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Diradate le nubi, in Europa si vedono le prime luci dell’alba dell’auto a emissioni zero. Arriverà a compimento a partire dal 2035, quando tutti i nuovi veicoli leggeri nell’Unione europea dovranno essere climaticamente neutri. Alimentati, cioè, con batterie elettriche oppure a carburanti a emissioni zero (ed è stato questo il punto più controverso delle ultime fasi della trattativa). Una formulazione che consente di tenere in vita il motore endotermico anche dopo il 2035, purché il pieno venga fatto non con diesel e benzina, ma con i combustibili sintetici, gli e-fuel.
Il nuovo regolamento sugli standard di CO2 di auto e furgoni è stato approvato definitivamente (con l’astensione di Italia, Bulgaria e Romania e il no della Polonia) dai ministri dei Ventisette riuniti nel Consiglio Energia il 28 marzo scorso. Rientra così nel gruppo di testa dei primi dossier del pacchetto “Fit for 55” che tagliano il traguardo del processo legislativo e possono cominciare la fase esecutiva, instradando l’Ue verso l’obiettivo del taglio delle emissioni carboniche del 55% entro il 2030, rispetto ai livelli del 1990, tappa intermedia nella direzione dello zero netto al 2050 previsto dal Green Deal.
È proprio il maxi-piano verde dell’Ue, però, a uscire ammaccato dalla battaglia sul futuro dell’automotive – combattuta tanto nella litigiosa coalizione di governo tedesca quanto nell’arena politica di Bruxelles e Strasburgo –, e a vedere nuovi agguati politici sempre più realistici, con le politiche per il clima nel mirino, nei mesi che ci separano dalle elezioni europee del maggio 2024. Dietro l’apparente tecnicismo dei provvedimenti, infatti, prende forma la ricerca di maggioranze alternative alle larghe intese targate Ursula von der Leyen.
Dopotutto, il passaggio in Consiglio ha chiuso un iter legislativo che, nelle battute finali (quando l’adozione era data ormai per acquisita, perlomeno secondo le tradizionali liturgie brussellesi), è stato messo in discussione dal profilarsi di una minoranza di blocco, cioè un fronte comune di un numero di Paesi tale da rappresentare più del 35% della popolazione Ue. Soglia che, a sorpresa, si è materializzata quando il voto definitivo sul regolamento stava già per essere calendarizzato all’ordine del giorno per l’ok formale nella prima riunione utile del Consiglio, cioè quello del 7 marzo, dopo che tra giugno e ottobre scorsi i rappresentanti dei governi, senza palesare fughe in avanti, avevano espresso il loro sostegno alla stretta green per l’auto (e che, a breve, riguarderà pure camion e pullman).
Trainata dal pressing interno dei liberali pro-industria dell’Fdp (terza gamba dell’eterogenea coalizione retta dal cancelliere Olaf Scholz), la scelta di Berlino di paventare un’astensione, sommata al no già annunciato da Roma e Varsavia e all’incertezza di Sofia, però, ha congelato tutto. Oltre a spiazzare gli alleati Ue per un inatteso cambio di passo da parte di chi, in Europa, è solito dare le carte. La mossa ha aperto un canale di negoziato diretto, e di emergenza, tra Berlino e Bruxelles, alla ricerca di un compromesso in grado di sbloccare l’impasse. La trama si è sviluppata in parallelo al Consiglio europeo del 23-24 marzo, finendo per contaminare il clima del summit e popolare le dichiarazioni dei leader, i quali formalmente avevano all’ordine del giorno non una questione così tecnica e di dettaglio, ma confronti più strategici sulla competitività globale, la governance economica, la gestione dei flussi migratori e l’unione bancaria.
Al centro del contendere è stata l’interpretazione del considerando 11 del regolamento, testo senza portata normativa ma con valore interpretativo che, nella versione abbastanza generica introdotta lo scorso anno nei negoziati interistituzionali tra Parlamento, Consiglio e Commissione, impegna l’esecutivo Ue “a presentare proposte per immatricolare anche dopo il 2035 veicoli alimentati esclusivamente con carburanti neutrali a livello di CO2”. Un impegno troppo vago – secondo la Germania – che non avrebbe dato vere garanzie sulla messa a punto di regole precise sugli e-fuel, i carburanti prodotti a partire da energie rinnovabili e con processi che “catturano” la CO2 dall’atmosfera e, in tal modo, nel complesso bilanciano le emissioni tra quella assorbita e quella rilasciata quando il motore è in funzione. Si tratta di tecnologie al centro di imponenti investimenti da parte delle case automobilistiche, tra cui varie grandi sigle tedesche.
