando come esso avrebbe il risultato di criminalizzare gli sforzi di migliaia di rifugiati in linea con i requisiti per ottenere l’asilo politico.
Gli UK e l’immigrazione
Il pugno duro del Governo di Rishi Sunak sull’immigrazione è lo specchio dell’approccio generale del Partito Conservatore inglese al tema. A sua volta, quest’ultimo è coerente con la visione securitaria dell’immigrazione che si è diffusa, ed è stata alimentata, in tanti Paesi europei a partire dalla crisi migratoria del 2015. Nel caso specifico del Regno Unito, quell’anno si stima arrivarono nel Paese circa 630.000 persone, un record per l’epoca; di queste, 32.000 fecero richiesta di asilo politico e 11.000 furono accolte. Le crescenti tensioni geopolitiche mondiali che hanno caratterizzato il periodo post Covid – come l’invasione russa dell’Ucraina o la ripresa del potere in Afghanistan dei Talebani – e le loro conseguenze economiche hanno avuto un effetto propulsore sui flussi migratori internazionali. Ai Paesi direttamente interessati da crisi politiche, si sono aggiunti altri Paesi in via di sviluppo – come quelli africani – colpiti duramente dalla spirale inflazionistica scaturita dalla guerra in Ucraina. Di conseguenza, nel 2022 sono state presentate nel Regno Unito 74.751 richieste di asilo, il numero più alto degli ultimi due decenni. Di queste, poco meno della metà (45%) sono state presentate da persone arrivate attraversando lo stretto della Manica su piccole imbarcazioni.
Le perplessità sul ricollocamento in Ruanda
Il Ruanda è un piccolo Paese senza sbocchi sul mare di 26.338 kmq e 13,5 milioni di abitanti; la sua scelta come destinazione dei ricollocamenti, ha una sua logica. Ma è anche controversa. Il Paese ha un lungo passato di accoglienza e ha, dunque, sviluppato una certa esperienza a riguardo. Secondo i dati di agosto 2022, ospita circa 127.326 rifugiati e richiedenti asilo, di cui la maggior parte proveniente dalla Repubblica Democratica del Congo e Burundi. Sono divisi tra 5 campi, di cui il più grande è quello di Mahama, che ospita più di 57.000 persone. La condizione dei rifugiati in Ruanda è ambivalente: non sono né perseguitati né criminalizzati ma, allo stesso tempo, hanno poche prospettive di miglioramento della propria vita e si scontrano con la realtà di un Paese in cui i diritti umani, spesso, sono prevaricati.
L’accoglienza e la protezione dei rifugiati nel Paese sono definite da una legge approvata nel 2014. In essa ci sono alcune delle politiche più avanzate al mondo per sostenere l’autonomia dei rifugiati, come la libertà di movimento e il diritto al lavoro. Il principio di “non respingimento” è sancito dalla legge ed è, generalmente, rispettato. Tuttavia, la legge tace sulla possibilità che il Ruanda ospiti richiedenti asilo “esternalizzati” da altri Paesi.
Secondo il rapporto del 2022 di Human Rights Watch, il Ruanda non garantisce un buon livello di tutela dei diritti umani: il Fronte Patriottico Ruandese (RPF) al potere ha continuato a soffocare le voci dissenzienti e critiche, prendendo di mira coloro che sono percepiti come una minaccia per il governo, compresi i loro familiari. Nel Paese non c’è spazio per l’opposizione politica, per le libertà civili e dei media. Ci sono stati diversi casi in cui critici di alto profilo – tra cui membri dell’opposizione e commentatori che utilizzano i social media per esprimersi – sono scomparsi, sono stati arrestati o minacciati. Il Ruanda è anche accusato di prendere di mira i rifugiati ruandesi all’estero. Sempre Human Rights Watch ha documentato diverse storie di richiedenti asilo ruandesi fatti sparire con la forza e riportati in Ruanda, oppure direttamente uccisi.
Altri fattori che rendono controversa la scelta del Ruanda come meta per ricollocare i richiedenti asilo negli UK riguarda la mancanza di prospettive economiche e professionali per i rifugiati nel Paese, dove l’alto tasso di disoccupazione rende difficile raggiungere l’autosufficienza. Ad oggi, la capacità ruandese di assorbire la popolazione rifugiata attraverso l’integrazione e la naturalizzazione si è dimostrata molto limitata. Inoltre, l’assenza di documentazione e la mancanza di chiarezza sulla condizione, che spesso si associa ai richiedenti asilo, hanno ridotto la loro possibilità di accedere a lavori e servizi. Per quanto non vi siano discriminazioni sistematiche nei confronti dei rifugiati, vi sono alcune situazioni, come quelle legate all’orientamento sessuale o all’identità di genere, che possono portare alla persecuzione, seppur non istituzionalizzata.
Suella Braverman ha difeso con forza l’approccio duro del suo governo contro l’immigrazione irregolare e ha descritto chi si oppone come degli “ingenui buonisti”. Il governo di Rishi Sunak insiste sul fatto che questa politica sia necessaria per fermare gli attraversamenti, troppo spesso mortali, della Manica, affermando che l’accordo colpirà le fondamenta del business model delle reti di trafficanti di esseri umani. Se questo basterà a fermare le partenze è molto dubbio; fino a questo momento, non si è mai riscontrata una correlazione concreta tra politiche più dure contro le migrazioni irregolari e calo delle partenze. Le motivazioni che spingono le persone a partire sono molteplici e, dunque, è difficile che agendo solo sulla deterrenza ci possano essere dei reali risultati. La ricollocazione dei richiedenti asilo in un altro Paese, piuttosto che risolvere il problema, lo sposta lontano dagli occhi.
Cina: l’era di Xi Jinping
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
Le “due sessioni” ribadiscono quello che era stato già affermato al XX Congresso di Ottobre: la Cina è nell’era di Xi Jinping. Dopo aver rotto una delle più solide consuetudini dalla morte di Mao Zedong, ricevendo un terzo mandato da Segretario Generale del Partito, Xi è appena stato eletto dall’Assemblea Nazionale del Popolo – anche in questo caso per la terza volta – Presidente della Repubblica Popolare Cinese. 2952 voti a favore, nessuno contrario; è stata una pura formalità. Continuerà, almeno per i prossimi 5 anni, a mantenere i tre scettri del potere – controllo del Partito, dell’esercito e dello stato – senza nessun rivale o potenziale successore in vista.
L’altra grande nomina di questo weekend è quella di Li Qiang come nuovo premier, prendendo il posto di Li Keqiang. Anche in questo caso non ci sono sorprese rispetto a quello che ci si aspettava, tutto era già stato predisposto durante il XX Congresso. La sua nomina ci dice tanto sulla Cina di Xi Jinping, dove la lealtà è tornata ad essere privilegiata sulla competenza. Li Qiang è un fedelissimo di Xi e questo è il motivo principale per cui è diventato prima numero due del partito e, adesso, Primo Ministro. Non ha esperienze di governo a livello nazionale e la gestione della Pandemia a Shangai, dove era capo del partito, è stata caotica. Ciononostante, la sua fedeltà a Xi lo ha premiato. Dovrà guidare la politica economica del Paese e raggiungere il modesto target del 5% di crescita che è stato individuato durante le “due sessioni”. Se da un lato la situazione economica che dovrà gestire è un puzzle molto complesso – tra crisi del mercato immobiliare, rallentamento delle esportazioni, aumento del debito, disoccupazione giovanile elevata e la minaccia di sanzioni economiche paralizzanti da parte degli Stati Uniti e dei loro alleati – è molto probabile che si ritrovi, principalmente, a portare avanti le idee di Xi Jinping.
Un’inversione di tendenza
Oggi, a posteriori, si può notare come l’accentramento dei poteri sia qualcosa che Xi ha portato avanti fin dal primo anno in cui salì al potere. Poco dopo essere diventato leader nel 2012, dichiarò che il Partito Comunista era pericolosamente corrotto dal denaro e sempre più lontano dalla vita quotidiana e dalle necessità della massa. Ha iniziato così un graduale processo per riaffermare l’autorità del partito su ogni aspetto della vita pubblica. Lo ha fatto invertendo delle tendenze che, sempre sotto il velo autoritario, erano state avviate dopo i duri anni di Mao, quando la fedeltà al leader e il fervore ideologico avevano avuto la precedenza sul buon governo. Dal 1976, si lavorò per separare, almeno parzialmente, il partito dallo Stato. Venne dato maggiore spazio alle imprese, agli agricoltori e ai dirigenti delle fabbriche. L’artefice di questo cambiamento fu Deng Xiaoping che, pur non essendo decisamente un liberale, avvertì pubblicamente che “l’eccessiva concentrazione del potere può dare origine a un dominio arbitrario da parte degli individui”. Agli inizi degli anni ‘90, i riformatori cinesi parlavano di “partito d’avanguardia”, un partito più piccolo e agile volto a stabilire una linea ideologica generale, senza cercare di controllare tutto. Il potere fu decentralizzato ai governi locali e gli imprenditori ammessi nel Partito, per essere cooptati piuttosto che esclusi. Questo processo è stato alla base del “capitalismo con caratteristiche cinesi” che ha portato la Cina in vetta al mondo, trasformandola in meno di 50 anni in un polo di potere concorrenziale agli Stati Uniti. Poi è arrivato Xi, e le cose sono cambiate. Dopo 11 anni sotto la sua leadership, il ritorno di un completo controllo del Partito sulla società e l’economia cinese.
