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L’Africa sta vivendo una trasformazione digitale che plasmerà le sue economie e società nei decenni a venire. Con un’età media di 18 anni e il 60% della popolazione under 25, è un continente di nativi digitali. Rispetto al 2015, le persone con accesso alla rete sono più che raddoppiate, arrivando nel 2022 a circa 570 milioni di utenti. Entro il 2030, si prevede che saranno online tre quarti dell’intera popolazione. La diffusione dell’accesso alla rete e degli smartphones ha fatto crescere esponenzialmente anche l’utilizzo dei social media, che contano attualmente più di 385 milioni di africani iscritti, un dato in costante crescita. Su queste piattaforme le nuove generazioni passano il loro tempo libero, si informano e interagiscono.
Le più utilizzate nel continente sono sotto il controllo della big tech americana Meta: in prima posizione c’è Facebook, che nel 2022 contava circa 271 milioni di utenti e, secondo le previsioni, nel 2025 supererà i 377 milioni.
Negli ultimi anni, però, in Africa come nel resto del mondo, sta spopolando Tik Tok, l’app dell’azienda cinese ByteDance; si basa sulla condivisione di brevi video, principalmente coreografie a suon di musica, qualcosa che è estremamente in linea con la ricchissima cultura artistica, musicale e ballerina dell’Africa. L’espressività e la creatività sono caratteristiche che uniscono trasversalmente le variegate culture e popolazioni africane, nonché ciò che diventa virale su Tik Tok.
Come nel resto del mondo, in Africa il ruolo dei social va ben oltre l’uso ricreativo, rappresentando uno dei canali fondamentali da cui passa l’informazione e la comunicazione pubblica e politica. Facebook e Tik Tok rispondono ad esigenze fondamentali del popolo africano, ma lo espongono anche a rischi di manipolazione. Da un lato, aiutano le persone ad aggirare i limiti della stampa e dei media che, in quasi tutta l’Africa, sono sotto il controllo del potere statale; permettono a chi vive nel continente di raccontarlo direttamente, senza intermediari, controbilanciando l’immagine pessimista e fuorviante riportata al mondo dai media internazionali, soprattutto quelli occidentali – troppo concentrati sulle tragedie del continente e poco sulle sue belle storie. Allo stesso modo, però, i due social sono anche un’arma che può essere usata contro la libertà delle persone. Sono sempre di più i casi in cui attori interni – governi, gruppi armati ribelli o terroristici – o esterni – come Paesi o aziende – utilizzano le piattaforme per spargere disinformazione. Ghana 24 è uno dei tanti esempi: la pagina Facebook, che ora è stata eliminata, si presentava come un organo di informazione libero del Ghana, ma in realtà amplificava storie e notizie filogovernative ed era sotto la gestione di Israele e Regno Unito.
Nel caso di Tik Tok si aggiunge un ulteriore aspetto connesso ai suoi potenziali legami con il Partito Comunista Cinese (PCC). In Cina, il confine tra aziende private – come ByteDance – e Partito Comunista è labile, e ciò trasforma il social in un potenziale strumento di soft power molto potente. Il PCC potrebbe usarlo per promuovere la sua ideologia e propaganda, oltre a spingere per la censura di contenuti scomodi, come quelli inerenti all’indipendenza di Taiwan, al Tibet o alla questione uigura.
Quando si parla di social media, però, la questione principale rimane quella dei dati. Clive Humby, data scientist e matematico inglese, coniò nel 2006 uno slogan, rivelatosi col tempo tremendamente accurato: “i dati sono il nuovo petrolio”. E se i dati sono il petrolio, i social network sono degli enormi, inestimabili, giacimenti. Accedere ai dati degli africani vuol dire gestire la risorsa più importante dell’ecosistema digitale del continente. Non stupisce allora che app come Facebook e Tik Tok rivestano un ruolo centrale nella competizione tra Stati Uniti e Cina per affermare la loro influenza sull’Africa. A riguardo, c’è chi parla di colonialismo digitale: il riferimento è all’estrazione e al controllo decentralizzato dei dati – con o senza l’esplicito consenso degli utenti – attraverso reti di comunicazione sviluppate e possedute da attori esterni.
I rappresentanti degli interessi statunitensi e cinesi sono le big tech, come Meta e ByteDance. Nel caso americano, il governo non ha un controllo diretto sui dati in mano alle aziende, mentre nel caso cinese questo è molto più in dubbio, a causa dello stretto controllo – soprattutto in un settore strategico come il tech – esercitato dal PCC sulle aziende del Paese. Questa eventualità, rende ancora più cruciale agli occhi di Washington affermare il dominio delle aziende americane in questo settore.
Per due potenze che competono per chi detterà gli standard dell’ecosistema digitale, i social media sono dei giacimenti di cui si deve avere il controllo. Ai governi africani, per ora, sembra importare poco di queste dinamiche tra superpotenze, purché esse investano nello sviluppo digitale dell’Africa.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di aprile/giugno di eastwest
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Il Segretario Generale della NATO Jens Stoltenberg è in Turchia questo weekend – 3 e 4 giugno 2023 – per discutere su come accelerare il via libera all’ingresso della Svezia nell’alleanza atlantica. Fino ad oggi, Ankara ha ritardato l’espansione NATO, accusando la Svezia di ospitare terroristi. Adesso, però, Stoccolma ha annunciato una nuova legge antiterrorismo più severa, entrata in vigore questo giovedì, che ci si aspetta che possa soddisfare Erdoğan.
Proprio così, è ancora lui l’uomo da compiacere. Erdoğan, fresco di rielezione, sarà ancora per cinque anni alla guida della Turchia. In un universo parallelo, Stoltenberg avrebbe potuto incontrare Kemal Kiliçdaroğlu, il candidato che si pensava potesse davvero mettere fine al monopolio di Erdoğan. Invece, così non è stato: il “sultano che non perde mai”, ha vinto anche questa volta, in delle elezioni giudicate come “discutibili” dagli osservatori internazionali.
La prima tappa del Segretario Generale NATO è stata la cerimonia di inaugurazione per la rielezione di Erdoğan. Poi, domenica 4 giugno, spazio ad incontri bilaterali con il Presidente e con alti funzionari turchi.
Il viaggio di Stoltenberg è totalmente focalizzato sulla questione svedese. Non è un caso, infatti, che oltre a Stoltenberg anche l’ex premier svedese Carl Bildt partecipi al viaggio. Bildt è stato uno dei principali sostenitori della candidatura turca all’Unione Europea durante i suoi primi anni come ministro degli Esteri svedese; dunque, gode di un’ottima reputazione e di grande rispetto in Turchia.
I Paesi occidentali, stanno infatti aumentando le pressioni sulla Turchia affinché quest’ultima sblocchi l’ammissione della Svezia nella NATO. Stoccolma, dal canto suo, ha fatto un ulteriore sforzo per superare l’opposizione di Ankara, rassicurando le sue paranoie sul PKK: giovedì è entrata in vigore una nuova legge contro il terrorismo, che renderà illegale organizzare incontri, fornire aiuto logistico e finanziario, o persino cibo, ai gruppi fuorilegge. La generalità della legge ha suscitato preoccupazioni in Svezia, evidenziando la possibilità che questa violi la libertà di parola e altri diritti fondamentali. Il governo, però, spera che questo drastico approccio convinca finalmente Tayyip Erdoğan a dare il via libera all’adesione alla NATO, prima del vertice dell’alleanza programmato per luglio a Vilnius.
Il direttore delle comunicazioni di Erdoğan, Fahrettin Altun, ha mostrato ancora dubbi a riguardo. Pochi giorni fa ha scritto su Twitter che il governo turco “spera sinceramente che la nuova legge antiterrorismo […] venga applicata correttamente”. Inoltre, è stato chiesto alla Svezia di dare subito prova concreta del suo impegno e perseguire le persone che hanno proiettato la bandiera del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) sul palazzo del Parlamento di Stoccolma in occasione delle elezioni turche.
Stoccolma è stata più volte teatro di eventi che hanno turbato Erdoğan – che della lotta al PKK ha fatto uno dei suoi baluardi – tra cui il rogo di un Corano davanti all’ambasciata turca, lo srotolamento di una bandiera del PKK nel centro della capitale e la proiezione di simboli e messaggi pro-PKK su edifici importanti.
Le elezioni che si sono appena concluse in Turchia sono state etichettate come le più importanti di tutto il 2023. Questo perché dal futuro del Paese passa anche quello della NATO, del Caucaso, dell’Asia centrale, dell’Ue, del Mediterraneo e del Medio Oriente.