Dopo un tira-e-molla durato un mese e contatti costanti tra Berlino e Bruxelles, il compromesso messo sul tavolo dalla Commissione europea è riuscito nel duplice obiettivo di non riaprire un testo che aveva ormai completato la navetta con il Parlamento Ue e di prevedere l’impegno – messo nero su bianco in una dichiarazione di natura politica – a presentare in autunno un provvedimento normativo per precisare le specifiche tecniche sull’impiego dei combustibili sintetici. La bozza dovrebbe accompagnarsi a nuove regole tecniche per i produttori di auto che consentano di “intercettare” e bloccare l’eventuale pieno con benzina e diesel tradizionali, in modo da avere la certezza che il motore a combustione sarà alimentato esclusivamente da e-fuel.
Per i tedeschi capitanati dal ministro dei Trasporti Volker Wissing e dal collega di partito e titolare delle Finanze Christian Lindner (che dell’Fdp è pure leader), si trattava di ribadire il principio della neutralità tecnologica nella transizione verde, e avere appigli giuridici più solidi per l’impiego degli e-fuel e la sopravvivenza del motore endotermico accanto all’elettrico.
Ora, c’è una storia nella storia. Perché in molti nelle diplomazie Ue sono convinti che Berlino sia diventata una spina nel fianco in Europa. Archiviata (ma non troppo) la politica d’età merkeliana del “kick the can down the road” che ha lasciato questioni irrisolte maturare al sole (dallo stato di diritto in Ungheria alla dipendenza strategica dalla Russia), la cifra che fa spazientire tanti a Bruxelles è l’inaffidabilità della “coalizione semaforo” in Germania. Per ben due volte in una manciata di settimane, rappresentanti del governo tedesco hanno tirato il freno a mano su dossier Ue: non solo sul futuro dell’auto, ma pure, pochi giorni prima, sulla riforma del Patto di stabilità e crescita, ottenendo in extremis un supplemento di consultazione delle capitali prima che la Commissione possa presentare la proposta legislativa di revisione della disciplina sui conti pubblici, il più classico dei fronti dell’attivismo tedesco. In entrambi i casi, a fare da guastafeste è stato il duo Wissing-Lindner: la Fdp è in forte sofferenza nelle urne e nei sondaggi e nella dialettica di coalizione con i socialdemocratici di Spd e i verdi. I liberali alzano, così, a più riprese la posta, soprattutto per fare da cassa di risonanza alle posizioni dell’industria tedesca; una tendenza che continuerà, e possibilmente aumenterà di intensità, perlomeno fino alle elezioni bavaresi di inizio ottobre.
Tornando all’auto, “sarà il mercato a decidere quale tecnologia climaticamente neutra prevarrà nel futuro”, s’è detto convinto Wissing dopo il via libera al regolamento sulla CO2 dei veicoli leggeri. La linea difensiva che, perlomeno nelle fasi iniziali del pressing sulla Commissione, la Germania ha condiviso pure con l’Italia. È stato il no al regolamento formalizzato a fine febbraio da Roma a motivare i tedeschi a tentare il tutto per tutto e intavolare un negoziato in extremis con l’esecutivo Ue, forte dei numeri della minoranza di blocco. A sua volta, il governo italiano s’è messo al traino di quello tedesco: convinto dell’apertura agli e-fuel, ha voluto sfruttare lo stallo per provare a dare la patente green anche ai biocombustibili, i carburanti alternativi frutto di colture agricole o della lavorazione di sostanze organiche di origine vegetale e animale. Nel nostro Paese, è soprattutto Eni a produrre bio-fuel e a investire sul loro sviluppo. Nonostante una lettera inviata dall’esecutivo italiano a quello Ue a tempo quasi scaduto, però, il tema dei biocarburanti non è mai davvero entrato in agenda. Anzi. La porta della Commissione sembrerebbe per ora chiusa a doppia mandata, tanto che tra le sue garanzie sui combustibili sintetici Bruxelles evoca l’acronimo “Rfnbo”, che fa riferimento ai soli carburanti rinnovabili di origine non biologica. Escludendo, quindi, senza appello i biocombustibili: questi ultimi – è l’argomentazione che circola nei palazzi Ue – emettono CO2, pur se meno di quelli di origine fossile. Roma non intende, tuttavia, cambiare linea: guarderà alle proposte legislative della seconda metà dell’anno e, in particolare, alla revisione del regolamento prevista nel 2026, per tornare all’attacco. Per quella data, l’obiettivo italiano è “dimostrare che anche i biocarburanti possano rientrare nella categoria di combustibili neutri in termini di bilanciamento complessivo di CO2”. La strada, ragionano al governo, è tracciata. Tanto che il ministro dell’Ambiente e della sicurezza energetica Gilberto Pichetto Fratin ha fatto mettere agli atti del Consiglio l’intervento con cui, motivando l’astensione, ha salutato come “uno sviluppo positivo” la possibilità di continuare a produrre motori a combustione (ambito in cui l’Europa è tra i leader globali), ma ha rilanciato le trattative in nome di “tutte le soluzioni disponibili”, per andare oltre quelle che Roma giudica interpretazioni ancora troppo restrittive.