La politica estera assertiva
La Cina di Xi ha ormai, un po’ per scelta sua e un po’ per scelta degli altri attori internazionali, abbandonato il suo basso profilo. A livello internazionale Pechino è assertiva, non abbassa la testa, traccia linee rosse invalicabili e rivolge accuse aperte agli Stati Uniti. Dalle “due sessioni” non emergeranno cambi di postura, anzi, i toni usati da Xi e dal neo-designato Ministro degli Esteri Qin Gang sono tutt’altro che proni ad una de-escalation: “Se gli Stati Uniti non frenano ma continuano ad accelerare sulla strada sbagliata, ci saranno sicuramente conflitti e scontri. Chi ne sopporterà le conseguenze catastrofiche?” ha detto Qin. Sono parole molto dure ed inusuali per la leadership cinese, che generalmente preferisce mantenere dei toni più pacati. In un discorso ai delegati della Conferenza Politica Consultiva del Popolo Cinese, la sessione che si svolge in parallelo a quella dell’Assemblea Nazionale del Popolo, Xi ha criticato il “contenimento, l’accerchiamento e la soppressione della Cina” messa in atto dagli Usa. Ha detto che la Cina deve “avere il coraggio di combattere mentre il Paese si trova ad affrontare profondi e complessi cambiamenti nel panorama interno e internazionale”.
Xi ha chiarito anche che non intende fare passi indietro sulla questione Taiwan, considerata da sempre solo ed esclusivamente interna, ma che è al centro delle tensioni con gli Stati Uniti. La riunificazione con Taiwan è una priorità della sua leadership e per ottenerla, non si esclude l’uso della forza. L’opzione di un’invasione della Cina Repubblicana non è più vista come improbabile da Washington; il mese scorso William Burns, capo della CIA, ha dichiarato di essere a conoscenza “per una questione di intelligence” che Xi abbia ordinato all’esercito di tenersi pronto a invadere Taiwan entro il 2027.
La questione economica
Il contesto internazionale e i rapporti di Pechino con gli Stati Uniti non sono solo una questione politica, ma anche, soprattutto, economica. La rivalità con gli Usa e la crisi dell’integrazione economica in risposta al deterioramento della sicurezza globale, rende tutto più complicato per la Cina. La globalizzazione è stata il motore della crescita cinese per oltre 30 anni, ma il clima ostile che si è creato con l’Occidente obbliga il Dragone a dei profondi ripensamenti. Per ridurre al minimo le vulnerabilità esterne della Cina, nei suoi discorsi di questa settimana, Xi ha ri-sottolineato la necessità di ridurre la dipendenza dalle tecnologie e dalle competenze occidentali e di rafforzare il Paese contro le minacce alla sua sicurezza alimentare ed energetica. Alle pressioni ed i sabotaggi esterni, però, si uniscono i problemi interni dell’economia cinese, tra questioni non affrontate in passato – come un mercato immobiliare fragile, sorretto a suon di incentivi statali, e un debito in continuo aumento – e problemi emersi più recentemente, come la crescente disoccupazione giovanile. Le proteste del 2022 durante il Covid e quelle più recenti dei pensionati avvertono che per mantenere la stabilità sociale interna è fondamentale dare ai cinesi delle buone prospettive, che tengano in vita il contratto sociale che lega Partito e popolo: fedeltà in cambio di benessere. Zeng Xiangquan, direttore del China Institute for Employment Research di Pechino, aveva affermato a fine 2022 che “l’aggiustamento strutturale che l’economia cinese sta affrontando in questo momento ha bisogno di un maggior numero di persone che diventino imprenditori e si impegnino”. Ovvero, per compiere la transizione in atto nel Paese – da un’economia fondata sulle industrie low skill ad una fondata sull’innovazione tecnologica, i servizi e il consumo – serve un settore privato forte e fiorente. Al contrario Xi, continua ad intensificare il dirigismo statale sull’economia. Dalle “due sessioni” è emersa l’istituzione di una nuova amministrazione nazionale di regolamentazione finanziaria – che rafforzerà il controllo del Partito sulle politiche finanziarie del Paese e sulle holding, come il gigante fintech Ant Group – e di una nuova agenzia governativa per centralizzare la gestione dei dati. Il tutto è coerente con un approccio che prosegue ormai da diversi anni, che ha visto un progressivo inasprimento della regolamentazione dei settori dominati dai privati e il sanzionamento di diverse grandi aziende, come Didi Chuxing e Alibaba, diventate troppo potenti. Nella Cina di Xi il settore privato deve servire le priorità del partito. L’economia rimane una priorità, ma al di sotto dell’ideologia.
Cina: inizia l’evento legislativo annuale più importante della politica cinese
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
Arrivando circa un mese dopo il capodanno Cinese, le “due sessioni” sono un momento per fare il punto sull’anno appena concluso e pianificare il nuovo. Pechino viene da un anno molto complesso, sia dal punto di vista interno che delle relazioni internazionali. Il covid ha segnato tutto il 2022, mettendo a dura prova la stabilità sociale e l’economia. Le proteste, che sono seguite alle dure politiche attuate dal governo per contenere il virus, sono state qualcosa di estremamente raro, sviluppandosi su scala nazionale e mettendo esplicitamente in discussione Xi e l’establishment. La crescita economica è stata la più bassa dal 1976, con il Pil che è cresciuto appena del 3%, ben sotto il target del 5,5% fissato dal governo. Il Paese si è dovuto misurare con altre grandi sfide interne, che rimangono tutt’oggi dei nodi da sciogliere per continuare l’ascesa: la crisi del settore immobiliare, da sempre uno dei principali motori di crescita della Cina post Mao, e il declino demografico. Alle dinamiche interne si è aggiunta l’instabilità del contesto internazionale, che ha visto gli Stati Uniti e gli altri Paesi occidentali assumere atteggiamenti sempre più diffidenti e ostili verso Pechino, identificata ormai non più come un competitor ma come una vera e propria minaccia sistemica.
Le nomine
Ci sono tanti temi sull’agenda, a partire dal rinnovo di diverse cariche statali. Il processo di rigenerazione del Partito e delle istituzioni è iniziato già ad ottobre al XX Congresso e proseguirà sulla stessa linea, continuando l’accentramento del potere su Xi Jinping. Il nuovo timoniere è già reduce da un inedito terzo mandato come leader del PCC ed è pronto, adesso, ad assumere un terzo mandato anche per la presidenza della Repubblica Popolare Cinese. Il suo fedelissimo, Li Qiang, si appresta invece a diventare premier; dopo essere stato elevato a numero due del partito, salvo improbabili sorprese, prenderà il posto dell’uscente Li Keqiang. Il fatto che Qiang diventi premier è qualcosa di insolito, dal momento che gli manca l’esperienza come vicepremier nel Consiglio di Stato Cinese che gestisce i portafogli del governo centrale. Inoltre, nel suo curriculum c’è anche una macchia non indifferente legata alla gestione della crisi Covid a Shanghai, dove Li era il capo del partito. Ciononostante, Li Qiang è riuscito comunque a scalare le gerarchie, dimostrando che la lealtà ricompensa. Se da un lato lo aspetta un ruolo complesso, essendo in quanto premier incaricato della politica economica della Cina, dall’altro è probabile che svolgerà un ruolo meramente attuativo delle politiche di Xi. Per il 2023, secondo analisti e fonti statali riportate da Reuters, è probabile che venga fissato un target di crescita molto ambizioso, tra il 5 e il 6%.
Un’altra importante nomina potrebbe riguardare Wang Huning. E’ il quarto membro più alto in gerarchia del Comitato Permanente del Politburo, considerato l’architetto del “sogno cinese”, nonché uno dei più grandi teorici politici della recente storia del Paese. Molto probabilmente, sarà lui il nuovo presidente della Conferenza Consultiva Politica del Popolo. In tal caso, diventerebbe anche il vicepresidente del Gruppo Dirigente Centrale per gli Affari di Taiwan. Si dice che sia stato incaricato da Xi di elaborare una nuova strategia per la riunificazione con Taipei.
Il governatore della banca centrale Yi Gang, un rinomato “funzionario studioso” che ha insegnato economia negli Stati Uniti, sarà probabilmente sostituito da Zhu Hexin, un banchiere veterano dal profilo accademico meno prestigioso. He Lifeng, un altro fedelissimo di Xi, potrebbe essere il nuovo vicepremier e anche segretario del Partito Comunista presso la banca centrale – entrambi sono ruoli cruciali per l’indirizzo economico della Cina.
I temi e le politiche
Parlando di policies, con la crescita e la ripresa economica in primo piano nell’agenda per il 2023, è lecito aspettarsi che molti dei cambiamenti legislativi e delle politiche annunciate durante le “due sessioni” si focalizzeremo sulla promozione dello sviluppo industriale, della produzione e dei consumi. Potrebbero seguire politiche mirate a sostenere i settori strategici che il governo ha interesse a far crescere, come quello high tech, sanitario, dei semiconduttori, della tecnologia green – in cui Pechino è già molto avanti – e l’agricoltura, puntando a migliorare la sicurezza alimentare e l’autosufficienza. Ci si aspetta anche che continui la stretta sul controllo normativo sui privati, sulle società internet e tecnologiche. Negli ultimi anni, il governo ha compiuto diverse mosse che hanno fatto intendere la volontà di ri-aumentare il suo ruolo attivo come pilota dello sviluppo economico della Cina. Sempre sotto quest’ottica dirigista, si è parlato anche della possibilità che sia riesumata la Commissione Centrale per il Lavoro Finanziario, abolita nel 2003. Vorrebbe dire mettere sotto stretto controllo del partito tutte le questioni legate alla regolamentazione finanziaria, intensificando ulteriormente il controllo sul settore privato.
Coerentemente con il trend globale, è quasi certo che la Cina aumenterà la percentuale di spesa dedicata al settore militare.”La modernizzazione delle forze armate cinesi non costituirà una minaccia per nessun Paese”, ha dichiarato ai giornalisti Wang Chao, portavoce dell’Assemblea Nazionale del Popolo. Negli ultimi anni, Pechino ha costantemente rivolto sempre più risorse allo sviluppo militare, arrivando nel 2022 a raggiungere i 230 miliardi di dollari. Secondo i media di stato, la guerra in Ucraina, il graduale riarmo del Giappone, le tensioni sulla questione di Taiwan e la competizione regionale con l’India motivano la corsa agli armamenti cinese. Inoltre, si avvicina il 2027, ovvero l’anno che segnerà i 100 anni di storia dell’Esercito Popolare di Liberazione; Xi ha sempre sottolineato di voler arrivare a quella data con un esercito forte e moderno, pronto a qualsiasi eventualità.