Ankara controlla il passaggio attraverso gli stretti turchi – il Bosforo, il Mar di Marmara e i Dardanelli – che collegano il Mar Nero con il Mar Egeo e attraverso cui passano centinaia di milioni di tonnellate di merci ogni anno. Sul suo territorio, ci sono forze armate e armi nucleari statunitensi. Il Paese ha svolto un ruolo in molti dei conflitti post-Guerra Fredda in Medio Oriente, che tuttora destabilizzano la regione. La sua posizione geografica ha reso il paese un importante punto di transito durante le crisi migratorie, nonché un attore chiave per la loro gestione; a riguardo, Ankara ha saputo sfruttare questo elemento a suo vantaggio, facendo della migration diplomacy uno dei suoi punti di forza per trattare (e ricattare), ad esempio, l’Ue. Inoltre, adesso che la presenza degli Stati Uniti in Medio Oriente si riduce, per l’influenza di Ankara nella regione si prospetta un’ulteriore crescita di importanza.
Tutti questi elementi, negli ultimi 20 anni, sono stati nelle mani di Erdoğan. Negli ultimi due decenni, il Presidente turco ha dominato senza rivali la scena politica del Paese, riformandolo profondamente. Internamente, ha gradualmente eroso le istituzioni democratiche della Turchia, dandogli una forma sempre più illiberale. Per quanto riguarda la politica estera, invece, ha abbracciato un approccio indipendente, non sempre allineato agli interessi NATO.
La questione svedese è solo uno dei tanti casi in cui la Turchia si è mostrata disallineata dagli altri membri dell’Alleanza Atlantica. L’essere membro della Nato, e alleato occidentale, non ha infatti impedito alla Turchia di Erdoğan di esplorare altre partnership e relazioni. In particolare, ciò è avvenuto con Cina e Russia, non proprio amici della NATO.
Pechino è dal 2021 il principale partner di Ankara per le importazioni. Nel 2015, la Turchia ha aderito alla Belt and Road Initiative, accedendo dunque a finanziamenti non occidentali per progetti infrastrutturali e instaurando un legame con la Cina che, dato il valore del progetto, è anche politico. Gli stretti legami con Pechino, hanno portato la Turchia a sorvolare sulla dura repressione cinese degli Uiguri, una minoranza musulmana dello Xinjiang, di cui la Turchia ospita la più grande diaspora. Nel 2009, Erdoğan aveva definito “genocidio” gli abusi della Cina nei confronti degli Uiguri, ma da allora l’argomento è finito nel dimenticatoio.
Per quanto riguarda la Russia, Ankara e Mosca hanno un rapporto particolare. Collaborano su progetti infrastrutturali e la Turchia dipende fortemente dalle importazioni di energia russe. Tuttavia, i due Paesi hanno appoggiato parti opposte nei recenti conflitti.
Nell’ultimo scenario, la guerra tra Russia e Ucraina, la Turchia ha fatto l’equilibrista tra i due Paesi. Ankara ha fornito droni a Kiev, ha appoggiato il voto delle Nazioni Unite che condannava l’invasione russa e ha bandito tutte le navi da combattimento dallo Stretto di Turchia, nonché bloccato gli aerei russi diretti in Siria dallo spazio aereo turco. Allo stesso tempo, però, si è opposta alle sanzioni occidentali contro la Russia, che avrebbero minato la propria sicurezza energetica. Come riporta il Council on Foreign Relations, la Turchia mira a posizionarsi come mediatore nel conflitto, portando avanti i suoi interessi.
Adesso che Erdoğan è stato rieletto, è lecito aspettarsi che l’atteggiamento della Turchia in politica estera rimarrà uguale, continuando a mantenere una posizione da “pecora nera” all’interno dell’Alleanza Atlantica.
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Lula ribadisce la volontà del Brasile di dialogare con entrambe le parti, mentre venerdì l’inviato speciale di Pechino è arrivato a Mosca dopo un tour diplomatico. Ma le posizioni cinesi non sembrano allineate con quelle ucraine né con quelle occidentali.
Il conflitto in Ucraina non sembra lasciar spazio a soluzioni nel breve periodo. Continuano i bombardamenti russi, si prepara (o è già partita) la controffensiva ucraina e i morti aumentano, al contrario delle possibilità di concreti dialoghi sulla pace. Cina e Brasile ribadiscono la loro volontà a mediare nel conflitto, ma non sembra che le loro posizioni riescano ad incastrarsi con quelle Ucraine, in primis, ed Occidentali.
Il 26 Maggio, Li Hui – l’inviato speciale di Pechino sulla crisi ucraina – è arrivato a Mosca. La capitale russa era l’ultima tappa del suo primo, lungo tour diplomatico volto a trovare una soluzione politica al conflitto.
Quasi in concomitanza, c’è stata una chiamata tra il presidente brasiliano Lula e Vladimir Putin, il quale ha confermato che la Russia è aperta al dialogo sull’Ucraina. Anche Lula, tramite un tweet, ha ribadito la disponibilità del Brasile a dialogare con entrambe le parti. Nel tweet, Lula menziona anche altri attori del Sud Globale e la Cina, richiamando la propria posizione di non allineamento all’Occidente e la possibilità che siano proprio i Paesi in via di sviluppo a mediare nel conflitto, come aveva già affermate durante il viaggio a Pechino.
A livello concreto niente, o almeno nulla di nuovo.
Li Hui, rappresentante speciale della Cina per gli affari eurasiatici, ha concluso il suo tour diplomatico al tavolo con il ministro degli esteri russo Sergei Lavrov. Secondo il Global Times – tabloid cinese del PCC – i due avrebbero parlato per circa 90 minuti, riflettendo sulle prospettive di risoluzione del conflitto in Ucraina. Il ministro degli esteri russo avrebbe ribadito l’impegno di Mosca per una soluzione politico-diplomatica del conflitto, ma sottolineando i gravi ostacoli alla ripresa dei colloqui di pace creati dalla parte ucraina e dai suoi sostenitori occidentali.
Prima di arrivare a Mosca, Li è passato da Kiev, Varsavia, Parigi, Berlino e Bruxelles per sondare il terreno e promuovere una pace cinese per il conflitto, basata sui 12 punti del white paper di posizionamento rilasciato in corrispondenza dell’anniversario dell’invasione russa dell’Ucraina. Questo tour non sembra aver portato a grandi novità: tutti gli attori chiamati in causa, compresa la parte cinese, hanno presentato la loro idea di soluzione del conflitto, mostrandosi poco aperti a compromessi.
Nell’incontro tra Li e Kuleba – il ministro degli esteri Ucraino – quest’ultimo aveva sottolineato che l’Ucraina non è disposta ad accettare nessuna proposta che comporti la perdita dei suoi territori o il congelamento del conflitto. Lo stesso vale – seppur in modo meno drastico ed esplicito – per quanto emerso dall’incontro tra Li ed Enrique Mora, vice segretario generale dell’UE per gli affari politici: infatti, nel documento rilasciato dall’UE che riassume l’incontro tra Li e Mora, si ringrazia l’inviato cinese per aver visitato Kiev, ma allo stesso tempo si riafferma il totale supporto all’Ucraina, anche nel lungo periodo, contro “l’aggressione immotivata e ingiustificata” della Russia ai suoi danni.
Dal canto suo, però, anche Li Hui ha riportato la (ben nota) posizione del governo cinese con tutti i suoi interlocutori, senza sostanziali avanzamenti. Il Wall Street Journal, citando funzionari occidentali aggiornati sui progressi dei negoziati di Li Hui nelle capitali europee, ha riportato come sia emerso un messaggio abbastanza chiaro di Li e del governo cinese all’Europa: l’Europa deve cercare un’autonomia strategica dagli Stati Uniti e sollecitare un immediato cessate il fuoco, lasciando alla Russia il possesso delle parti occupate da quest’ultima.
Da quando è tornato presidente del Brasile, Lula è riuscito a mantenere una posizione che davvero somiglia ad una indipendenza strategica da entrambi gli schieramenti della guerra. Condanna l’invasione Russa, ma riconosce una bipartizione delle colpe, nonché una spiegazione alla base del conflitto più complessa di quella proposta dalla Nato. Diversamente, la Cina – nonostante il suo position paper e i suoi sforzi per una risoluzione del conflitto – non ha mai condannato l’invasione russa dell’Ucraina; anzi, tra accordi economici e visite di stato ha celebrato “l’amicizia senza limiti” tra i due Paesi. Un paio di giorni prima dell’arrivo di Li Hui a Mosca, è arrivato a Pechino il primo ministro russo Mikhail Mishustin, che ha avuto colloqui con il presidente cinese Xi Jinping e il premier Li Qiang.