Ad annunciare la fumata bianca sugli e-fuel e a tenere il punto sul no ai bio-fuel è stato in prima persona il vicepresidente esecutivo della Commissione Frans Timmermans, gran capo del Green Deal Ue. Le concessioni, soprattutto per l’irritualità del passo di lato della Germania, hanno richiesto un intervento politico al più alto livello. Anche perché finora la linea prevalente negli scambi con tecnici e vertici della Commissione vedeva sì un’apertura di massima ai combustibili sintetici nella transizione ecologica, ma non tanto come carburante per le auto su strada, quanto, semmai, per la decarbonizzazione di mezzi di trasporto di ben più difficile riconversione verso l’elettrico, quali navi e aerei. Per l’esecutivo Ue, però mettere il dossier sull’auto al riparo dalle turbolenze era essenziale. Se auto e furgoni, secondo le ricognizioni Ue, rappresentano il 15% delle emissioni di CO2 dell’Unione, ancor più dei numeri, a spiegare i contorni della partita sull’automotive c’è un forte simbolismo politico. Che tocca proposte capaci di avere un impatto radicale sulla vita dei cittadini – dall’auto alla casa passando per la tavola –, e il cambio di passo che vuole imprimere il Green Deal.
Giunti all’ultimo tornante della legislatura Ue e ora che le regole del maxi-piano verde si calano nella quotidianità, l’ambizione emissioni zero che aveva messo (quasi) tutti d’accordo all’inizio del mandato si ritrova sotto un fuoco di fila. Trascinando le politiche per il clima al centro dello scontro. Il contesto politico, dopotutto, è in evoluzione, accelerato dall’esito delle urne italiane e dall’avvento di un governo di destra a Roma che tesse la sua tela in Europa. Trovando, spesso, sponde non da poco. E preparando – o perlomeno questa è la scommessa – un asse alternativo alla maggioranza di larghe intese che ha finora retto le sorti dell’Unione. Non più un fronte che tenga dentro il mainstream di centro, destra e sinistra, ma un’organica alleanza conservatrice capace di far avanzare una nuova agenda.
Come con i flussi migratori, il Green Deal tra partita sulle auto – che presto si estenderà al braccio di ferro sugli standard Euro 7 relativi alle emissioni nocive diverse dalla CO2 (categoria che per la prima volta prende in considerazione il consumo di freni e pneumatici) – e quella, parallela, sull’efficientamento energetico degli edifici e la riscrittura delle classi di consumo, sta offrendo un terreno per mettere in piedi una “culture war” sulla transizione ecologica con motivazioni di carattere industriale e risvolti pratici populisti, tangibili per i cittadini. L’indiziato principale è il Ppe: all’interno del Partito popolare europeo, che è ancora la principale forza parlamentare di centrodestra, non mancano le sirene, soprattutto tra i gruppi dell’Europa centro-meridionale, che per il 2024 guardano a un’alleanza con i conservatori Ue guidati da Giorgia Meloni. I sondaggi, per ora, non lasciano presagire la possibilità di nuove maggioranze, ma i riposizionamenti in corsa sul Green Deal possono fornire un primo laboratorio politico per prendere le misure.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di aprile/giugno di eastwest
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Se il 2022 ha visto crollare le criptovalute, con il tonfo rovinoso della Borsa Ftx di Sam Bankman-Fried e l’effetto domino sulle altre divise virtuali, il 2023 potrebbe avere le carte in regola per far segnare, invece, un passo avanti per le monete digitali. Ma, beninteso, quelle delle Banche centrali: le “Central Bank Digital Currencies” (Cbdc). L’Europa, già in discreto ritardo rispetto ai suoi principali competitor globali, non vuole farsi trovare impreparata. Entro il primo semestre dell’anno, la Commissione Ue metterà sul tavolo di governi ed Europarlamento una proposta legislativa in grado di fornire il quadro regolamentare per il futuro euro digitale, una forma di valuta elettronica accessibile a tutti nell’Eurozona (che da quest’anno nella sua famiglia accoglie il membro numero 20, la Croazia). In precedenza, la Banca centrale europea (Bce) aveva indicato nel prossimo ottobre il momento della verità per una decisione concreta sull’avanzamento del dossier. Un salto nel futuro per la moneta unica, a poco più di vent’anni dalla sua adozione, per evitare che i nuovi orizzonti per il denaro si sviluppino lontano dal Vecchio continente. E a fronte di una rapida corsa globale verso l’adozione di una Cbdc. E chi primo arriverà, avrà la possibilità di definire le regole del gioco.