Per quanto riguarda il calo demografico, diversi delegati dell’NPC e del CPPCC hanno avanzato varie proposte politiche, negli ultimi giorni, che puntano a ri-alzare il tasso di natalità nel Paese, nonostante il trend negativo sia considerato da molti irreversibile. Un membro del CPPCC ha dichiarato questa settimana al Global Times che la Cina dovrebbe rimuovere le restrizioni sullo stato civile utilizzate per registrare i nuovi nati, consentendo alle donne non sposate di usufruire dei servizi per la fertilità come le donne sposate. Un altro membro del CPPCC, Gan Huatian, ha affermato che il congedo di paternità dovrebbe essere aumentato per far sì che gli uomini condividano le responsabilità genitoriali, mentre un altro ha detto che le famiglie che hanno un terzo figlio nato dopo il 2024 dovrebbero ricevere un’istruzione universitaria gratuita. Inoltre, inerentemente all’istruzione, è probabile si lavori nella direzione di incentivare ulteriormente un’educazione coerente con i valori supportati dal Partito.
L’India presiede il G20 con lo slogan “una terra, una famiglia, un futuro”
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
I due giorni di riunione — 24 e 25 febbraio — del G20 dei ministri delle finanze a Bangalore, India, si sono conclusi senza una “dichiarazione condivisa”, bloccandosi sui due grandi temi principali: l’invasione russa dell’Ucraina e la crisi del debito che sta colpendo diversi Paesi in via di sviluppo. I problemi sono emersi, soprattutto, in relazione alla guerra, arrivata ormai al suo primo anniversario. La mancanza di un pieno consenso tra i membri ha fatto sì che l’India sia ricorsa alla pubblicazione di un “riassunto della presidenza” in cui si è limitata a riassumere i due giorni di colloqui e a prendere atto dei disaccordi. “La maggior parte dei membri ha condannato con forza la guerra in Ucraina e ha sottolineato che sta causando immense sofferenze umane e sta esacerbando le fragilità esistenti nell’economia globale”, ha dichiarato, citando l’interruzione delle catene di approvvigionamento, i rischi per la stabilità finanziaria e la continua insicurezza energetica e alimentare.
Il Presidente Indiano Narendra Modi aveva chiesto esplicitamente di evitare la discussione di ulteriori sanzioni alla Russia o utilizzare la parola “guerra” nei comunicati del meeting. Ciò, però, non è stato ben accolto dagli Usa e tutto il blocco G7, che ha ribadito fermamente la condanna alle azioni russe. Diverse sono, invece, le posizioni delle economie emergenti, come la stessa India, la Cina, il Brasile, il Sudafrica e l’Arabia Saudita. Dall’inizio della guerra, vari Paesi in via di sviluppo hanno cercato di mantenere una posizione più neutrale, a favore dei loro interessi economici e politici. L’India, la Cina e il Sudafrica sono state anche tra quelle nazioni che si sono astenute giovedì 23, quando le Nazioni Unite hanno votato a stragrande maggioranza per chiedere a Mosca di ritirare le truppe dall’Ucraina e mettere fine ai combattimenti.
L’altra grande discussione riguarda la sostenibilità del debito che coinvolge diversi Paesi del Sud Globale, come lo Zambia, lo Sri Lanka, il Bangladesh o il Pakistan. Come sempre quando si parla di debito, una grande attenzione è stata riservata alla Cina, il più grande creditore bilaterale del mondo. Secondo i dati governativi, lo Zambia doveva a Pechino 6 miliardi di dollari — su un debito estero totale di 17 miliardi di dollari — alla fine del 2021, mentre il Ghana, sempre alla fine dello stesso anno, doveva alla Cina 1,7 miliardi di dollari, secondo l’International Institute of Finance. Lo Sri Lanka, alla fine del 2022, aveva un debito con la Cina di circa 7,4 miliardi di dollari, ovvero quasi un quinto del suo debito pubblico estero, secondo il China Africa Research Initiative.
Gli Stati Uniti hanno ripetutamente criticato la Cina per quello che considerano un “ritardo” nella riduzione del debito di decine di Paesi a basso e medio reddito. La Cina, invece, ha invitato il G20 a condurre un’analisi equa, obiettiva e approfondita delle cause alla radice del debito globale e a risolvere il problema in modo corale ed efficace. In un discorso video alla riunione di venerdì 24 febbraio, il Ministro delle Finanze cinese Liu Kun ha ribadito la posizione di Pechino: la Banca Mondiale e le altre banche multilaterali di sviluppo dovrebbero partecipare alla riduzione del debito, affiancando le loro azioni a quelle dei creditori bilaterali.
Dello stesso parere è anche il Primo Ministro del Paese ospitante Narendra Modi che ha commentato, durante un suo intervento video, come “la fiducia nelle istituzioni finanziarie internazionali si è erosa” a causa della lentezza di queste nell’abbracciare le riforme necessarie. “Anche se la popolazione mondiale ha superato gli otto miliardi, i progressi sugli obiettivi di sviluppo sostenibile sembrano rallentare” ha dichiarato Modi.
La presidenza dell’India al G20
Il tema della presidenza indiana del G20 è “Vasudhaiva Kutumbakam” — tradotto vagamente come “Il mondo è una sola famiglia” o, come dice il governo indiano sul sito web del G-20, “Una terra – Una famiglia – Un futuro”. L’India supporta un mondo multipolare e la sua presidenza arriva in un momento di grande ascesa per il Paese, sia dal punto di vista economico che politico-strategico. Nuova Delhi si considera una potenza, regionale e globale, autonoma. È alleata degli Stati Uniti nell’ambito del Quad con Giappone e Australia per opporsi alla Cina, ma è anche capace di disallinearsi da Usa e Occidente sulla questione russa per perseguire i propri interessi. L’instabilità dell’ordine internazionale, che ha seguito l’invasione russa dell’Ucraina, le ha conferito un ruolo strategico per gli equilibri mondiali. La sua adesione ad una fazione piuttosto che all’altra può fortemente cambiare le carte in tavola, dato che il Paese non solo si appresta a diventare il più popoloso del mondo, ma è anche una forza nucleare, con un esercito numeroso ed equipaggiato, nonché un’economia in forte crescita. La presidenza del G20 è un momento importante per mostrarsi una potenza responsabile, spingendo alla riconciliazione tra le grandi superpotenze, oggi ostili, e ad una maggiore inclusione delle economie emergenti. Come si è visto nei meeting di Bangalore, però, il compito di mediatore è estremamente difficile.
Social media: il team Jorge, i mercenari della disinformazione
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
Una grande inchiesta giornalistica ha svelato l’operato di un’agenzia israeliana ultra segreta che dice di avere influenzato decine di elezioni ed eventi politici in tutto il mondo
Il 5 settembre del 2017 a Bangalore, la capitale dello stato indiano meridionale di Karnataka, viene uccisa una giornalista. Si chiama Gauri Lankesh, ha 55 anni e sta lavorando ad un editoriale molto importante. Il titolo del pezzo è Nell’era delle notizie false e indaga su come le “fabbriche di menzogne” — siti web che spargono e alimentano fake news e mezze verità — stanno diffondendo disinformazione in India. Nel 2018, appena un anno dopo la sua morte, scoppia il caso di Cambridge Analytica, la società britannica che ha acquistato i dati di circa 87 milioni di utenti Facebook per influenzare gli elettori nel mondo. Le sue attività sono state associate ad eventi come l’elezione di Donald Trump nel 2016 negli Usa o il voto sulla Brexit negli Uk. Tutto ciò mostrò al mondo un problema che iniziava ad essere percepito, ma che ancora si faticava a delineare concretamente: internet, e nello specifico i social media, erano diventati un’arma per influenzare la politica mondiale.
Mercoledì 15 Febbraio, il consorzio giornalistico di Forbidden Stories — una no profit francese con la missione di continuare il lavoro di giornalisti uccisi o incarcerati — ha pubblicato un’inchiesta che racconta come la manipolazione e la distorsione di informazioni sul web sia, oggi, più presente che mai. L’inchiesta è partita dal lavoro di Gauri Lankesh e fa parte del progetto Story Killers, un’indagine su scala globale per fare luce sul mondo opaco dei mercenari della disinformazione. La protagonista dell’inchiesta è una società ultra segreta israeliana — soprannominata “team Jorge” — che avrebbe offerto servizi di hackeraggio informatico e diffusione di disinformazione a pagamento, per influenzare elezioni ed eventi politici in tutto il mondo.
Il capo della società è Tal Hanan, un uomo di origini israeliane, che agisce sotto lo pseudonimo Jorge, da cui ha preso nome l’operazione. Tre giornalisti del consorzio — uno di Radio France, uno del giornale israeliano Haaretz e uno del sito TheMarker — si sono presentati, sotto copertura, come dei potenziali acquirenti dei servizi offerti dalla sua azienda. Tra luglio e dicembre del 2022, i giornalisti lo hanno incontrato quattro volte, tre online ed una nel suo ufficio a Modi’in-Maccabim-Re’ut, la città dove ha sede gran parte dell’industria high-tech israeliana.
I metodi della manipolazione e disinformazione
Hanan ha detto ai giornalisti in incognito che i suoi servizi, chiamati anche “operazioni nere”, sono a disposizione di agenzie di intelligence, attori politici e aziende private interessate a manipolare segretamente l’opinione pubblica. Ha detto che sono stati utilizzati in Africa, America meridionale e centrale, Stati Uniti ed Europa. I metodi utilizzati sono principalmente due: hackeraggio e diffusione di disinformazione online, soprattutto tramite la manipolazione automatizzata dell’opinione pubblica sui social network.