Agli occhi dell’Europa e della Nato questo compromette profondamente l’immagine di Pechino come mediatore credibile super partes; per quanto riguarda l’Ucraina, Zelensky aveva accolto con favore la chiamata di Xi e la volontà della Cina di mediare, ma come si è potuto constatare durante la visita di Li Hui nel Paese, le parti rimangono comunque distanti.
La Cina rifiuta fermamente la narrativa occidentale che collega la sua partnership con Mosca alla guerra in Ucraina, insistendo che niente di ciò violi le norme internazionali e che la Cina abbia il diritto di collaborare per i suoi interessi con qualsiasi Paese. Anzi, dopo il G7 di Hiroshima in cui si è parlato di tutte e due le potenze in modo ostile, Cina e Russia vedono ancora più necessario un allineamento dei propri interessi. Ovviamente, a tenere le redini di tutto è la Cina, con la Russia sempre più stato vassallo di Pechino. La guerra è ormai al suo secondo anno, Mosca è sempre più isolata e teme l’effetto di lungo periodo delle sanzioni, dunque, il sostegno di Pechino è sempre più cruciale.
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Sabato 20 maggio, a margine del G7 di Hiroshima, si è tenuto anche il Quad. L’incontro tra Giappone, Stati Uniti, India e Australia si sarebbe dovuto svolgere il 24 Maggio a Sidney, ma Joe Biden ha dovuto disdire a causa della crisi del tetto del debito americano, un problema troppo urgente che va risolto il prima possibile.
Così, durante il G7, il primo ministro australiano Anthony Albanese e il leader indiano Narendra Modi – entrambi invitati a partecipare al vertice del G7 come ospiti – si sono uniti al primo ministro Fumio Kishida e a Biden per il terzo incontro di persona dei leader del Quad. Il primo ministro australiano Anthony Albanese ha affermato che, nonostante la disdetta, era comunque importante che i leader dei rispettivi paesi si parlassero : “Il Quad è un organismo importante e vogliamo assicurarci che si svolga a livello di leadership”.
Nonostante ciò, anche se inespresso, rimane dell’amaro in bocca. La retromarcia di Biden sminuisce l’importanza del meeting agli occhi del mondo e degli altri partecipanti. Il messaggio è arrivato anche alla Cina: il Global Times, il tabloid del Quotidiano del Popolo, non ha perso l’occasione per mettere l’accento su questo aspetto, affermando come “la cancellazione del vertice di Sydney è un presagio del destino del Quad”. Soprattutto, il tabloid del partito cerca di mettere il coltello nella piaga, ponendo l’attenzione su come il meeting sia saltato a causa dei problemi interni statunitensi; “Il vertice previsto è stato annullato principalmente perché il governo statunitense è in bancarotta” ha riportato, affiancando al tutto una vignetta satirica che allude a come i problemi interni interni – in questo caso legati alla crisi del tetto del debito – rallentino la diplomazia Usa.
Il tabloid cinese, riflette su una questione importante, ovvero su come i media occidentali si siano precipitati a parlare di come il mancato incontro fosse una vittoria per l’influenza di Pechino. Secondo il Global Times, questa è la dimostrazione che gli osservatori occidentali in primis non hanno una grande opinione del Quad, il quale assume valore solo rispetto al contenimento della Cina.
Effettivamente, questo ultimo punto centra il bersaglio. Finché la Cina manterrà un approccio assertivo e revisionista, sia nella regione asiatica che a livello globale, il Quad avrà motivo di esistere. Per questo, lo smacco di Biden non va a minare la ragion d’essere dell’alleanza (informale) militare, che comunque avrà modo di parlarsi. Anzi, il dialogo avverrà marginalmente ad un altro evento, il G7, in cui il contenimento della Cina è uno degli argomenti principali.
Il QUAD è progetto in divenire, che fino ad ora ha avuto un percorso frastagliato. La sua nascita risale al 2007, quando dopo una cooperazione iniziale sui soccorsi in caso di calamità, i suoi quattro membri – Usa, Australia, India e Giappone – si incontrarono per un “dialogo quadrilaterale” sulle questioni di sicurezza. Fin da subito, in molti scommettevano sul naufragio del blocco. E avevano ragione. L’India, non allineata e sospettosa di tutto ciò che sapeva di alleanza, era indisposta. Il colpo di grazia, però, lo diede l’Australia, che si tirò fuori dal gruppo un anno dopo, nel 2008, per non fare un torto alla Cina.
Erano tempi diversi, Pechino aveva una postura internazionale diversa e non era ancora concepita come una minaccia sistemica dall’Occidente. Da allora, però, la Cina ha continuato la sua ascesa e ha sempre di più mostrato i muscoli, soprattutto nella regione orientale. Tutti e quattro i membri hanno visto, con il tempo, un graduale deterioramento delle proprie relazioni con la Cina. In un mix tra questioni di sicurezza ed economiche, le tensioni con la Cina sono cresciute, dando ai 4 paesi una ragione concreta per riunirsi. Così, nel 2017, il Quad è tornato in scena.
Sarebbe avventato trarre conclusioni a lungo termine sul futuro del Quad. Negli ultimi due anni, l’alleanza ha visto dei cambiamenti importanti, passando dall’essere un canale di coordinamento di basso profilo a un colloquio tra i vari leader. Fino ad adesso, il Quad non si è dato una reale struttura, rimanendo di fatto un’alleanza informale. Per i suoi critici questa è una debolezza, che impedisce ai suoi membri di parlare con una voce coesa. Allo stesso tempo, però, da altri commentari questo aspetto è visto come una forza, nonché nell’interesse di tutti i membri: infatti, tutti e quattro considererebbero la natura flessibile del raggruppamento un vantaggio. Un’alleanza di scopo, che permetta di lavorare congiuntamente sulle questioni condivise, senza forzare un allineamento su altre, data comunque la sostanziale differenza di interessi e priorità tra gli attori coinvolti. A riguardo, è utile la risposta data dal Primo Ministro indiano Modi a una domanda ricevuta durante questo G7 riguardo alla partecipazione dell’India a diversi raggruppamenti, come il Quad e l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai; Modi ha affermato che Nuova Delhi non si è mai legata ad una alleanza di sicurezza “al contrario, ci impegniamo con un’ampia gamma di amici e partner che la pensano al nostro stesso modo in tutto il mondo, sulla base dei nostri interessi nazionali”, ha dichiarato.
Il collante dell’alleanza resta principalmente uno: tutti concordano sul fatto che una regione dominata da Pechino è uno scenario da evitare. Questo suggerisce che, fino a quando Pechino continuerà a mostrare i muscoli, il Quad continuerà a essere una parte importante del panorama securitario dell’Indo-Pacifico, prescindendo anche da eventuali cambi di amministrazione negli Usa, dato che una delle poche cose che unisce Repubblicani e Democratici è il timore verso il revisionismo cinese. Ciononostante, i risultati osservabili raggiunti dal Quad sono limitati. Sicuramente, per quanto riguarda la Cina, l’alleanza non ha scoraggiato Pechino dal far valere le sue ambizioni e minacciare i suoi membri.
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Le elezioni del 14 Maggio potrebbero rimanere nella storia moderna della Turchia. Per la prima volta in più di due decenni, Erdogan non è il favorito. Da quando è salito al potere nel 2002, ha sempre vinto. Questa volta, però, si dovrà scontrare con un candidato forte, che è riuscito a portare unità nell’opposizione: Kemal Kilicdaroglu, leader del Partito Popolare Repubblicano (CHP) e candidato alla presidenza per il blocco dei sei partiti dell’Alleanza Nazionale.
Gli analisti prevedono un’affluenza alle urne record quest’anno e un testa a testa tra i due contendenti che andrà fino all’ultimo voto. Ci sono tanti fattori che rendono queste elezioni particolari e particolarmente importanti. Da un lato, un contesto internazionale instabile e in cambiamento, che attribuisce a chi vincerà la responsabilità di districarsi tra scenari complicati come la guerra in Ucraina e la competizione USA-Cina, con tutte le rispettive conseguenze ed esternalità. Dall’altro, lo scenario interno di un paese travolto a febbraio da un terremoto disastroso, che è andato ad aggravare uno scenario di profonda crisi economica, e trasformato da Erdogan sempre di più in paese autocratico. Tra democrazia, economia e politica estera, c’è tanta carne al fuoco.
Queste elezioni sono speciali anche per un altro motivo: circa 5,2 milioni di giovani turchi voteranno per la prima, e il loro voto non potrebbe essere più importante per decidere le sorti di un paese che non li rispecchia. A circa 20 anni, non hanno mai fatto esperienza di un paese senza Erdogan, al massimo lo hanno sentito raccontare. Alla luce dei sondaggi – che mostrano Erdogan e Kilicdaroglu a un passo l’uno dall’altro – la partecipazione delle nuove generazioni sarà un fattore decisivo per stabilire chi dei due trionferà.