Ecco che abbiamo davanti un percorso a tappe serrate per fare della Bce una delle pioniere assolute fra gli istituti monetari globali nella corsa alla creazione di un inedito: una valuta virtuale con corso legale garantito da una istituzione pubblica. La moneta digitale emessa da una Banca centrale ha, infatti, un requisito ulteriore che manca alle criptovalute, come Bitcoin e Ethereum, le cui quotazioni sono decisamente volatili: nessuna delle monete virtuali attualmente disponibili sul mercato è emessa o supportata dalla reputazione di un potere pubblico statale o sovranazionale con il potere di preservare il valore della valuta. Al contrario, essendo una passività della Banca centrale, la moneta virtuale non presenterebbe rischi di alcun tipo, siano essi di mercato, di credito o di liquidità. Insomma, nulla di diverso dalle comuni banconote, di cui avrebbe lo stesso valore.
Del resto, come ampiamente chiarito nelle lunghe settimane di braccio di ferro tutto italiano sul nuovo tetto al contante, il cash − usato in Europa per circa il 59% delle transazioni nei negozi fisici, un dato in calo ma comunque molto alto, secondo le più recenti rilevazioni della Bce − non è destinato a sparire di colpo. Anzi, l’Eurotower si dimostra estremamente cauta, pure nelle sue comunicazioni ufficiali, per quanto Francoforte stimi che “i pagamenti non in contanti effettuati nell’Eurozona siano aumentati del 12,5% nel 2021, per un valore totale di 197 trilioni di euro”. Un euro digitale avrebbe però “il potenziale per apportare numerosi vantaggi ai consumatori e alle imprese” poiché “fornirebbe un’alternativa di denaro pubblico ai mezzi di pagamento digitali privati, ha detto Valdis Dombrovskis il vicepresidente esecutivo della Commissione europea responsabile della supervisione sui portafogli economici, parlando alla conferenza congiunta della Bce e dell’esecutivo Ue sul nuovo progetto di moneta virtuale, a inizio novembre scorso. “Sarebbe un mezzo di pagamento digitale sicuro, istantaneo ed efficiente che tutti potrebbero utilizzare”. E a basso costo, proprio come il contante.
Non una valuta alternativa, quindi, e nemmeno un mezzo di investimento, ma solo un (altro) mezzo di pagamento in euro in grado di rispondere alla crescente preferenza per le transazioni digitali. Per questo, ad esempio, potrebbero ipotizzarsi limiti allo stoccaggio (le ultime cifre ventilate parlano di 3mila euro).
Insomma, il progetto di euro digitale, pronto a ingranare la marcia nel nuovo anno, si affiancherebbe a quello fisico, senza tuttavia sostituirlo. Permetterebbe, invece, ai cittadini-utenti un accesso più ampio e agevole ai pagamenti elettronici, senza disintermediare le banche commerciali, che – sottoposte a vigilanza − continuerebbero a gestire pure i portafogli di moneta digitale. Questa è l’impalcatura attorno a cui Bruxelles costruirà la sua proposta legislativa, che dovrebbe presentare al Parlamento europeo e ai rappresentanti dei governi dei Ventisette riuniti nel Consiglio entro giugno. “Stabilirà per legge l’euro digitale e ne regolerà gli aspetti essenziali”, ha anticipato Dombrovskis. Nella sua proposta, la Commissione intende “preservare l’attuale ruolo delle banche come intermediari”, disegnare “una moneta digitale efficace, che possa essere utilizzata anche al di fuori dell’area dell’euro” e offrire “privacy e inclusione”.
Dopo un 2021 di analisi, raccolta di input e sperimentazione, che ha portato Francoforte all’avvio dell’istruttoria, la fase pilota si è sviluppata lungo tutto il corso del 2022, a stretto contatto con le varie parti coinvolte, puntando ad affrontare i nodi che riguardano la messa a punto tecnologica e la distribuzione stessa della valuta virtuale. Finora non è stata presa alcuna decisione operativa: Francoforte sta, semmai, esaminando i possibili rischi per la stabilità finanziaria e la trasmissione della politica monetaria che potrebbero emergere a seguito dell’introduzione di una Cbdc.