Per quanto riguarda il primo, Tal Hanan sostiene di riuscire ad entrare negli account di posta elettronica Gmail e di messaggistica Telegram delle vittime selezionate, ad esempio politici e funzionari. Durante l’incontro, ha mostrato come fosse in grado di hackerare il profilo di alcuni funzionari politici molto vicini al nuovo presidente kenyota William Ruto. Il Kenya, dunque, potrebbe essere stato uno dei target delle azioni del team Jorge. Se fosse vero, seppur non sia stata impedita la vittoria di Ruto e il trasferimento pacifico della presidenza, la rivelazione evidenzia i potenziali rischi a cui sono esposte le istituzioni democratiche, ancora più insidiosi nel continente africano dove la democrazia, spesso, è fragile.
Il secondo metodo, invece, si basa su una tecnologia propria del “team Jorge” chiamata Aims (Advanced Impact Media Solutions) capace di creare migliaia di account falsi sulle principali piattaforme online, come Instagram, Twitter, LinkedIn, Facebook o YouTube. Questi account falsi possono poi essere manovrati a piacimento per veicolare messaggi, diffondere contenuti di disinformazione e, dunque, cercare di influenzare l’opinione pubblica. Nel 2022, Hanan ha detto che le capacità del software sono cresciute notevolmente. Oggi, controllerebbe un esercito di oltre 30.000 avatar (o bot); ognuno di essi ha la propria, fasulla, storia digitale creata negli anni. Ce ne sono di ogni nazionalità, genere ed età. Durante l’incontro con i giornalisti, per far vedere come funzionasse la tecnologia, ha creato un esempio: ha scelto l’immagine di una donna bianca britannica, l’ha chiamata Sophia Wilde, ha creato la mail, la data di nascita e tutto il necessario a farla sembrare un utente vero. Hannan ha detto di aver usato questi sistemi per influenzare le elezioni di 33 Paesi, e che in 27 casi il loro lavoro avesse raggiunto l’obbiettivo desiderato. Non si può sapere se queste informazioni siano vere o esagerate per fare buona impressione con i (finti) clienti.
L’insidia della manipolazione di notizie sui social network
“Le cose non devono necessariamente essere vere, purché siano credute”. Questa citazione è di Alexander Nix, l’ex CEO di Cambridge Alytica, e racchiude bene il grande problema che rappresenta oggi la disinformazione. Quest’ultima c’è sempre stata, ma il web l’ha resa più insidiosa. Le fake news sui social network si diffondono, come ogni notizia, ad una velocità impressionante. Rimbalzano così tante volte in rete che diventa impossibile risalire alla loro origine, tracciarne il percorso e convincere chi le ha lette, e ci ha creduto, che si è trattato di informazioni sbagliate o manipolate. La creazione di bot rende questo processo ancora più complesso: oltre ad amplificare la diffusione della notizia in questione, è possibile influenzare l’opinione delle persone; sui social molti individui, come anche nella realtà, sono fortemente influenzati dalla massa. Se vedono mille commenti negativi su una determinata questione è possibile che ne vengano influenzati e inizino a vederla anch’essi negativamente.
Tutto ciò ci riporta ad un punto focale, ovvero il ruolo dei social media — e più in generale del web — nella geopolitica. Oggi, i social sono un’arma digitale estremamente potente. Se da un lato mantengono il loro ruolo cruciale nel supportare la libertà di espressione e dibattito nel mondo, rivelandosi decisivi in contesti politici dove la libertà è soppressa, essi sono anche sempre più utilizzati per manipolare la politica e le persone. Ciò è fatto per fini di controllo e coercizione, sia da attori appartenenti ad istituzioni politiche che da privati individui o aziende. Diventa fondamentale quindi prendere coscienza che i social non sono più solo uno strumento di emancipazione e libertà, ma in certi casi rappresentano una sfida aggiuntiva per le democrazie.
Hong Kong: è iniziato il processo contro l’opposizione democratica
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
Lunedì 6 febbraio, si è aperto il più grande processo di Hong Kong legato alla legge di sicurezza nazionale, promulgata nel 2020. Si dovranno difendere dalle accuse 47 dei più noti attivisti pro-democrazia della città; molti rischiano l’ergastolo. Si tratta di un processo emblematico, non solo per le dimensioni e per le motivazioni che lo reggono, ma a causa delle potenziali conseguenze: potrebbe segnare la fine dell’opposizione politica in un territorio prima vibrante e libero.
Alcuni sono politici e leader di protesta veterani. Altri sono accademici, sindacalisti e operatori sanitari. Provengono da generazioni diverse, hanno opinioni politiche diverse, ma sono stati uniti da un impegno comune per il futuro democratico di Hong Kong. I “47 di Hong Kong” — l’appellativo con cui sono divenuti noti — sono stati arrestati nel gennaio 2021, in seguito alla grande retata della polizia, ai sensi della legge sulla sicurezza nazionale. La maggior parte degli imputati è rimasta da quel momento da quel momento — quindi per due anni — in in detenzione preventiva. Tra i tanti nomi noti che si dovranno difendere ci sono l’attivista Joshua Wong — uno dei volti più giovani e famosi delle proteste pro democrazia, cofondatore del partito Demosistō — la giornalista diventata poi avvocato Claudia Mo, l’attivista e cofondatore della Lega dei Socialdemocratici “Capelli lunghi” Leung Kwok-hung, nonchè l’ex giornalista cinese della BBC Gwyneth Ho. Sono stati accusati di cospirazione al fine di sovvertire il potere dello Stato. La loro colpa è di aver organizzato o partecipato alle primarie, nel luglio 2020, per eleggere chi avrebbe rappresentato l’opposizione democratica alle prossime elezioni legislative. In quel caso più di 600 mila persone espressero il loro voto, considerato dall’accusa un tentativo di “paralizzare” il governo di Hong Kong. Oggi, il Consiglio Legislativo è interamente occupato da partiti pro-Pechino.
John Burns, professore emerito dell’Università di Hong Kong, ha dichiarato che il processo ai democratici è una “prova di forza” della capacità del Partito Comunista Cinese di eliminare completamente l’opposizione organizzata nell’ex colonia britannica. Che sia tramite l’esilio o l’incarcerazione, l’opposizione deve essere smantellata: “È un processo di eliminazione. Chiudendo i partiti politici, chiudendo i sindacati, si sta eliminando la base del sostegno all’opposizione organizzata”, ha detto Burns.
Due anni sotto la legge di sicurezza nazionale hanno snaturato Hong Kong
“Un Paese, due sistemi” è la formula che, fino al 2020, aveva delineato le relazioni tra Pechino e Hong Kong. Fu una decisione risalente ancora a Deng Xiaoping, una soluzione politica ai negoziati tra Regno Unito e Cina per riportare l’ex colonia sotto il controllo della Repubblica Popolare. L’accordo, ratificato nel 1985, rappresenta a pieno la pragmaticità che contraddistinsero Deng e le sue riforme: da un lato si rimaneva fedeli al principio “una sola Cina”, dall’altro si preservavano l’immagine internazionale di Pechino e le sue relazioni. Fu deciso che dal 1997 la Cina avrebbe riacquistato la sovranità su Hong Kong, ma avrebbe trattato quest’ultima come una provincia speciale, almeno fino al 2047, non applicando le leggi e le politiche in vigore nella Cina continentale.
Da quando fu fatto l’accordo, però, sono cambiate molte cose in Cina, sia a livello interno che nel modo in cui quest’ultima si rapporta al sistema internazionale. Un attore chiave di questo cambiamento è senza dubbio Xi Jinping che, da quando è salito al potere nel 2012, ha ridimensionato la politica estera e domestica del Paese. Maggior controllo dentro i confini e maggiore assertività all’estero. Il risultato è stato un drastico cambio di passo nei confronti di due realtà che, per quanto dalla Cina siano considerate solamente una questione nazionale, attraversano politica estera e interna: Hong Kong e Taiwan. A crollare per prima è stata quella più fragile, la regione amministrativa speciale, che a livello giuridico e pratico era già parte della Repubblica Popolare Cinese.
Ad Hong Kong si è costruita nel tempo una solida identità che rende difficile per i cittadini accettare di dover cedere le libertà democratiche con cui sono cresciuti.
Nel settembre 2014, migliaia di persone scesero in strada per protestare contro le modalità di scelta, definite da Pechino, per eleggere il capo di governo della regione amministrativa speciale. Da quel momento si sono susseguite diverse ondate di protesta, fino ad arrivare a quelle del 2019-2020, a cui è seguita la promulgazione della legge sulla sicurezza nazionale. In prima linea ci son sempre state le nuove generazioni, di cui fa parte anche Joshua — oggi imputato — che quando divenne simbolo della protesta degli ombrelli aveva solo 17 anni. La protesta però era di tutti, prescindendo da età o classe sociale.
La vita ad Hong Kong dopo l’applicazione della legge sulla sicurezza nazionale è cambiata radicalmente. La stretta di Pechino sull’autonomia della provincia si è fatta sempre più forte ed intrusiva. Le autorità hanno stroncato la libertà degli organi di informazione pro-democrazia come Apple Daily e Stand News, costretti a chiudere dopo che la polizia ha fatto irruzione nei loro uffici arrestando il personale. Circa il 20% dei lavoratori dei media in lingua cinese di Hong Kong ha perso il lavoro a causa della repressione. I media in lingua inglese, come l’Hong Kong Free Press e il South China Morning Post, di proprietà dell’azienda continentale Alibaba, producono ancora contenuti indipendenti, ma sono sempre più controllati. Se da un lato chiudono le testate libere, aumentano sempre di più quelle portatrici della propaganda di partito.
La soppressione delle libertà coinvolge ogni aspetto della società: le autorità hanno vietato gli slogan politici, censurato l’arte e perseguitano le attività commerciali a favore della democrazia. Il tutto è fatto secondo un’interpretazione estensiva della legge di sicurezza nazionale, che fa rientrare qualsiasi espressione pro-democrazia nelle categorie di secessione, sovversione e terrorismo.
La Repubblica Popolare Cinese ha cercato di cancellare anche la memoria cittadina degli eventi di piazza Tienanmen del 1989. Da quando è entrata in vigore la legge sulla sicurezza, la veglia annuale a Victoria Park per l’anniversario — che cade il 4 giugno — è stata vietata e l’area sottoposta a un intenso controllo della polizia. Le autorità hanno anche rimosso le statue in memoria del massacro di Tiananmen dalle varie università.