Secondo Ozer Sencar, direttore di MetroPoll, un’organizzazione di sondaggi turca, il 78% degli elettori nella fascia d’età tra i 18 e i 24 anni ha espresso l’intenzione di votare. Tra questi, “Kilicdaroglu è di gran lunga il candidato preferito” ha affermato. Ciò trova conferma anche in un sondaggio condotto dalla Grand National Assembly of Turkey e riportato da France 24, secondo cui solo il 20% dei giovani tra i 18 e i 25 anni intende votare per il presidente e il suo partito AKP. Una volta, Erdogan sognava di crescere una generazione a sua immagine e somiglianza ma, oggi, la maggior parte dei giovani turchi non si rivede nel percorso intrapreso dal loro paese sotto il “sultano”. Vogliono liberarsi dalle catene della religione, godere delle libertà civili; insomma, rimanere al passo con i diritti e la libertà a cui hanno accesso i giovani europei.
La crisi economica che negli ultimi anni ha logorato la Turchia e portato l’inflazione alle stelle, la qualità dell’istruzione e le prospettive di lavoro future sono preoccupazioni ampiamente condivise da tutto l’elettorato giovanile, che superano le divisioni politiche. Sia Erdogan che Kilicdaroglu sanno che il voto dei giovani, circa l’8% del elettorato, è fondamentale; per questo entrambi negli ultimi anni hanno cercato di attirare i giovani dalla loro parte, facendo leva, però, su tattiche diverse.
Erdogan ha storicamente più appeal sulla parte conservatrice della popolazione e, dunque, per attirare i giovani ha messo in campo i suoi cavalli di battaglia: il nazionalismo e l’industria militare, cercando di mostrare come questi elementi possano giocare un ruolo chiave per dare prospettive ai giovani. Un buon esempio di questa strategia è il Teknofest, il più grande evento tecnologico della Turchia, organizzato dal governo e da Selcuk Bayraktar, l’uomo dietro il programma di droni della Turchia e genero di Erdogan, che ha cercato di attirare giovani talenti da tutto il paese. L’evento è stato utilizzato come un’opportunità per il governo di dimostrare che è ancora in grado di generare idee ed eventi per ispirare i giovani nei campi della tecnologia d’avanguardia.
Kemal Kilicdaroglu ha una strategia molto diversa per conquistare i giovani, per quanto anche lui riconosca la centralità dell’industria per la difesa, e nello specifico del programma per la costruzione di droni. Il candidato dell’opposizione punta su quello che più manca a Erdogan, ovvero una visione democratica della politica. Kilicdaroglu ha promesso ai giovani che se vincerà si impegnerà a rinforzare la democrazia, cercando di uniformarsi agli standard dei paesi democratici. Il simbolo della sua campagna è diventato un cuore, che forma con le mani, dicendo ai giovani che possono muovere critiche quanto vogliono senza paura. Sempre France 24, riporta l’intervista di un ragazzo della comunità LGBT, che spiega come l’omosessualità rimane ancora un argomento tabù in una società a maggioranza musulmana e conservatrice. Proprio in virtù delle sue aspirazioni di libertà, ha già deciso che il suo voto andrà a Kilicdaroglu.
Un ragionamento simile viene fatto da molte ragazze, anch’esse desiderose di vivere in una società moderna che le valorizzi e protegga la loro emancipazione. La decisione di Erdogan di ritirare la Turchia dalla Convenzione di Istanbul – un accordo internazionale volto a proteggere le donne dalla violenza domestica – provocò grandi proteste, con in prima linea le giovani donne. Ai loro occhi, il governo non crede nell’uguaglianza sessuale e ha limitato le libertà delle donne.
Allo stesso modo, ci sono anche ragazze giovani che supportano Erdogan e che anzi, si rivedono nel suo approccio conservatore. E’ il caso, ad esempio, di una ventenne intervistata dalla BBC: “Se oggi in questo paese ci sono insegnanti, medici, ingegneri che indossano il velo, è solo grazie alle libertà concesse da Erdogan. Se non fosse stato per lui, saremmo ancora oppressi in nome della laicità” ha spiegato, riferendosi a una delle riforme storiche di Erdogan, ovvero l’abolizione del divieto decennale di indossare il velo nelle università e nella pubblica amministrazione.
I giovani turchi sono chiamati alle urne per decidere che direzione dare al loro futuro. Il loro voto, però, contribuirà anche a delineare il futuro del Mediterraneo e della regione, data la centralità del loro paese nel sistema internazionale.
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La globalizzazione ha assottigliato le differenze nel mondo. Vale soprattutto per le nuove generazioni e, ancora di più, per chi è cresciuto nelle grandi città. I giovani si assomigliano un po’ tutti: stessi tagli di capelli, vestiti e stili; comuni aspirazioni, sogni e desideri. Laleh ha 21 anni, vive a Teheran e studia genetica all’Università. Nell’intimità della sua camera, da cui risponde alla videochiamata, non indossa l’hijab. Fino a poco tempo fa, casa sua era l’unico luogo in cui poteva non indossarlo. Oggi, dopo mesi di proteste, i capelli rimangono liberi e sciolti pure in pubblico. È una delle grandi, fragili vittorie che i manifestanti sono riusciti ad ottenere. Come gran parte delle ragazze che frequentano l’università, ha partecipato alle proteste per la morte di Masha Amini, uccisa dalla polizia morale il 16 settembre 2022, dopo essere stata detenuta per non aver indossato correttamente il velo. Sono state le proteste più grandi che la Repubblica Islamica e gli Ayatollah abbiano mai dovuto affrontare da quando sono saliti al potere nel 1979. Così potenti e coinvolgenti da diventare più simili a una rivoluzione, sfidando le fondamenta ideologiche del regime. I cambiamenti più evidenti si vedono nelle grandi città come Teheran, da cui arrivano video di centri commerciali, strade, bazar e stazioni dove le ragazze a indossare il velo sono la minoranza. I cambiamenti più grandi, però, non si vedono con gli occhi, si sentono e sono anche difficili da spiegare a chi non è sul posto. Le proteste sono riuscite a superare la frammentazione della società iraniana: i due sessi hanno scoperto di essere più vicini di quello che pensavano e le ragazze hanno preso coraggio. Le proteste per la morte di Amini sono sì delle donne, ma anche di tutti gli uomini che ambiscono a vivere liberi dai dogmi della Repubblica Islamica. Le nuove generazioni, figlie di un mondo globalizzato e secolarizzato, rivendicano un Iran laico, al passo con i tempi.
Come procede attualmente la situazione?
In questo momento non sta succedendo granchè all’interno del Paese. Due mesi fa, le persone inondavano le strade, si scontravano con la polizia, rischiando la vita. Da quel periodo sono successe molte cose. Molti sono stati arrestati, altri condannati a morte e giustiziati. Le esecuzioni hanno spaventato le persone e molti di loro hanno smesso di scendere in strada. Ci sono, però, dei giorni specifici in cui ci si organizza per scendere in strada a protestare. Anche se negli ultimi due mesi c’è stato poco movimento, le forze di polizia sono ovunque. Nella mia Università a Teheran, che è stata un luogo centrale delle proteste, ora ci sono sempre tantissimi poliziotti, sempre pronti a picchiare e uccidere.
Che cosa è rimasto delle proteste?
Non so se ha senso per le ragazze di altri Paesi ma, prima di tutto questo, la maggior parte di noi ragazze non si sentiva sicura con i ragazzi o gli uomini estranei. Quando uscivamo da sole ci sentivamo a disagio, ma dopo le proteste ci si sente al sicuro. È come se le persone fossero diventate vicine l’una all’altra dopo quei momenti. Vedo un ragazzo per strada e so che è dalla mia parte. Non avevo idea che i ragazzi del nostro Paese fossero così solidali con noi. Abbiamo sempre pensato che si trattasse solo di interessi sessuali, eccetera. Durante le proteste, ragazzi sconosciuti si buttavano davanti alle ragazze solo per salvarle, capisci? Non ci guadagnavano nulla. Rischiavano la vita per delle sconosciute.
Dopo le proteste, tu e le tue amiche indossate ancora l’hijab?
Indossare l’hijab era la normalità, anche se non ci piaceva. Non era l’hijab di cui spesso si parla, non dovevamo coprire tutti i nostri capelli, ma dovevamo indossarlo, altrimenti la polizia morale ti avrebbe fermato. Oggi non lo indossiamo più. Non lo portiamo nemmeno con noi quando usciamo. Quando due ragazze si incrociano per le strade, e non indossano l’hijab, ci si scambia un sorriso. Sì, c’è questo feeling.