L’anno appena cominciato è quello che la Bce ha designato per la fase realizzativa, che comincerà – spiegano all’Eurotower – “solo se avremo la certezza che questo progetto funzionerà”. Poco distante dalla torre della Bce, è la Bundesbank, la Banca centrale tedesca, in particolare, a premere per una celere definizione del futuro della moneta digitale. E a chiedere (in compagnia di Italia, Francia, Paesi Bassi e Spagna, attraverso un documento di orientamento circolato dopo l’estate) che, oltre a fare bene, si faccia anche in fretta.
Dopotutto, che l’attivismo europeo abbia acquisito velocità e risolutezza negli ultimi anni non è certo un caso. Senza una pronta offerta europea, altre valute digitali delle Banche centrali potrebbero dilagare. L’Ue, in particolare, guarda con preoccupazione alla corsa di Pechino, prima grande potenza a lanciarsi nella definizione di una divisa virtuale di Stato. La Cina sta già testando dal 2019 in una ventina di città del Paese (e pure nel villaggio olimpico in occasione dei Giochi invernali 2022) il renminbi digitale. Con l’espansione a buona parte del Dragone entro quest’anno, aspira a definire il nuovo standard mondiale delle Cbdc. Un’azione da first mover cui l’Europa non può davvero permettersi di assistere inerme: ne va della definizione stessa degli standard globali. “Se fosse emesso, l’euro digitale avrebbe conseguenze rilevanti sia su temi di carattere economico-finanziario, quali la trasmissione della politica monetaria, la stabilità finanziaria o il funzionamento del sistema monetario internazionale, sia su aspetti di ampia rilevanza come gli equilibri geopolitici globali e i diritti fondamentali degli individui, quale il diritto alla riservatezza”, ha spiegato infatti Fabio Panetta, membro del Comitato esecutivo della Banca centrale europea con delega ai sistemi di pagamento, tra i principali responsabili dietro l’iniziativa volta alla creazione dell’ecosistema adeguato alla realizzazione di una moneta virtuale. Ma perché la valuta digitale si muova sul binario giusto, “l’Eurosistema deve mantenere il pieno controllo sulla sua emissione e sul regolamento degli intermediari che distribuiscono l’euro digitale agli utenti finali”.
“L’Ue è consapevole che, rispetto al peso economico che ha nel mondo, la sua moneta è poco utilizzata negli scambi internazionali. Con l’euro digitale, vuole pertanto ristabilire la centralità della Bce in una economia sempre più cashless”, ha aggiunto l’italiano. E di fronte alla competizione con altre regioni del mondo, va da sé − come del resto emerso durante una recente consultazione pubblica della Bce −, che l’euro digitale dovrà ispirarsi ai valori europei. A cominciare dalla privacy e dalla protezione dei dati, ambiti in cui l’Europa ha già mostrato tutto il suo potere normativo e rispetto ai quali potrebbe aspirare a definire lo standard globale anche sul fronte delle Cbdc. L’Eurosistema non avrebbe alcun interesse – spiega la Bce – a raccogliere informazioni sui pagamenti dei singoli utenti, a tracciarne le abitudini o condividere questi dati con terzi. Tutt’altro: l’euro digitale ben potrebbe definire anche una soglia di perfetto “anonimato” per transazioni di piccolo taglio su brevi periodi di tempo (si ipotizza un limite di 50 euro per un ammontare complessivo di mille euro al mese). Un’esigenza, questa, ribadita per esempio dal ministro delle Finanze tedesco e leader dei liberali della Fdp Christian Lindner, convinto che “l’euro virtuale sarà accettato dalla gente solo se sarà paragonabile ai pagamenti in contante”. Anonimato compreso, a meno che la tracciabilità delle transazioni non sia necessaria per prevenire attività illecite come il riciclaggio di denaro o il finanziamento del terrorismo (per cui l’Ue è vicina all’adozione di una stretta normativa comune).