Il crescente controllo del Partito comunista Cinese sulla vita di Hong Kong mette in discussione anche il ruolo della città nell’economia e nella finanza globale. Sono sempre di più le aziende cinesi nel territorio, mentre calano quelle straniere. Con Hong Kong sempre più nell’orbita dell’autoritarismo di Xi, la città perde il suo aspetto ibrido che, fino a poco tempo fa, era sempre stato il suo grande punto di forza per attrarre investimenti esteri.
Pechino sa che per tenere a bada Hong Kong serve il pugno duro. L’identità della provincia speciale è forte e chi è cresciuto libero difficilmente accetta silente che tale libertà gli venga tolta. Xi, inoltre, è reduce da grandi proteste che hanno minato la stabilità interna della Cina. Per evitare che la situazione sfugga di mano e che chi chiede democrazia nel Paese, sia esso nella parte continentale o a Hong Kong, si facciano forza a vicenda, occorre una politica dura e intransigente che colpisca le basi dell’ opposizione democratica.
Myanmar: a due anni dal golpe, la giunta militare proroga lo stato di emergenza ed estende la legge marziale
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
Sono passati ormai 2 anni da quando il Tatmadaw, l’esercito del Myanmar, si è ripreso il potere. A partire dal 2010, la Birmania — il nome preferito dai locali per identificare il proprio Paese — aveva iniziato un processo di democratizzazione e graduale marginalizzazione dell’esercito nella politica. La Lega Nazionale per la Democrazia (NLD) era il partito che più rappresentava questo processo e Aung San Suu Kyi il suo leader indiscusso, nonché simbolo della lotta contro i militari. A due anni dal golpe, tutti i membri del parlamento e del governo eletti democraticamente sono stati arrestati; chi è riuscito a fuggire ha lasciato il Paese, oppure si è unito alla guerriglia con il Governo di Unità Nazionale (NUG), un esecutivo ombra formato da membri della NLD e della società civile.
La sera di mercoledì 1 febbraio, alla vigilia dei 2 anni dal colpo di stato, i media statali hanno annunciato che i membri del Consiglio Nazionale di Difesa e Sicurezza del Myanmar (NDSC) hanno deciso di estendere lo stato di emergenza e il mandato della giunta guidata da Min Aung Hlaing per altri sei mesi. Inoltre, la giunta ha esteso la legge marziale in 37 comuni del Paese per far fronte agli attacchi delle forze di resistenza. Il capo del Tatmadaw ha presentato ai membri del Consiglio un report che riflette sui due anni di governo militare, concludendo che il Paese rimane in circostanze “straordinarie” e “non è ancora tornato alla normalità”. Per motivare la proroga è stata citata la sezione 425 della Costituzione: essa afferma che “se il Comandante in Capo dei Servizi di Difesa presenta la proroga della durata prescritta, motivando le ragioni per cui non è stato in grado di svolgere i compiti assegnati”, l’NDSC può “consentire due proroghe della durata prescritta per un periodo di sei mesi per ciascuna proroga”. Lo stato di emergenza era stato dichiarato il giorno del golpe, nel 2021, da quel momento vi sono state due proroghe che hanno portato alla sua estensione fino a mercoledì 1 febbraio 2023, giorno in cui, in teoria, è scaduta. Si dice in teoria perché, nella pratica, ciò non ha impedito alla giunta di estendere per una terza volta la proroga dello stato di emergenza. Min Aung Hlaing ha ripetuto la solite giustificazioni per il colpo di Stato, citando accuse infondate di frode elettorale nelle elezioni generali del 2020, vinte in modo schiacciante dalla Lega Nazionale per la Democrazia (NLD).
Come procedono gli scontri tra la giunta militare e la resistenza democratica?
In Birmania si combatte una vera e propria guerra civile tra le forze democratiche del NUG — considerate dal governo come ribelli — e quelle del regime golpista del Tatmadaw. Il numero di prigionieri politici ha superato i 13 mila, si stima che oltre 1700 persone siano state processate senza poter essere assistite da un avvocato e circa 140 condannate a morte in processi a porte chiuse. Nonostante la grande disparità di addestramento ed equipaggiamento, le forze a supporto della democrazia riescono, da ormai due anni, a mettere in grande difficoltà il Tatmadaw, che tutt’ora non controlla diverse aree del Paese, governate invece dal NUG. Alla resistenza, però, manca un leader carismatico e una struttura che metta ordine tra le diverse forze in campo. Attualmente, si possono identificare tre gruppi armati principali, alcuni sono controllati dal NUG, altri agiscono più indipendentemente: le forze di difesa del popolo (PDF), Forze di Difesa Locali (LDF) e Squadre di Difesa del Popolo (PDT). Le PDF sono unità armate abbastanza grandi che operano, principalmente, sotto sistemi di comando congiunti stabiliti dal NUG e da altre organizzazioni etniche armate, molte delle quali combattono i militari della giunta da decenni; le LDF sono milizie che operano autonomamente a livello locale, spesso perseguendo missioni proprie e separate da quelle del NUG; le PDT sono unità di guerriglia localizzate, formate per scopi di difesa e sicurezza locale. Le PDF sono le unità militari più regolarizzate che operano in comuni e stati/regioni, mentre le LDF e le PDT sono milizie di autodifesa o di sicurezza comunitaria che operano a livello di comunità.
Rispetto al 2021, la guerra civile si è sempre più spostata nel cuore del territorio birmano. I volontari della resistenza stanno diventando sempre più abili nella guerriglia “mordi e fuggi”. Il loro addestramento spesso si fonda su tutorial YouTube che, ad esempio, ti insegnano come lanciare bombe da un pezzo di tubo attaccato a un drone economico. Questi metodi vengono impiegati per bombardare i convogli della giunta. La guerra con i droni è diventata così efficace che le forze armate ricorrono sempre più spesso ad attacchi aerei su città e villaggi sospettati di ospitare militanti, piuttosto che utilizzare le forze terrestri. Ciò ha fatto sì che le grandi città del Paese, in passato teatro di proteste e violenze di strada, siano oggi relativamente più tranquille. Nonostante abbia dovuto affrontare gravi e feroci repressioni, il movimento rivoluzionario di guerriglia del Myanmar è sopravvissuto alla prima fase e continua ad accrescere il suo consenso tra i cittadini birmani. Mao Zedong disse che “ci sono poche speranze di distruggere un movimento di guerriglia rivoluzionario dopo che è sopravvissuto alla prima fase e ha acquisito il sostegno empatico di un segmento significativo della popolazione”. Le forze di resistenza, e nello specifico il NUG, trovano la loro principale forza proprio nel sostegno trasversale che sono riuscite ad ottenere; potenzialmente, esse potrebbero formare il governo più eterogeneo e rappresentativo che il Myanmar ha mai avuto, includendo anche la minoranza musulmana Rohingya.
Le conseguenze economiche e sociali
Il Paese, insieme alla democratizzazione aveva avviato anche un processo di sviluppo economico importante. Ciò poteva essere percepito nelle strade, in cui erano spuntati bar e attività di ogni genere. L’impatto di queste attività andava oltre l’economia: le nuove generazioni si erano riprese le strade e la vita delle città. Dopo il golpe, la vita in Myanmar non si è fermata, ma è cambiata radicalmente. Le conseguenze economiche e sociali della guerra civile, innescata dal colpo di stato militare, sono devastanti. Il prodotto interno lordo si è ridotto di quasi un quinto nel 2021 prima di crescere di appena il 3% — partendo da un livello molto più basso — nel 2022. La Banca Mondiale ha stimato che il Pil del Myanmar nel 2023 sarà ancora inferiore a quello dell’economia pre-golpe. Secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, il tasso di povertà del Myanmar è più che raddoppiato rispetto ai livelli pre-COVID, il reddito delle famiglie si è ulteriormente ridotto e l’insicurezza alimentare continua a peggiorare. L’instabilità politica del Myanmar sta avendo effetti negativi sull’intera stabilità della regione. Si conta che oggi siano più di 1.5 milioni le persone che hanno lasciato il Paese in cerca di rifugio, affollando i campi profughi di Bangladesh e Thailandia; inoltre, il continuo blocco degli aiuti umanitari internazionali da parte della giunta, fa sì che i flussi continueranno ad aumentare nell’imminente futuro. Il crollo dello stato di diritto e della sicurezza nel Paese non solo ha provocato un drammatico aumento dei bisogni umanitari, ma ha contribuito a far emergere una serie di enclavi criminali controllate da gruppi in stretta alleanza con le triadi cinesi. L’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine riferisce che la produzione di oppio — uno dei principali introiti del Tatmadaw — è quasi raddoppiata nell’ultimo anno, insieme all’aumento della produzione e del traffico di metanfetamine con i Paesi limitrofi.
Per quanto passata in secondo piano a causa del conflitto in Ucraina, la situazione in Myanmar rimane cruciale, non solo per le sorti di un Paese che aveva abbracciato un percorso democratico, ma per la stabilità e prosperità dell’intera regione indocinese.
TikTok: perchè gli Stati Uniti vogliono bloccare questo social media
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
Venerdì 27 Gennaio 2023, la Commissione per gli Affari Esteri della Camera degli Stati Uniti ha confermato di avere in programma per il mese prossimo il voto su una proposta di legge che mira a bloccare l’uso nel Paese di TikTok, la popolare applicazione social cinese. La misura è stata pianificata dal presidente della commissione, il repubblicano Michael McCaul, e mira ad equipaggiare la Casa Bianca con gli strumenti legali per vietare TikTok, in quanto minaccia alla sicurezza Usa. “La preoccupazione è che questa applicazione offra al governo cinese una porta di servizio per entrare nei nostri telefoni”, ha dichiarato McCaul a Bloomberg.