Pensi che – non indossare più il velo – sia qualcosa che avete conquistato una volta per tutte?
Sì, sento che è qualcosa che è stato conquistato, ma non si può dire se rimarrà così, perché non sai mai cosa possono fare [gli Ayatollah]. In questo momento non stanno facendo nulla perché sono spaventati da tutto ciò che sta accadendo e da tutta l’attenzione internazionale. Ma se tutto finisse senza cambiamenti concreti, allora è probabile che si vendichino sulle persone. Personalmente non voglio più indossare l’hijab. Non voglio indossarlo e non lo indosso, ma se un giorno le forze di polizia mi dovessero forzare, sarei costretta a farlo per proteggermi.
Che effetto ha avuto la repressione sul morale dei manifestanti?
Quando le proteste hanno iniziato a diventare sempre di meno, a causa della repressione e delle esecuzioni, si è diffusa una grande paura che le cose potessero tornare alla vecchia normalità. La gente si arrabbiava con tutti quelli che avevano ripreso a postare [su Instagram] la vita normale. Dopo un po’ si è arrivati alla conclusione che, in fondo, era giusto così. Era necessario tornare a vivere, a vedere i propri amici e divertirsi per guarire dai profondi traumi che la repressione ci ha provocato. Altrimenti finiresti per ammazzarti. Mi ricordo che durante il periodo delle esecuzioni, piangevo per 10 minuti, continuavo a studiare per gli esami del semestre e poi piangevo di nuovo per altri 10 minuti. Quando andavo a dare gli esami, sentivo che qualcuno era stato giustiziato alle 5 del mattino. Le persone si stanno riprendendo dai traumi subiti. Stanno vivendo la loro vita normalmente ma, nel profondo, sognano ancora tutti di cambiare le cose. Ecco perché spero che le proteste possano riprendere.
Dopo le esecuzioni, il governo ha rilasciato diversi manifestanti arrestati durante le proteste. Come mai?
Gira voce che, prima di essere rilasciati, gli venga imposto di firmare una sorta di contratto. In questo modo diventano spie del governo, oppure, promettono che si comporteranno normalmente una volta usciti, come se durante la loro prigionia fosse andato tutto bene. Ti racconto la storia di questa ragazza, viveva a Rasht, siamo state migliori amiche per circa 2 anni, poi si è trasferita e ci siamo perse di vista. La sua storia è diventata famosa con i social e il passaparola: è stata arrestata durante le proteste ed è rimasta in prigione per circa 80 giorni. Un giorno, mentre era in prigione, è stata trasferita in ospedale. Le forze di polizia non permettevano a nessuno di avvicinarla e hanno vietato alle infermiere di parlare di quello che le era successo. I genitori della ragazza, che non avevano sue notizie dal giorno dell’arresto, hanno saputo che era ricoverata in ospedale e sono corsi a cercarla. Quando hanno chiesto dove fosse la loro figlia, le autorità hanno risposto che non era là. Alcuni giorni dopo è stata riportata in prigione, senza che nessuno potesse vederla. Il motivo del suo ricovero, però, si è venuto a sapere: un’infermiera ha rivelato, anonimamente, che aveva delle ferite sul corpo ed era stata stuprata. Quando è stata rilasciata, ha iniziato subito a comportarsi come se nulla fosse. Postava le foto della sua vita di tutti i giorni, i suoi trucchi, le serate con gli amici e tutto il resto. Era tutto troppo strano. Come puoi comportarti così normalmente dopo essere stata in prigione per 80 giorni ed essere stata violentata? Le persone sanno che, probabilmente, lei è tra quelli a cui è stato fatto firmare uno di quei contratti, per cui vieni rilasciato e in cambio prometti di comportarti normalmente, come se fosse andato tutto bene. Questo è quello che [gli Ayatollah] stanno facendo: giustiziano le persone oppure le forzano a comportarsi come se non fosse accaduto nulla.
Anche andare in prigione fa tanta paura, immagino. Ci vuole davvero tanto coraggio per scendere in strada a lottare per i propri diritti.
La gente preferirebbe morire spesso piuttosto che andare in prigione. L’ho sentito dire molto spesso dalle persone che conosco che ci sono state. Conosco questo ragazzo, un bodybuilder, è stato arrestato solo per aver postato una storia Instagram. Un mese prima aveva partecipato a una gara di bodybuilding. Era muscoloso, in splendida forma. Dopo solo un mese di carcere era magrissimo, irriconoscibile. Lo hanno picchiato tantissimo, senza nessuna ragione e, nel mentre, ridevano di lui. Molte persone e miei amici sono stati arrestati e picchiati. Prima di vederli protestare, non mi sarei mai aspettata che potessero farlo. Erano persone normali che non avrebbero mai litigato con nessuno e, invece, li ho visti rischiare la loro vita, tirare fuori un coraggio che non pensavo avessero. Credo che certe situazioni ti costringano a farlo, non hai scelta. Lo fai e basta.
Pensi che i social media abbiano supportato le proteste?
Penso che tutto quello che è successo è stato possibile anche grazie ai social. Appena si è sparsa la voce della morte di Masha Amini, ricordo che eravamo su Twitter 24 ore su 24, 7 giorni su 7, e postavamo hashtags su hashtags. Anche i familiari più grandi, che non sapevano nemmeno cosa fosse Twitter, hanno iniziato a usarlo per far sapere al mondo cosa stava accadendo. È così che si è sparsa la voce. Prima ci sarebbero stati solo i notiziari. Se non ci fossero stati i social media, non avremmo potuto fare nulla, perché il governo ci ha chiuso i battenti. Oggi stanno cercando in tutti i modi di chiuderci internet e questo dimostra quanto siano spaventati dal fatto che usiamo i social per raccontare la situazione al mondo. Per accedere a Instagram, Twitter o qualsiasi altra cosa, bisogna avere una VPN (Rete virtuale privata). Prima si trovavano facilmente e gratuitamente, ora nessuna di quelle gratuite funziona più. Si devono comprare da una sorta di spacciatori, spacciatori di VPN. Credo che molte persone ci abbiano fatto un business. I social media sono come l’ossigeno per le persone in questo momento, quindi tutti sono disposti a pagare per averli.
I social, insieme a internet, hanno reso i giovani del mondo molto più interconnessi. Ci assomigliamo un po’ tutti. Seppur con sfumature diverse, una ragazza/o in Iran ha gli stessi sogni e le stesse ambizioni di un ragazzo italiano. Fanno tutti parte di un mondo globalizzato e più secolarizzato. A riguardo, che ruolo ha oggi la religione nella vita delle nuove generazioni iraniane?
Quello che dico non vale per tutti, ma la maggior parte dei giovani non segue e non crede nei valori della religione. È come se fossimo nati e fossimo stati costretti a essere musulmani, costretti a memorizzare il Corano, a indossare l’hijab. Siamo stati costretti a studiare qualcosa in cui non crediamo nemmeno, come ci dicono loro [gli Ayatollah]. Anche se non ci crediamo dobbiamo studiarlo per forza per superare gli esami. Anche ora che studio all’Università ho dovuto dare un esame legato all’Islam.
Nel complesso, com’è avere 21 in Iran dopo le proteste?
Direi che oggi c’è speranza, siamo molto più fiduciosi. Prima delle proteste, tutti noi pensavamo di lasciare il Paese e la nostra famiglia un giorno. I nostri genitori non sono così flessibili da andarsene. Hanno un lavoro, hanno delle cose da fare qui, quindi non se ne vanno. Lasciano che siano i loro figli a farlo. Non è così facile, perché sanno che una volta andati via non vorranno più tornare. In questo momento, però, ho la speranza di poter costruire qualcosa qui nel mio Paese.
Quanta miopia in uno stato che non valorizza i propri giovani, anzi li ammazza. I ragazzi e le ragazze, come Laleh, sono il capitale umano su cui si fonda il futuro dell’Iran e che il regime sta soffocando. Gli effetti economici del conflitto in Ucraina, uniti al rafforzamento delle sanzioni statunitensi imposte da Trump nel 2018, hanno eroso il potere d’acquisto del riyāl e le riserve di valuta estera, facendo decollare l’inflazione e aggravando una crisi economica che va avanti da 10 anni. Per molte famiglie è diventato difficile persino reperire lo yogurt, uno degli alimenti fondamentali della dieta iraniana. La classe media non esiste quasi più. Si sta creando un mix pericoloso per il potere degli Ayatollah: quando l’ideologia perde il suo appeal sulla popolazione, la performance economica può essere un buon sostituto per mantenere la stabilità e la pace sociale; se non vi è ideologia e neanche benessere economico iniziano a venir meno le basi del consenso. Il sovrapporsi della crisi sociale alla crisi economica sta creando i presupposti affinché gli iraniani prendano coscienza che uniti possono rovesciare la Repubblica Islamica, come successe con l’ultimo scià di Persia.