Tornando alla riservatezza, una moneta virtuale emessa dalle Banche centrali non cela, oltretutto, scopi commerciali per l’utilizzo dei dati dei consumatori, al contrario dei fornitori privati di servizi di pagamento. Ma rischia di essere veicolo predestinato per una sorveglianza ravvicinata da parte del governo, come hanno segnalato svariati esperti proprio con riferimento all’esperienza del Dragone, oppure per ovviare ai limiti imposti dalle sanzioni occidentali contro la Russia, le cui maggiori banche commerciali sono state “staccate” dal sistema di pagamenti internazionali Swift. Non solo rivalità sistemica con Pechino, però: il progetto di euro digitale rientra a pieno titolo nella cornice della corsa dell’Unione europea verso l’autonomia strategica, pilastro portante dell’agenda geopolitica di Bruxelles, in particolare nella sua accezione tecnologica. Che comprende pure una buona dose di indipendenza rispetto agli alleati tradizionali nel campo occidentale, a cominciare dagli Stati Uniti, vista la volontà non sottaciuta dell’Ue di affrancarsi dal ruolo dominante del dollaro nel sistema finanziario internazionale. Con Washington in fase di rincorsa nella definizione di una versione virtuale del dollaro, per il momento Usa vuol dire soprattutto Big Tech d’Oltreoceano. Il cui ingresso nel mondo dei pagamenti digitali, ha spiegato di recente la presidente della Bce Christine Lagarde “potrebbe aumentare il rischio di dominio del mercato e di dipendenza dalle tecnologie di pagamento estere, con conseguenze per l’autonomia strategica dell’Europa”. Dopotutto, “già oggi più di due terzi delle transazioni con carta sono gestite da società con sede al di fuori dell’Ue”.
Se è fuor di dubbio che la Cina sia ad oggi il leder a livello globale quanto all’avanzamento del renminbi virtuale su una scala sufficientemente ampia, l’Ue non deve guardarsi solo da Pechino. Un’altra grande giurisdizione asiatica che sta facendo sul serio è il Giappone. La Bank of Japan ha in programma di testare la fattibilità dello yen digitale grazie a un progetto pilota in collaborazione con i principali istituti di credito del Paese: anche per Tokyo il 2023 sarà un anno di verifiche e valutazioni, mentre la decisione sull’effettiva emissione non sarebbe presa prima del 2026, e con ogni probabilità solo in seguito a un referendum popolare. Accanto al Dragone, fra i Paesi del blocco Brics, neppure altri due giganti vogliono rimanere indietro: India e Brasile. A inizio novembre, la Reserve Bank of India ha dato il via ai test sulla rupia digitale, in collaborazione con nove banche d’affari. Il Banco do Brasil conta invece di lanciare il suo real digitale nel 2024.
Il Central Bank Digital Currency Tracker del GeoEconomics Center dell’Atlantic Council mappa con regolari aggiornamenti l’avanzamento globale delle Cbdc: quasi tutte le economie del G20 hanno investito risorse sullo sviluppo di una valuta virtuale negli ultimi sei mesi, e si sono pure accordate rispetto alla necessità di collaborare sulla realizzazione di monete virtuali. Tutti i Paesi del G7 si trovano già in fase avanzata. In generale – e il dato è davvero eloquente −, il 2022 si è chiuso con 114 Paesi (il 95% del Pil del pianeta) che stanno esplorando a vario titolo l’istituzione di una moneta virtuale. Numeri che spiegano bene perché l’Europa non potrà perdere un solo giorno, in questo 2023 dedicato al varo della sua strategia per far approdare la moneta unica nell’ecosistema digitale.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/marzo di eastwest
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Allargamento ai Balcani sì, no, forse. E in ogni caso, a diverse velocità e con l’ormai consueta serie di corse a ostacoli. In tempi di (ri)posizionamenti strategici, mentre Finlandia e Svezia aspettano l’ufficialità del loro ingresso nella Nato, anche l’Unione europea riprende in mano il dossier della sua espansione oltre i confini attuali dei Ventisette. Trovandosi, però, a fare i conti con un’impasse prolungata: riguarda tutti quei Paesi dell’Europa sud-orientale (Serbia, Montenegro, Albania, Macedonia del Nord, Bosnia-Erzegovina e Kosovo) che a più tempi, dagli Anni Duemila in poi, bussano alla porta dell’Ue senza ricevere tuttavia vere aperture. Sulla scia dell’impatto che l’invasione russa dell’Ucraina ha avuto sugli equilibri del Vecchio Continente, Bruxelles ha cercato, con un successo più di forma che di sostanza, di superare l’enlargement fatigue, la “fatica da allargamento” che ha finora tenuto sotto scacco il processo d’ingresso per i Balcani occidentali. Una fase che ha contraddistinto l’ultimo decennio apertosi dopo le adesioni alla spicciolata di Romania e Bulgaria (2007) e Croazia (2013), i tasselli più recenti inseriti a completare il puzzle della riunificazione dell’Europa culminata con il Big Bang Enlargement del 2004, quando otto Stati al di là dell’ex cortina di ferro, più Cipro e Malta, entrarono nell’Ue.