TikTok – che oggi conta più di 100 milioni di utenti negli Usa – è al centro del dibattito politico statunitense da diversi anni: nel 2020, l’allora presidente Donald Trump tentò di bloccare il download di TikTok da parte di nuovi utenti e di vietare una serie di transazioni che avrebbero di fatto bloccato l’uso dell’app negli Stati Uniti, ma perse una serie di battaglie giudiziarie su questa misura. Nel giugno 2021 l’amministrazione Biden aveva formalmente abbandonato questo tentativo; a dicembre 2022, però, il senatore repubblicano Marco Rubio ha presentato una legge bipartisan per vietare TikTok, nonché tutte le attività collegate a società di social media sotto l’influenza di Cina e Russia. Sempre a dicembre, Biden ha firmato una legge che ha vietato l’utilizzo di TikTok ai dipendenti federali sui dispositivi di proprietà del governo.
Fino al decennio scorso la Cina era vista come la fabbrica del mondo per oggetti di facile lavorazione e bassa qualità. Oggi, invece, Pechino è una superpotenza tecnologica che fa concorrenza agli Stati Uniti. TikTok rappresenta molto bene questo nuovo scenario: per la prima volta, l’app più scaricata scaricata al mondo – sia nel 2021 che nel 2022 – non è di un’azienda americana, bensì dell’azienda tech cinese ByteDance. Il primato nel settore tecnologico è un elemento cruciale per imporsi nella competizione economica e geopolitica. La leadership statunitense in questo settore lo ha dimostrato, permettendo al Paese di dettare gli standard tecnologici internazionali e, dunque, di guidare la produzione e la domanda nel settore da cui passa l’innovazione. Nel caso dei social network, i più utilizzati sono sempre stati sotto il controllo dell’azienda statunitense Meta, che ha potuto così guidare l’approccio del mondo ad uno degli strumenti più importanti del secolo. Per gli Stati Uniti, perdere il monopolio sulle app social utilizzate dagli americani – e dal resto del mondo – pone un duplice rischio: il primo è legato al controllo dei dati, il secondo al soft power.
Clive Humby, data scientist e matematico inglese, nel 2006 coniò uno slogan, rivelatosi col tempo sempre più vero: “I dati sono il nuovo petrolio”. E se i dati sono il petrolio, i social network sono dei grandi giacimenti. Mentre gli utenti fruiscono dei contenuti sui social, essi producono una quantità smisurata di dati; avere accesso ai dati delle persone ha un valore inestimabile, sia economico che politico. La grande paura di molti politici statunitensi – sostenitori della messa al bando TikTok – è che l’app sia utilizzata dal Partito Comunista Cinese (PCC), come uno strumento di intelligence. Non è una rivelazione che le piattaforme social raccolgono i nostri dati, ciò che rende diverso il caso di TikTok è la fragile indipendenza delle aziende cinesi dal PCC e, di conseguenza, la concreta possibilità che i dati degli utenti americani possano essere facilmente accessibili dalle autorità cinesi. A fine dicembre 2022, Forbes ha rivelato che l’app di ByteDance avrebbe messo sotto sorveglianza alcuni suoi giornalisti. L’esplicita competizione tra gli Stati Uniti e la Cina rende il possesso dei dati americani da parte di quest’ultima un problema di sicurezza nazionale sempre più rilevante agli occhi sia dello schieramento Repubblicano che quello Democratico, creando uno dei pochi punti di incontro tra le due fazioni.
Il problema di TikTok, però, non riguarda solo i dati, ma anche la sua capacità di manipolare le opinioni degli utenti, controllandone i contenuti. Il dominio di un Paese non passa mai solo dall’uso della forza. Dove non arriva l’hard power, può arrivare il soft power: Un apparato militare forte è una condizione necessaria per dominare il panorama internazionale, ma affinché questo dominio si consolidi e rimanga in piedi serve una strategia più persuasiva, che faccia leva sulla cultura, sugli usi e costumi delle persone. Influenzare i trend di moda, i contenuti cinematografici, la musica e tutto ciò che dà forma al tempo libero delle persone, è un elemento chiave del potere. Oggi siamo nell’era dei social network, è qui che i giovani passano la gran parte del loro tempo, più di quanto facciano davanti alla televisione o ascoltando la radio; per questo, chi controlla i contenuti nei social e gli algoritmi che gestiscono la loro diffusione ha uno strumento estremamente potente per estendere il suo soft power. La Cina, soprattutto in Occidente, deve affrontare un’opinione pubblica molto ostile. Agli occhi del partito, TikTok può giocare un ruolo fondamentale per indirizzare la narrativa sul Paese e favorirne l’ascesa, nonché la ridefinizione degli equilibri geopolitici.
L’azienda cinese sta attualmente negoziando un contratto di sicurezza nazionale con il Comitato sugli Investimenti Esteri degli Stati Uniti, che regolerà il modo in cui l’app di social media gestisce i dati personali degli utenti americani. L’azienda ha anche cercato di risolvere le preoccupazioni mettendosi a lavoro per trasferire alcune informazioni degli utenti statunitensi nel territorio degli Usa. A prescindere dalle azioni dell’azienda tech cinese, con la crescita dell’influenza di TikTok e il l’intensificarsi delle tensioni geopolitiche tra Stati Uniti e Cina, è probabile che le preoccupazioni per i dati e la privacy continuino solo ad aumentare.
Instagram contro gli Ayatollah
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
La narrazione sul ruolo dei social media nella geopolitica è cambiata nel corso degli anni. Inizialmente, si è parlato di come potessero essere una voce per le comunità dimenticate dai media tradizionali; fu così durante la Primavera Araba e durante i tumulti popolari dopo la crisi finanziaria globale del 2008. Nell’ultimo decennio, però, a questo uso si è affiancata la loro strumentalizzazione per fini geopolitici da parte del potere statale. Potremmo definirli, ormai, come “armi di informazione di massa”: chi li sa usare ha fra le mani uno strumento incredibilmente potente per far sentire la propria voce, indirizzare e influenzare il dibattito pubblico internazionale. Non sorprende, infatti, che il controllo di queste piattaforme sia tra le priorità di tutte le dittature.
Le rivoluzioni passano per Instagram
In Iran i social media stanno giocando un ruolo chiave nella rivolta sistemica scoppiata contro il regime degli Ayatollah in seguito alla morte di Mahsa Amini. È l’ennesima conferma che oggi le rivoluzioni, e con esse gli equilibri geopolitici, passano anche da questa dimensione virtuale. Se sappiamo e parliamo di cosa sta accadendo in Iran lo dobbiamo, in primo luogo, ai social. Nella Repubblica Islamica l’informazione libera è duramente repressa. Soprattutto nei momenti di crisi politica, il regime fa di tutto per nascondere al mondo esterno i disordini sociali. Alla stampa internazionale viene vietato l’accesso nel Paese, rendendo estremamente difficile documentare ciò che accade all’interno dei suoi confini. I social riescono a colmare questa lacuna fornendo foto, video e testimonianze dirette dei comuni cittadini, trasformati in reporter sul campo. Prima del loro avvento, le notizie sarebbero state poche, le immagini pochissime e le persone ad interessarsi alla questione ancora meno. Facendo leva sull’emotività delle persone, i social media hanno creato una nuova forma di attivismo basata sulla diffusione dei contenuti, in grado di coinvolgere un pubblico di milioni e milioni di persone. Il bacio di due manifestanti in mezzo alla folla, i cittadini in strada che combattono le autorità, le ragazze che alzano il velo al cielo e lo bruciano, sono tutte immagini con forte attributo estetico e simbolico; esse riescono a far empatizzare anche chi non conosce il contesto. Così, persone da tutto il mondo diffondono le immagini delle proteste in Iran, portando il Paese sotto i riflettori internazionali e indirizzando l’opinione pubblica.
Instagram è l’unico canale social sfuggito, in parte, alla censura del Governo
Oltre a documentare ciò che accade per il mondo esterno, i social rivestono un ruolo chiave nella mobilitazione e nell’organizzazione interna del movimento di protesta iraniano. Nel 1979, la rivoluzione che rovesciò lo Scià fu, in parte, fomentata da cassette audio, passate di mano in mano. Oggi, allo stesso modo, ma con un raggio di azione esponenzialmente più vasto, il passaparola avviene sui social. In Iran, il canale preferito è Instagram. La sua centralità per la popolazione è legata al fatto che, diversamente da Facebook, Twitter o Telegram, è riuscito a sfuggire parzialmente la censura del governo. Con 48 milioni di utenti, Instagram è il social più utilizzato nella Repubblica Islamica, contribuendo per circa 1 miliardo di dollari all’economia del Paese. Nel 2021, durante la sua campagna elettorale, il presidente Ebrahim Raisi sostenne apertamente la libertà di accesso a Instagram, motivandola con ragioni economiche e citando aneddoti sull’uso dell’app da parte delle sue figlie per fare acquisti online. Il governo iraniano è un diretto beneficiario del successo della piattaforma: dal 2020 ha imposto una tassa su tutti gli account con più di 500mila follower. Il suo valore economico lo ha reso più impermeabile alla censura, trasformandolo in uno dei rari luoghi di dibattito democratico.
Strumento democratico nelle mani del popolo e di persuasione nelle mani del Governo
La tolleranza nei confronti di Instragram, però, non è giustificata solo da ragioni economiche: il governo utilizza la piattaforma anche per scopi di propaganda, monitorando e sfruttando sistematicamente gli account degli influencer. In diversi casi, le agenzie di sicurezza e intelligence hanno obbligato alcune celebrità a postare messaggi di regime pensati per influenzare le giovani generazioni su questioni urgenti, soprattutto là dove i media statali si erano dimostrati inefficaci a tale scopo. Questo ci porta all’altro aspetto dei social: se da un lato essi sono uno strumento democratico nelle mani del popolo, possono anche essere un potenziale strumento di controllo e persuasione utilizzato dal potere politico. Mai come oggi, il regime degli Ayatollah ha bisogno di ricorrere a tutti gli strumenti propagandistici nelle sue mani. La repressione non sta funzionando; ciò che vediamo in Iran assomiglia sempre meno a una protesta e sempre di più a una rivoluzione. Dal futuro della Repubblica Islamica passa quello di tutto il Medio Oriente. Ciò ci fa capire quanto, oggi, i social media siano influenti e che, oltre ad avere conseguenze reali sulla vita dei singoli individui, la loro azione dà forma alla geopolitica.