Il nome della ragazza è stato modificato per garantire la sua sicurezza.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di aprile/giugno di eastwest
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“Dichiaro a nome dei combattenti Wagner, a nome del comando Wagner, che il 10 maggio 2023 siamo obbligati a trasferire le posizioni nell’insediamento di Bakhmut alle unità del Ministero della Difesa e a ritirare i resti di Wagner nei campi logistici per leccarci le ferite”, ha dichiarato Prigozhin, il capo dell’esercito mercenario Wagner . “Sto ritirando le unità Wagner da Bakhmut perché in assenza di munizioni sono destinate a morire senza senso”.
L’annuncio arriva da un video registrato, probabilmente, in una delle zone ucraine sotto il controllo dei russi; Yevgeny Prigozhin – noto anche come lo chef di Putin – parla circondato dal suo esercito di mercenari, quasi tutti a volto coperto; indossa una mimetica, un elmetto e porta un’arma automatica a tracolla.
Partiamo dal conflitto: Bakhmut – una città ucraina che prima del conflitto contava circa 70.000 abitanti – ha assunto un’enorme importanza simbolica per entrambe le parti a causa dell’intensità e della durata dei combattimenti per il suo controllo. La città è, dall’estate scorsa, uno dei principali obiettivi dell’assalto russo alla parte orientale dell’Ucraina; a guidare l’avanzata russa è stato, principalmente, il gruppo mercenario della Wagner, comandato da Yevgeny Prigozhin. La battaglia è stata la più lunga e la più letale della guerra e per entrambe le parti le perdite sono state massicce. Lo scenario è descritto come un inferno: “Nel cuore dell’area urbana della città si stanno svolgendo sanguinose battaglie senza precedenti negli ultimi decenni”, aveva dichiarato Serhiy Cherevatyi, portavoce del comando militare orientale dell’Ucraina.
In questo contesto infernale, stanno emergendo anche tutte le frustrazioni e conflittualità della Wagner con il Cremlino e il suo esercito. Il leader del gruppo di mercenari ha portato di recente, però, queste tensioni allo scoperto. Infatti, prima di annunciare la sua volontà di ritirare le truppe dalla città ucraina, aveva già rilasciato un altro video in preda all’ira, pieno di imprecazioni, in un campo disseminato di cadaveri. Nel video incolpa duramente i vertici della difesa russa per le perdite subite dal suo esercito privato, ribadendo che i suoi uomini “sono venuti qui come volontari e stanno morendo perché voi possiate sedervi come gatti grassi nei vostri uffici di lusso”.
Prigozhin ha citato direttamente il ministro della Difesa russo, Sergei Shoigu, e il capo delle forze armate russe, il generale Valery Gerasimov, insultandoli e chiedendo loro le forniture militari.
Le sfuriata pubblica del capo della Wagner è solo l’ultima di una lunga serie, e mostra i problemi intestini alla leadership russa con cui Putin si sta confrontando in silenzio, nonché le difficoltà che sta incontrando nel garantire i rifornimenti necessari ai soldati per continuare la sua aggressione ai danni dell’Ucraina.
È difficile, però, affidarsi alle parole di Prigozhin e credere che davvero la Wagner abbandonerà la prima linea. Sarebbe una mossa catastrofica per la lunga e sanguinosa campagna russa per la conquista di Bakhmut e che, inoltre, macchierebbe indissolubilmente la reputazione di Prigozhin, un oligarca legato da uno stretto legame con il Cremlino e Putin, che ha fatto fortuna attraverso contratti statali prima di fondare il suo noto gruppo di mercenari.
Il Washington Post riporta le parole dell’analista pro-Cremlino Sergei Markov, che vede l’annunciato ritiro come un bluff. Secondo l’analista il 10 maggio è troppo vicino e non lascerebbe il tempo necessario per un simile passaggio di consegne. Se Prigozhin dovesse seguire la procedura, Markov ha detto che potrebbe rischiare l’arresto e la potenziale distruzione di Wagner. Ritirarsi “sarebbe un grande errore, ma sono stati commessi molti errori”, ha dichiarato Markov in un’intervista. “Immagino che il Ministero della Difesa sarebbe molto contento se il Gruppo Wagner scomparisse. Così le risorse del Gruppo Wagner verrebbero prese da qualcun altro”. Meno contento sarebbe Prigozhin, che grazie alla forza del suo esercito privato si è ritagliato un ruolo chiave al Cremlino: le forze della Wagner sono un asset cruciale per Putin, usato non solo in Ucraina, ma per espandere l’influenza russa in Africa e in Medio Oriente.
Per quanto non ci si possa fidare delle parole a caldo del capo della Wagner – già solito a ritirare le sue dichiarazioni – i toni delle ultime uscite di Prigozhin sono più forti del solito e arrivano in un momento molto delicato del conflitto. Il The Guardian cita, in anonimato, un ex funzionario della difesa che avrebbe lavorato in passato a stretto contatto con il capo della Wagner: “Siamo stati abituati a molte cose da Prigozhin, ma questa è certamente un’escalation”, ha detto; secondo lui, la minaccia di Prigozhin di lasciare Bakhmut fa parte di una “campagna di ricatto” per ottenere più munizioni per la Wagner.
Mentre il Cremlino ha dichiarato di essere a conoscenza del messaggio di Prigozhin, ma ha rifiutato di commentare ulteriormente, l’Ucraina ha respinto tali affermazioni. Anna Malyar, vice ministra della Difesa ucraina, ha dichiarato che la Russia punta a catturare Bakhmut entro il 9 maggio, giorno in cui si celebra la vittoria sovietica sulla Germania nazista. Per farlo, la Wagner starebbe facendo affluire truppe a Bakhmut da “tutte le direzioni” per raggiungere questo obiettivo. A questa dichiarazione, però, si è unita anche quella dell’intelligence militare ucraina, che ha dichiarato come le dichiarazioni di Prigozhin illustrino uno stato di conflitto in corso tra lui e il Ministero della Difesa russo.
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“Basta con l’estrazione per pochi”, ha detto Gabriel Boric – il giovane Presidente di sinistra del Cile. “Dobbiamo essere in grado di condividere la ricchezza del nostro Paese tra tutti i cileni”; “Questa è la migliore opportunità che abbiamo per la transizione a un’economia sostenibile e sviluppata. Non possiamo permetterci di sprecarla”, ha dichiarato in un discorso trasmesso a livello nazionale.
Le parole di Boric sono parte del discorso, tenuto il 20 Aprile, per presentare la “strategia nazionale sul litio”, che ribadisce la ferma volontà di rispettare uno dei grandi impegni assunti in campagna elettorale: la nazionalizzazione dell’industria del litio. Non sarà semplice – poiché servirà la maggioranza assoluta in entrambe le camere del Congresso – e ci vorrà del tempo, ma questa rimane la direzione del governo progressista di Gabriel Boric.
Il Presidente cileno ha espresso l’ambizione che il Paese diventi il principale produttore di litio al mondo “aumentando così la sua ricchezza e il suo sviluppo, distribuendolo in modo equo e proteggendo allo stesso tempo la biodiversità delle saline”. Nel suo discorso, Boric ha citato la nazionalizzazione del rame cileno ai tempi di Eduardo Frei Montalva e durante il governo di Salvador Allende.
Il Cile si unisce a una serie di altri Paesi che, negli ultimi anni, stanno cercando un maggiore controllo sulle risorse chiave del loro territorio. Lo scorso anno, il Messico ha nazionalizzato la sua industria del litio e lo Zimbabwe ha vietato le esportazioni di litio non lavorato. Anche l’Indonesia sta limitando le esportazioni di materie prime, tra cui il nichel.
Conosciuto come “l’oro bianco”, il litio è l’elemento solido più leggero della tavola periodica. Viene prodotto dalle salamoie o da giacimenti di minerali duri. Il Cile, a livello assoluto, è il secondo produttore al mondo – dopo l’Australia – ma il primo produttore per quanto riguarda il litio di alta qualità estratto dalle salamoie. Nel 2021, ha prodotto il 26% del litio mondiale e il deserto di Atacama (Cile) detiene una delle tre maggiori riserve al mondo – 9,3 milioni di tonnellate.