L’Ue ha provato a voltare pagina con un colpo di reni, nell’esatto giorno – beffarda ironia del calendario − in cui cadeva il sesto anniversario del referendum sulla Brexit. Il summit del Consiglio europeo del 23-24 giugno scorso ha confermato le raccomandazioni formulate dalla Commissione presieduta da Ursula von der Leyen e dato luce verde alla concessione dello status di Paesi candidati a Ucraina e Moldova, e di potenziale candidato, ribadendone “la prospettiva Ue”, alla Georgia, ricordando le condizioni preliminari (in particolare in materia di giustizia, anti-corruzione e stato di diritto) che gli aspiranti dovranno soddisfare per avanzare lungo il tortuoso sentiero dell’adesione. Non è tuttavia – va precisato – che il primo passo per l’avvio dell’iter di ingresso; il processo (che si parli di Kiev come di Podgorica o Tirana) è complesso e articolato, strutturalmente destinato a durare anni, ad affrontare incognite e tornanti e a misurarsi con i diktat del voto all’unanimità dei governi.
L’ok in appena una manciata di settimane alle istanze presentate subito dopo l’inizio della guerra da Ucraina, Moldova e Georgia era atteso. Eppure, nella grande stanza multicolore dell’Europa Building che ospita i Vertici dei capi di Stato e di governo, la proposta non ha avuto vita facile. Non perché qualcuno fra i Ventisette volesse tirare il freno a mano, ma poiché lo sprint registratosi per le capitali che più da vicino conoscono o hanno conosciuto l’aggressività di Mosca ha tenuto invece ancora una volta ai margini della discussione gli Stati che si vedono promettere la prospettiva d’ingresso nell’Unione con una regolarità che – vista dai Balcani – è diventata semmai una stanca ritualità di maniera. Così facendo Bruxelles, mettono in guardia gli analisti, rischia insomma di perdere alla causa Ue chi fa la fila da anni. Austria, Croazia e Slovenia hanno, in particolare, insistito perché le conclusioni del summit non perdessero di vista la regione dei Balcani occidentali (meno protagonista l’Italia, nonostante la tradizionale vocazione euro-adriatica). Il braccio di ferro ha tirato un po’ per le lunghe i negoziati, salvo risolversi in una soluzione spuntata, con l’espresso invito alla Commissione (sul tema particolarmente restia) a riferire senza ritardo sui progressi fatti dalla Bosnia-Erzegovina in vista di una eventuale concessione pure a Sarajevo dello status di candidato, un riconoscimento che il Paese emerso poco meno di trent’anni fa dalla guerra aspetta da sei anni.
A raccontare l’amarezza dei Balcani per l’ennesimo passo falso di Bruxelles è stata la tempistica di due conferenze stampa, una poco protocollare e l’altra finita fuori agenda, in quello stesso 23 giugno che ha visto l’allargamento tornare alla ribalta nei palazzi Ue. La prima, con i leader di Belgrado, Tirana e Skopje Aleksandar Vučić, Edi Rama e Dimitar Kovačevski a ribadire da una parte il sostegno allo status di candidati per Ucraina e Moldova, ma dall’altra a sottolineare la frustrazione per i ritardi accumulati invece sulla rotta dei Balcani, rimasti impantanati nell’anticamera dell’Ue. La seconda, cancellata all’ultimo momento, ha evitato ai vertici dell’Unione di esporsi sulla spinosa questione.
In tempi di pandemia e guerra, anche la politica di allargamento Ue, insomma, è finita nella rete delle politiche emergenziali. Bruxelles ha rispolverato il dossier quiescente per allinearlo all’impegno “geopolitico” a sostegno dell’Ucraina, negandogli però al tempo stesso una più ampia visione e una prospettiva sostenibile.