Il Sudafrica sceglie una neutralità rischiosa sulla guerra in Ucraina
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
Il Sudafrica ha annunciato 10 giorni di esercitazioni militari congiunte con Russia e Cina. Le esercitazioni, per cui è stato scelto il nome “Operazione Mosi” (che significa “fumo” in Tswana, una delle 11 lingue ufficiali del Sudafrica), si svolgeranno nei pressi delle città costiere di Durban e Richards Bay dal 17 al 27 Febbraio. Il periodo scelto ha un grande valore simbolico in termini diplomatici, dato che coincide con l’anniversario dell’invasione russa ai danni dell’Ucraina, iniziata il 24 Febbraio. La Forza di Difesa Nazionale sudafricana ha dichiarato che le esercitazioni saranno “un mezzo per rafforzare le già fiorenti relazioni tra Sudafrica, Russia e Cina”.
Gli Stati Uniti, promotori di una partnership strategica decennale con il Sudafrica, hanno immediatamente espresso la loro disapprovazione. David Feldmann, portavoce dell’Ambasciata degli Stati Uniti a Pretoria ha dichiarato in un comunicato la sua preoccupazione per la scelta del governo sudafricano. “Incoraggiamo il Sudafrica a cooperare militarmente con le democrazie che condividono il nostro impegno reciproco per i diritti umani e lo stato di diritto” ha aggiunto.
Pur avendo condotto diverse esercitazioni con i partner occidentali, non è la prima volta che Pretoria aderisce a delle esercitazioni congiunte con Russia e Cina. Il precedente risale al 2019, quando vi furono delle esercitazioni navali focalizzate sull’antipirateria e il salvataggio. In quel caso però, come sottolinea Darren Olivier, direttore dell’African Defense Review, gli esperti non avevano dato grande valore diplomatico all’azione. Adesso invece, a causa del delicato periodo in cui si svolgeranno, è inevitabile che l’esercitazione assuma “una maggiore importanza ideologica a livello politico”. Secondo Olivier sarebbe stato più “sensato e pragmatico” se il Sudafrica avesse rinviato le esercitazioni.
Un sondaggio condotto a fine 2022 dalla Fondazione Brenthurst ha rilevato che il 74,3% dei sudafricani ritiene l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia “un atto di aggressione che deve essere condannato”, mentre solo il 12,7% lo considera “un uso accettabile della forza”. Ciò nonostante, il Sudafrica è tra quei Paesi che l’anno scorso aveva scelto di non condannare l’operazione di Putin. Tutt’oggi, come dimostra l’Operazione Mosi, Pretoria vuole mantenere la sua indipendenza diplomatica ed evitare che la guerra in Ucraina abbia ripercussioni negative sui suoi interessi e sulle sue relazioni.
La scelta del Paese è coerente con quella degli altri membri del BRICS – India, Cina e Brasile (più la Russia) – e più in generale con quella adottata da molti altri Paesi emergenti e del Sud Globale. Come avvenne durante la guerra fredda con i Paesi non allineati, anche oggi davanti allo scontro tra superpotenze, molti attori scelgono la neutralità e rivendicano la loro indipendenza diplomatica, nonché la volontà di agire conformemente ai propri obiettivi. In un periodo in cui si ridefiniscono gli equilibri internazionali, i Paesi emergenti acquistano una maggiore leva politica e l’opportunità di indirizzare il sistema internazionale verso un assetto più multipolare ed equo. Ciò rientra anche nelle ambizioni di Pechino, sempre più insofferente verso l’ordine a guida occidentale, e soprattutto statunitense.
Si possono individuare anche delle ragioni storiche dietro alla scelta del Sudafrica.
Infatti, per quanto oggi l’Unione Europea possa essere il maggior partner commerciale del Paese, in passato fu l’Unione Sovietica a supportare la sua indipendenza e il superamento del regime di apartheid. Il sostegno non fu solo economico: molti leader ed attori chiave del movimento che ha combattuto contro la segregazione razziale studiarono e si addestrarono nell’URSS.
Se la volontà di Pretoria è quella di mostrare la sua neutralità, però, potrebbe aver sbagliato i calcoli. Agli occhi occidentali, come sottolineato anche dall’Alleanza Democratica – il principale partito di opposizione del Paese – la posizione assunta rischia di apparire come una scelta netta dello schieramento. Il rischio è di solidificare la partnership con Mosca, ma di incrinare i rapporti con i partner occidentali.
Iran: Alireza Akbari è stato giustiziato
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
Sabato 14 gennaio è stata diffusa la notizia che Alireza Akbari, cittadino di nazionalità iraniana e britannica, è stato giustiziato. La condanna a morte di Akbari risale al 2019, ma era rimasta latente e silenziosa fino a pochi giorni fa, quando il regime di Teheran ha iniziato ad accelerare sulla sua esecuzione. Secondo la magistratura iraniana avrebbe collaborato con l’MI6 (i servizi segreti inglesi), fornendo informazioni sensibili collegate all’assassinio, nel novembre 2020, dello scienziato nucleare Mohsen Fakhrizadeh. Il tempismo dell’esecuzione, avvenuta nel periodo più difficile per la teocrazia dalla rivoluzione del 1979, e la figura in questione, Akbari, rivestono il caso di molteplici valori politici, sia sul piano esterno che interno.
Alireza Akbari aveva 61 anni. Nel 1988 aveva guidato l’attuazione del cessate il fuoco tra Iran e Iraq, per mettere fine alla devastante guerra durata otto anni, lavorando a stretto contatto con gli osservatori delle Nazioni Unite. Successivamente, diventò Viceministro della Difesa sotto Shamkhani (attuale Segretario del Consiglio di Sicurezza nazionale) durante il governo del presidente riformista Mohammad Khatami. Il suo ruolo fu cruciale anche nei negoziati che portarono all’accordo sul nucleare firmato nel 2015 da Teheran e il gruppo P5+1 (Cina, Francia, Russia, Regno Unito, Stati Uniti – più la Germania). Il suo profilo lo colloca nell’ala moderata iraniana. La stessa area di cui fa parte anche Shamkhani e che auspica una linea di maggior dialogo con i manifestanti, con concessioni e riforme per svecchiare un po’ la Repubblica Islamica.
Le accuse di Teheran all’ex Viceministro sono fragili e non verificabili. Si parla di un profumo e di una camicia, usati da Akbari per comprare informazioni a Shamkhani, il quale però non risulta indagato, e di una cospicua somma di denaro (1.805.000 euro, 265.000 sterline e 50.000 dollari) datagli dai servizi di sicurezza del Regno Unito utilizzando conti bancari in Austria, Spagna e Regno Unito. In un messaggio audio ottenuto dalla BBC Persian, Akbari smentisce le accuse ricevute: dichiara di essere stato torturato, di aver ricevuto droghe psichedeliche che lo hanno spinto “sull’orlo della pazzia” e costretto a confessare. Non è chiaro quando il messaggio sia stato registrato e non sono arrivati commenti da parte del governo iraniano riguardo l’uso della tortura per estorcere la confessione.
La poca chiarezza delle accuse e delle circostanze in cui avvenne l’arresto di Akbari rendono la questione passibile di diverse interpretazioni. Nelle dittature, come l’Iran, quando viene arrestata una persona di alto livello difficilmente vi è un solo motivo dietro; a maggior ragione se si tratta di un profilo che ha a che fare con un governo straniero e che rischia, dunque, di provocare una crisi diplomatica.
L’Iran sta affrontando decisamente il momento più complesso della sua storia recente. Il governo di Teheran è solo, sanzionato a livello internazionale e odiato dai propri cittadini. Le proteste per la morte di Mahsa Amini hanno messo in discussione l’intero sistema di potere degli Ayatollah, diventando più simili ad una rivoluzione. Oggi sempre più ragazze in Iran girano senza velo, la polizia morale non si vede più e sempre più uomini supportano la libertà delle proprie figlie, mogli, nonché di tutte le donne dell’Iran.
In questo contesto, dove le fondamenta della Repubblica Islamica tremano, la parte più moderata del regime si è mostrata aperta ad un dialogo con i manifestanti e ad accogliere alcune delle loro richieste, come eliminare l’obbligo del velo. Tra i moderati vi è il Segretario del Consiglio di Sicurezza Nazionale, Shamkhani, l’uomo a cui era legato Alireza Akbari e che ne aveva accompagnato la carriera politica. Da ciò emerge la possibilità che, dato il contesto, l’esecuzione di Akbari possa essere un segnale di una lotto intestina al regime. Potrebbe essere un messaggio dell’ala più conservatrice ai moderati, per mettere in chiaro che non si faranno concessioni al movimento di protesta.
Saeid Dehghan, avvocato per i diritti umani che vive a Teheran, ha voluto mettere in evidenza anche un’altra possibilità, collegata maggiormente a dinamiche internazionali: secondo lui, la tempistica dell’esecuzione è stata una risposta del regime in vista dell’inserimento dell’IRGC (il Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica) nella lista del terrorismo del Regno Unito. Sulla questione si è espresso anche Abdolrasool Divsallar, analista e studioso di affari militari iraniani, che in passato ha lavorato con Akbari: “Akbari è un brillante analista ed è stato critico nei confronti delle strategie regionali e di difesa dell’Iran come l’eccessivo coinvolgimento in Siria ed era fautore di una linea di appeasement con gli Stati Uniti nel Golfo. La sua condanna serve a mandare un messaggio: non c’è spazio politico per ogni idea che si allontana dalla visione della leadership”.