L’elevato potenziale elettrochimico del litio lo rende un componente fondamentale per la costruzione di batterie, soprattutto quelle per i veicoli elettrici. Dato il trend di elettrificazione in atto nel settore dell’automotive, garantirsi un approvvigionamento stabile e sicuro di litio è una delle maggiori sfide che le case automobilistiche devono affrontare per rispondere alla crescente domanda. Si prevede che per questo motivo, entro il 2030, la domanda di litio sarà quasi quintuplicata.
Il fatto che il Cile sia così ricco di questo elemento – in un momento in cui la transizione ad un’economia green rende sempre più cruciali le batterie – è un grande vantaggio comparato nelle mani del Paese. Ciononostante, fino ad ora, il controllo di questa risorsa è rimasto nella mani di due aziende private: una è Albemarle, ed è statunitense, l’altra si chiama Soquimich (SQM), è cilena e da tre decenni è controllata da Julio Ponce, il cui suocero era il dittatore Augusto Pinochet; inoltre, l’azienda cinese Tianqui Lithium ne ha acquisito il 23,77% nel 2018. Entrambe le aziende sono dei fornitori cruciali per Tesla, LG e altri produttori di vetture elettriche e batterie.
Il contratto di SQM scadrà nel 2030 e quello di Albemarle nel 2043. Il governo, senza fare direttamente i nomi delle aziende coinvolte, ha voluto rassicurare che non intende rescindere gli attuali contratti; piuttosto, ha detto Boric, spera che esse possano aprirsi ad una partecipazione statale prima delle loro rispettive scadenze.
Il Presidente ha incaricato la società statale Codelco – il più grande produttore di rame al mondo – di trovare il modo migliore per creare una società statale per il litio, per chiedere poi l’approvazione del piano al Congresso nella seconda metà dell’anno. Nel frattempo, Cadelco inizierà a trattare con chi detiene i contratti, con l’obiettivo di raggiungere una partnership tra pubblico e privato. Il governo sa bene che il settore privato è cruciale nell’estrazione del litio e che non è pensabile una sua totale esclusione. Recentemente, la Ministra cilena per le risorse minerarie, Marcela Hernando, aveva dichiarato al Congresso che “la tecnologia e le conoscenze sono nell’industria privata”. Per questo motivo, aveva sottolineato Hernando, è necessario un partenariato pubblico-privato.
La strategia di Boric ha come fulcro e obiettivo la creazione di una Compagnia Nazionale del Litio, ma è più articolata di così. Essa affronta anche la necessità di sviluppare nuove tecnologie di estrazione, che siano più efficienti e sostenibili, coinvolgere e tutelare le comunità connesse ai siti di estrazione e sviluppare prodotti con valore aggiunto.
Nelle idee del governo cileno, in futuro, ci sarà spazio solo per i progetti che utilizzeranno una nuova tecnologia, ovvero l’estrazione diretta del litio (DLE), progettata per estrarre il litio senza affidarsi al tradizionale processo di evaporazione. La speranza è che la tecnologia DLE riduca l’uso di acqua nell’Atacama, una delle aree più aride del mondo.
La tecnologia DLE non è ancora stata testata su larga scala. Ma la corsa globale al litio – con le grandi potenze coinvolte, come Stati Uniti, Cina ed Europa – metterà a disposizione sempre più fondi per promuovere la sperimentazione in questo settore strategico, e ciò coinvolgerà anche il Cile. Negli Stati Uniti, ad esempio, l’Inflation Reduction Act dello scorso anno ha promesso miliardi di dollari di incentivi per promuovere la produzione e l’adozione di veicoli elettrici, nonché per rafforzare la catena di approvvigionamento delle tecnologie green. Questo potrebbe essere un vantaggio per il Cile, in quanto la legge incoraggia i produttori statunitensi ad acquistare minerali critici, tra cui il litio, dalle miniere americane o da Paesi come il Cile – che hanno accordi di libero scambio con gli Stati Uniti. Per lo stesso motivo, l’Unione Europea ha recentemente rinegoziato il proprio accordo commerciale con il Cile per facilitare l’accesso europeo al litio cileno.
Negli ultimi anni, il settore cileno del litio ha perso quote di mercato. L’Australia ha superato il Cile nel 2017 e l’Argentina ha guadagnato terreno. JPMorgan ha recentemente previsto che, entro il 2030, la quota cilena del mercato mondiale del litio potrebbe scendere ad appena il 10%, rispetto all’attuale 28%. Oggi, il Cile rimane ancora competitivo, fornendo litio di alta qualità e a basso costo, estratto dai due grandi attori sopracitati, Albemarle e SQM, che hanno investito solo nel 2022 circa 2,3 miliardi di dollari. L’annuncio, però, potrebbe avere un effetto negativo, spaventando gli investitori e spingendoli verso l’altro grande fornitore globale, l’Australia.
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Le accuse sono due: la conservazione e la trasmissione non autorizzata di informazioni sulla difesa nazionale; la rimozione e la conservazione non autorizzata di documenti o materiali classificati. Rischia fino a 20 anni di carcere.
Il caso di Teixeira è estremamente particolare e differisce dai casi precedenti in cui vi erano state fughe di documenti segreti o governativi. Il responsabile, sembrerebbe, non ha agito come un agente estero – dunque non è assimilabile ad una classica spia – e neanche mosso da ideali o dalla volontà informare il mondo su dei retroscena giudicati da lui ingiusti – come invece era accaduto per Edward Snowden. La motivazione emersa fino ad ora è semplice spacconeria, per far colpo sui suoi amici gamer.
Jack Teixeira ha 21 anni ed è un militare della Guardia Nazionale Aerea. Si è arruolato il 26 settembre 2019 ed è stato mobilitato per il servizio attivo federale lo scorso autunno, secondo quanto dichiarato da Nahaku McFadden, portavoce dell’Ufficio della Guardia Nazionale. I genitori erano fieri della carriera che aveva intrapreso il figlio, come mostra un post su Facebook della madre, risalente a Giugno 2021: “Jack sta tornando a casa oggi, con la scuola tecnica completata, pronto a iniziare la sua carriera nella Guardia Nazionale Aerea!”
Un amico di Jack, lo descrive come un patriota, un cattolico devoto e un libertario con un interesse per le armi e dubbi sul futuro dell’America. Si sono conosciuti poco prima dello scoppio della Pandemia nel 2020 su un gruppo di Discord – una piattaforma statunitense – incentrato principalmente sulle armi e sulla politica libertaria. A creare un legame tra i due sono stati gli interessi comuni, pistole Glock e il cattolicesimo.
Su Discord Jack aveva creato un gruppo: Thug Shaker Central. Si tratta di un gruppo di circa 25 persone, tra cui tanti teenager, nato come luogo di aggregazione per giovani uomini e adolescenti durante l’isolamento della pandemia. Tutti i membri, come Jack e il suo amico, condividevano la passione per le armi, per i meme – a volte razzisti – e per i videogiochi a tema bellico. Il gruppo è dove sono apparsi per la prima volta i documenti di intelligence trapelati. Sarebbe stato Jack Teixeira a caricarli, per far vedere ai suoi amici un po’ di retroscena sulla guerra vera. Il suo obiettivo – secondo i membri del gruppo – era borderline, a metà tra voler impressionare e voler informare.
I documenti sono iniziati a circolare nel gruppo già dall’anno scorso. Jack – soprannominato “OG” – aveva iniziato a inviare messaggi pieni di strani acronimi e in un gergo difficile da comprendere per la maggior parte dei membri del gruppo Discord. Proprio per questo, in un primo momento, le informazioni condivise da Jack Teixeira non avevano attirato troppa attenzione da parte dei suoi amici. Ciononostante, lui ha continuato a pubblicare sempre più informazioni e veri e propri documenti fotografati, impegnandosi anche a tradurre il gergo militare per i suoi amici più inesperti.
Le prime informazioni emerse sui documenti trafugati da Jack riguardano la guerra in Ucraina, ma vi è molto di più. C’è la prova delle importanti attività di spionaggio che gli Stati Uniti conducono anche sui propri alleati, che risulta in materiale sensibile informativo su Canada, Cina, Taiwan, Israele e Corea del Sud, nonché su scenari militari dell’indo-pacifico e del Medio Oriente.
Secondo il New York Times, i documenti non modificano sostanzialmente la comprensione pubblica di ciò che sta accadendo al fronte, né contengono piani di battaglia specifici. Essi, però, descrivono in dettaglio i piani segreti americani e della NATO per supportare lo sviluppo dell’esercito ucraino.