Qualunque sia la motivazione che ha spinto la Repubblica Islamica a giustiziare Alireza Akbari, il risultato è allontanare ancora di più le speranze di un dialogo tra Occidente ed Iran. Londra ha condannato aspramente l’azione di Teheran, la quale potrebbe segnare un punto di non ritorno nelle relazioni bilaterali UK-Iran. La stessa condanna è stata fatta da tutti gli altri Paesi del blocco Occidentale. Secondo alcuni diplomatici iraniani, la linea dura dell’Iran significa che il Paese sta pagando un prezzo pesante in termini di sanzioni. La conseguenza è quella di trascinarlo sempre di più nella sfera di influenza russa, come dimostra la controversa fornitura di droni iraniani a Mosca per usarli nella guerra in Ucraina.
Cina: la fine di un sogno?
Continua a leggere l’articolo e tutti gli altri contenuti di eastwest e eastwest.eu.
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all’edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica a € 45.
Se desideri solo l’accesso al sito e l’abbonamento alla rivista digitale, il costo
per un anno è € 20
Hai già un abbonamento PREMIUM oppure DIGITAL+WEB? Accedi al tuo account
Durante il XX Congresso del Partito Comunista Cinese, tenutosi a Novembre 2022, Xi Jinping ha rievocato la narrativa del “Sogno Cinese”. Si tratta di un concetto ricorrente nella dialettica di Xi. La prima volta che ne parlò era appena salito al potere, la Cina cresceva inarrestabilmente da più di vent’anni (tra il 1980 e il 2010 il Pil è cresciuto, in media, circa il 10% l’anno) e tutti i cinesi avevano fiducia che il futuro sarebbe stato radioso. Fece una promessa: entro il 2050, il Grande Dragone Asiatico avrebbe riconquistato la grandezza di un tempo e si sarebbe affermato come un Paese forte, moderno e rispettato. Per i cittadini questa prospettiva si sarebbe concretizzata in una crescita del benessere, sociale ed economico. Eppure, ad oggi, queste parole hanno un sapore amaro per molti cinesi. Lo dimostrano le proteste che hanno segnato la fine del 2022 in Cina.
Le prime proteste dopo Tiananmen
Decine di migliaia di persone, appartenenti ad ogni fascia della popolazione, sono scese per le strade a manifestare. Si tratta delle prime proteste su scala nazionale dal 1989, l’anno del massacro di Tiananmen. Se a scatenarle è stata la fallimentare politica ZeroCovid perseguita dal governo nell’ultimo anno, ben presto le proteste hanno assunto un carattere più generale, chiedendo le dimissioni di Xi e maggiore libertà. Guardando oltre la facciata, si vedono dei cittadini frustrati, il cui malcontento risale a ben prima della Pandemia. L’ultimo decennio è stato complicato per Pechino e il Covid non ha fatto altro che esasperare problemi già esistenti. Per questo motivo, anche davanti alla graduale riapertura della Cina disposta dalle autorità per calmare i disordini, difficilmente spariranno i malumori.
Disoccupazione in aumento e salari in diminuzione
La Cina di oggi, non è quella di 10 anni fa. Dopo un periodo di inarrestabile ascesa, l’economia è rallentata e sono emerse diverse questioni che, nella foga della scalata, erano state ignorate. Le persone, soprattutto i più giovani, hanno meno fiducia ed entusiasmo verso il futuro. Riecheggia un diffuso senso di incertezza e disillusione: la disoccupazione è aumentata, i salari sono troppo bassi per stare al passo con la crescente inflazione e trasferirsi in città è diventato sempre più difficile. Secondo una stima di Bloomberg, attualmente sono circa 15 milioni i giovani senza lavoro. È una cosa strana se pensiamo che stiamo parlando delle generazioni più istruite nella storia moderna della Cina, proprio quelle che dovrebbe realizzare il “Sogno Cinese”, innovando e modernizzando il Paese. La demotivazione di chi ha in mano il futuro della Cina, rischia di essere un cane che si morde la coda: “L’aggiustamento strutturale che l’economia cinese sta affrontando in questo momento ha bisogno di un maggior numero di persone che diventino imprenditori e si impegnino”, ha dichiarato Zeng Xiangquan, direttore del China Institute for Employment Research di Pechino. Per compiere la transizione in atto nel Paese – da un’economia fondata sulle industrie low skill ad una fondata sull’innovazione tecnologica, i servizi e il consumo – serve un capitale umano ambizioso; altrimenti, il Dragone rischia di rimanere incastrato nella trappola del medio reddito.
Oltre il Covid
Attualmente il settore privato è quello in maggiore difficoltà e, anche in questo caso, i problemi vanno oltre il Covid. Negli ultimi anni, il Partito ha progressivamente inasprito la regolamentazione di settori un tempo molto prosperi, dominati da aziende private che, in passato, hanno dato lavoro a milioni di laureati. Diverse aziende tech (es. Didi Chuxing e Alibaba) sono state sanzionate per comportamenti illeciti, molte imprese immobiliari sono state private dei finanziamenti e il settore del tutoraggio privato è stato quasi completamente eliminato. Tutti questi settori, secondo il partito, stavano diventando un rischio per la stabilità sociale ed economica della Cina. Il risultato è stato spingere diverse compagnie ad effettuare numerosi tagli occupazionali e degli stipendi. Ad oggi, secondo un sondaggio fatto da un’azienda di reclutamento cinese e riportato da Bloomberg, il livello del salario iniziale nel settore privato è sceso del 6% rispetto al 2021. Ciò ha spinto sempre più giovani ad abbandonare le proprie ambizioni e ripiegare nella sicurezza offerta dal settore pubblico. Nel 2022, quasi 2,6 milioni di persone si sono iscritte agli esami per il servizio civile nazionale, un grande aumento rispetto all’anno precedente. A lungo termine, le ambizioni deluse dei laureati rappresentano un grande rischio non solo economico, ma anche politico. Nell’era post-Mao, dove l’ideologia ha perso il suo appeal sui cinesi moderni, la legittimità a governare del Partito Comunista si fonda sulla sua performance economica. Il supporto delle persone al PCC, è strettamente legato alla capacità di quest’ultimo di creare benessere economico per i suoi cittadini. Deludere le aspettative di carriera dei giovani vuol dire inimicarsi non solo loro, ma anche i loro genitori, maturati con l’idea che i loro figli avrebbero avuto prospettive brillanti in una Cina in continua ascesa.
Cosa sta cambiando nella società
La frustrazione delle nuove generazioni, e di gran parte della popolazione, non è però il risultato solo di un’economia più stagnante. L’incredibile scalata Cinese ha dato vita negli anni ad un consistente ceto medio, sempre più critico; si tratta di persone istruite, con accesso ad internet, cresciute in un clima generale molto più sereno rispetto al passato. E’ risaputo che un popolo povero è più facile da controllare: prima di ragionare su questioni astratte, etiche e morali, è necessario aver soddisfatto i bisogni primari. Ne deriva che maggiore è la fascia di popolazione che vive in uno stato di relativo benessere, maggiore sarà il numero di persone che iniziano ad allargare i propri orizzonti. Chi è cresciuto nella Cina post-maoista aveva un solo obiettivo: arricchirsi e lasciarsi alle spalle la miseria che le follie di Mao avevano portato al Paese. Questo ha spinto le persone a lavorare a testa bassa, accettando ritmi estenuanti e una competizione spietata.
Le nuove generazioni chiedono maggiore libertà…
Oggi, per molti, le priorità stanno cambiando. Sono sempre di più i cinesi che ricercano un maggiore equilibrio tra lavoro e vita personale, tra bene collettivo e sviluppo individuale. Non a caso, nella top 10 delle parole più cercate su Internet nel 2021 in Cina c’era “tang ping”, traducibile come “stare sdraiati”: ha un significato ampio ed esprime il rifiuto verso la cultura del super-lavoro e della sfrenata competizione in nome del successo economico. Ad un ripensamento del rapporto individuo-lavoro, si aggiunge un desiderio di libertà, insito nelle nuove generazioni. Chi è cresciuto nel nuovo millennio, ha goduto di libertà personali che avrebbero sconcertato genitori o nonni cresciuti durante le frenesie xenofobe Maoiste. Hanno potuto guardare film stranieri, giocare a videogiochi online provenienti dall’America, studiare e viaggiare all’estero. Tutto questo ha contribuito a creare una società più consapevole del mondo esterno e, dunque, più insofferente alla dura censura del governo di Pechino.
…e il governo risponde con un maggior controllo
Il PCC e Xi si sono accorti di questa emancipazione del popolo e ne sono rimasti spaventati. Le scelte di apertura che hanno permesso alla Cina di integrarsi nell’economia mondiale, trarne beneficio e diventare la seconda economia del mondo hanno messo a repentaglio il monopolio del Partito “sui cuori e le menti” dei cinesi. Dal 2015, Xi si è impegnato a riaffermare tale monopolio, riducendo progressivamente lo spazio per la libertà individuale. Lo ha fatto, per esempio, intensificando il controllo e la censura del web, mettendo al bando gli insegnanti di lingue operanti dall’estero e rimuovendo sempre più film stranieri dai cinema. Tutto questo ha alimentato la frustrazione dei cittadini e il Covid, con le ulteriori privazioni che ha portato, l’ha esasperata.
Ritrovare la fiducia verso il futuro
Il “Sogno Cinese” è in crisi. Le proteste che hanno segnato la fine del 2022 sono il segno di un contratto sociale tra Partito e cittadini da ripensare. Si tratta di uno step necessario per permettere all’economia cinese di ripartire e completare la transizione verso un modello di sviluppo che sia sostenibile nel lungo periodo. La sfida è anche politica: l’instabilità che ha caratterizzato le relazioni internazionali per tutto il 2022 è, probabilmente, destinata a restare, dunque, diventa ancor più cruciale riuscire a ripristinare la stabilità interna. Affinché la Cina possa raggiungere gli obiettivi prefissati dal PCC per il 2050 e competere alla pari con le grandi potenze, in primis gli Usa, è necessario che i cinesi, soprattutto le nuove generazioni, ritrovino la fiducia verso il futuro.