Mostrano la profonda penetrazione statunitense nei servizi di sicurezza e di intelligence russi. Confermano l’estrema dipendenza della resistenza Ucraina dagli aiuti occidentali – senza l’afflusso di munizioni, il sistema di difesa aerea ucraino potrebbe presto crollare, consentendo alla Russia di scatenare la sua forza aerea contro le truppe ucraine. Discutono scenari estremi come la eventuale morte del presidente Vladimir V. Putin o di Volodymyr Zelensky, la rimozione dei vertici delle forze armate russe e un attacco ucraino al Cremlino.
Allo stesso tempo, però, dipingono una Russia in grande difficoltà, con le proprie forze speciali distrutte dalla guerra, e con dispute intestine, dove gli ufficiali militari si rifiuterebbero di “trasmettere le cattive notizie lungo la catena di comando”.
I documenti riportano intercettazioni dei servizi segreti russi, che testimoniano la volontà di Pechino di fornire segretamente a Mosca aiuti in armamenti letali, camuffando “gli aiuti militari come attrezzature civili consegnate via mare, ferrovia e aria”.
Inoltre, nei documenti si parla anche dei palloni spia, affermando che oltre a quello scoperto, le agenzie di intelligence statunitensi erano a conoscenza di altri quattro palloni spia cinesi, di cui uno avrebbe girato il globo armato con una sofisticata tecnologia di sorveglianza.
Dalle informazioni trapelate risulta che è improbabile che Taiwan riesca a contrastare la superiorità aerea militare cinese in caso di un conflitto tra le due sponde dello Stretto. Allo stesso tempo, la tattica cinese di usare navi civili per scopi militari ha eroso la capacità delle agenzie di spionaggio statunitensi di rilevare con anticipo una potenziale invasione.
Nei documenti vi sarebbero altre informazioni che mostrerebbero una crescente preoccupazione sulla capacità dell’isola di Formosa di prevenire la guerra.
Secondo il Washington Post, l’Egitto e gli Emirati Arabi Uniti, due partner chiave degli Stati Uniti in Medio Oriente, avrebbero pianificato di collaborare con la Russia contro gli interessi americani.
Entrambi gli stati hanno negato queste ipotesi.
Secondo i documenti, i funzionari della Corea del Sud – un importante alleato americano la cui politica ufficiale è di non fornire armi letali ai Paesi in guerra – avrebbero espresso timori sulla possibilità che gli Stati Uniti potessero dirottare le armi sudcoreane verso Kiev.
Una valutazione del Pentagono ha suggerito che la leadership del Mossad, il servizio di intelligence di Israele, potrebbe aver incoraggiato il personale dell’agenzia e i cittadini israeliani a partecipare alle proteste antigovernative che hanno sconvolto il Paese a marzo.
Il tutto è stato smentito dagli ufficiali israeliani.
Un gruppo di hacker guidati dal Servizio di sicurezza federale russo potrebbe aver attaccato e compromesso una società canadese di gasdotti a febbraio, causando danni alla sua infrastruttura.
La diffusione di tutte queste informazioni sensibili fa sorgere delle domande sulla sicurezza interna del Pentagono e su cosa debbano fare gli Stati Uniti per tutelarsi in futuro da questo tipo di situazioni, non nuove.
Tutti gli ufficiali a cui è stato chiesto come fosse potuto capitare non sono riusciti a nascondere quanto fossero anch’essi rimasti sbigottiti. Un ragazzo di 21 anni è riuscito per mesi e mesi a trafugare indisturbato documenti e questo ha dell’incredibile.
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Secondo quanto riportato dalle Nazioni Unite, durante la prima settimana di Aprile 2023, l’amministrazione talebana ha vietato alle donne afghane di lavorare per l’Onu. La decisione allarga il divieto, imposto a Dicembre 2022, che impedisce alle donne di lavorare nelle organizzazioni umanitarie locali e internazionali.
L’esclusione delle donne afghane dalle organizzazioni umanitarie operanti in Afghanistan aveva già portato alla sospensione o alla riduzione, a causa della mancanza di personale, di gran parte dei programmi attivi nel Paese. Con questa ultima mossa, viene preso di mira uno degli ultimi canali rimasti per far passare gli aiuti, rischiando di peggiorare ulteriormente le condizioni tragiche della popolazione. A Dicembre, quando era stato introdotto il divieto, il Ministero degli Affari Esteri afghano aveva assicurato ai funzionari dell’organizzazione che il decreto non si sarebbe applicato alle Nazioni Unite. Questa settimana, però, è stata invertita la rotta. Sheikh Haibatullah Akhundzada, l’autorità suprema del governo, ha chiarito che il divieto si estende anche alle Nazioni Unite e ha dato istruzioni all’intelligence di farlo rispettare.
Come riportato da Ramiz Alakbarov, vice rappresentante e coordinatore umanitario delle Nazioni Unite per l’Afghanistan, per fronteggiare la condizione di povertà estrema in cui versa il Paese sarebbero necessari 4,6 miliardi di dollari per il 2023, la più grande operazione di aiuto al mondo. Purtroppo, l’operazione è stata finanziata per meno del 5%: fino ad oggi, ha ricevuto solo 213 milioni di dollari, presentandosi come l’operazione di soccorso che ha ricevuto meno fondi a livello globale. “Il mondo non può abbandonare il popolo afghano in questo momento precario”, ha insistito Alakbarov, esortando la comunità internazionale a “non punire ulteriormente il popolo afghano trattenendo i finanziamenti essenziali”. A dicembre 2021, il Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP) aveva stimato che le limitazioni sull’occupazione femminile sarebbero costate fino al 5% del prodotto interno lordo dell’Afghanistan. Oggi, l’ulteriore stretta annunciata rischia di aggravare ulteriormente la situazione. Secondo i funzionari Onu, la politica del governo afghano viola direttamente lo statuto delle Nazioni Unite e rischia, dunque, di spingere i vertici dell’organizzazione a chiudere le operazioni di aiuto in Afghanistan.
Da quando i Talebani hanno riacquistato il potere sono cambiate tante cose. Kabul, che per circa vent’anni ha eletto governi civili, è ora la capitale di un Paese che non ha più nulla a che vedere con quello che gli Stati Uniti hanno provato a costruire durante due decenni di occupazione. Con l’evacuazione americana è finita la guerra civile: da un lato il sollievo, niente più raid aerei e scontri armati; dall’altro, la disperazione di chi si era abituato alle libertà introdotte – seppur con grandi spargimenti di sangue – dalle forze armate USA. Nel report dell’UNDP, rilasciato nel 2022, si afferma che è stato vanificato “in 12 mesi ciò che aveva richiesto 10 anni per essere accumulato”.
Nell’anno e mezzo in cui l’amministrazione talebana ha governato, la disoccupazione è esplosa, il prezzo del cibo è salito alle stelle e la malnutrizione è peggiorata drasticamente in tutto il Paese. Oggi, quasi 20 milioni di persone – più della metà della popolazione – si trovano in una situazione di grave insicurezza alimentare e sei milioni sono vicini alla carestia.
Per quanto la presa di potere dei Talebani abbia impattato duramente il rispetto dei diritti civili, politici ed umani di tutta la popolazione, le privazioni più grandi sono subite dalle donne, escluse arbitrariamente dalla vita sociale, economica e politica del Paese. I loro diritti sono stati cancellati, rendendo l’Afghanistan uno dei Paesi più restrittivi al mondo per le donne. I Talebani hanno proibito alla maggior parte delle ragazze di frequentare la scuola secondaria, hanno vietato a tutte gli studi e l’insegnamento nelle Università, nonché il lavoro in generale. Inoltre, sono ritornati a crescere i tassi di matrimonio infantile. Le donne afghane continuano a non rassegnarsi a questa realtà, trovando solidarietà anche in parte della popolazione maschile, soprattutto nelle nuove generazioni. Nonostante ciò, la guerra allo stato islamico è estenuante. Amnesty International ha segnalato un drastico aumento del numero di donne arrestate per aver violato le politiche discriminatorie a cui sono sottoposte, come il divieto di apparire in pubblico senza un accompagnatore maschio, oppure l’obbligo a coprire completamente il loro corpo.
Queste politiche sono arrivate a definire il governo talebano agli occhi del mondo, causando anche tensioni interne: i cambiamenti minacciano gli aiuti offerti dai donatori occidentali, riconosciuti come fondamentali pure da molti estremisti del movimento. Oggi, l’Afghanistan è quasi totalmente isolato a livello internazionale. Le azioni del nuovo governo afghano sono state condannate universalmente, persino da altri governi islamici, come nel caso dell’Arabia Saudita.
Nel 2021, i Talebani rassicurarono il mondo che non si sarebbe tornati alla misoginia che ne aveva caratterizzato il governo negli anni ‘90. Queste promesse, una ad una, sono state infrante.
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