A dirla tutta, qualcosa per i Balcani si è mosso tre settimane più tardi, il 19 luglio, quando a Bruxelles si sono tenute le due conferenze intergovernative con Albania e Macedonia del Nord per l’avvio dei negoziati per l’adesione dopo rispettivamente 8 e 17 anni dalla domanda e a circa due dalla concessione dello status (passata senza rumore in piena pandemia). Apertura irta d’insidie per Tirana e Skopje e non rappresenta un promettente viatico neanche per Kiev e Chişinău. Anzi, le sue modalità rischiano di assestare un ulteriore colpo alla credibilità dell’allargamento. Tenuto stavolta ostaggio dalla Bulgaria, in virtù di una disputa storico-identitaria che contrappone Sofia e Skopje, a proposito dei diritti della minoranza bulgara in Macedonia del Nord e della sua lingua. Il Governo bulgaro aveva quindi posto il veto sull’apertura dei negoziati Ue con i vicini macedoni (bloccando pure l’altro componente del tandem, l’Albania) e vanificando gli anni e i dolori politici che ci sono voluti per siglare, nel 2018, l’intesa di Prespa con cui Atene e Skopje hanno mandato in soffitta la disfida del nome e formalizzato il nuovo appellativo internazionalmente riconosciuto di Macedonia del Nord. La presidenza francese del Consiglio dell’Ue, giunta agli ultimi giorni di attività, ha disinnescato il pericolo con una soluzione di compromesso che in realtà legittima molte delle rivendicazioni bulgare e mette per la seconda volta sul piatto dei macedoni richieste pesanti da mandar giù, per cui serve oltretutto una (improbabile) riforma costituzionale.
L’autunno contribuirà ad aggiungere qualche elemento, ma colpi di scena sarebbero da escludere: a ottobre, da una parte, la Commissione dovrà illustrare il suo annuale pacchetto allargamento; dall’altra, le elezioni politiche che rinnoveranno il complesso sistema di governo della Bosnia-Erzegovina aiuteranno a far luce sul reale avanzamento sul sentiero Ue del Paese. E magari a sbloccare la concessione dello status di candidato. E pure il Kosovo si sarebbe deciso a inviare formalmente la domanda, passaggio finora bloccato dal fatto che Pristina ancora oggi non è riconosciuta da cinque Stati membri dell’Unione (Spagna, Romania, Slovacchia, Grecia e Cipro) e, contemporaneamente, dall’assenza di sviluppi sulla liberalizzazione dei visti Ue necessari ai (soli) kosovari.
Anche se un nuovo afflato è stato dato al processo di adesione dei Balcani, le garanzie che possa procedere senza intoppi e senza finire in un vicolo cieco non sono alte, mentre disillusione e disaffezione verso l’Ue sono ormai radicate in una regione in cui si è invece diffusa la tentacolare presenza dei capitali cinesi e dell’influenza russa, ben sintetizzata dalla Serbia sempre più pecora nera.
Mantenere viva la fiammella della prospettiva di adesione all’Ue per i Paesi candidati è essenziale, ma occorre che sia anche credibile. Le premesse non sono incoraggianti ora che prende forma (si riunisce a Praga a inizio ottobre) la Comunità politica europea messa in pista da Emmanuel Macron, il forum di coordinamento per rilanciare la cooperazione nel continente dall’Islanda all’Ucraina, fino agli stessi Balcani, al di là di formule specializzate o “affaticate” come Osce e Consiglio d’Europa. Non è un’alternativa all’allargamento o alle politiche di vicinato − assicurano Parigi e Bruxelles −, ma in molti vi vedono un concreto stratagemma per rinviare sine die le nuove adesioni.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di settembre/ottobre di eastwest.
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En Marche. Proprio come il principale ideologo della Conferenza stessa, l’appena riconfermato Presidente francese Emmanuel Macron. Il futuro dell’Europa riparte da Strasburgo, dove il 9 maggio − a un anno esatto dal suo lancio − si è conclusa la Conferenza sul Futuro dell’Europa (CoFoE), l’esercizio partecipativo dal basso che negli ultimi 12 mesi ha riunito digitalmente e fisicamente i cittadini europei attorno a un inedito canale di democrazia deliberativa. La Conferenza arriva al termine di un itinerario accidentato e non lineare, e le speranze sono tutte rivolte alle modalità che saranno scelte dalle istituzioni di Bruxelles e dai governi degli Stati membri per darvi seguito. Torna così in scena il più classico dei tabù da infrangere: la riforma dei Trattati per dare all’Unione gli strumenti per fronteggiare le crisi globali che, dopo essersi inabissata per oltre un decennio, adesso trova nuova linfa, complice un sostegno esplicito da parte della Germania.
La CoFoE è stata una prima assoluta per Bruxelles, che ha così sperimentato − non senza difficoltà logistiche, metodologiche e politiche − l’integrazione del già caotico panorama multilivello dando la parola agli europei: a tutti, attraverso la piattaforma digitale multilingue futureu.europa.eu, e selezionando a caso un gruppo di 800 cittadini rappresentativi della diversità della popolazione Ue in termini di origine geografica, età, genere, contesto socio-economico e livello di istruzione, per partecipare ai quattro panel dedicati (“Economia, lavoro, cultura, istruzione, digitale”; “Democrazia, valori, sicurezza”; “Cambiamento climatico e ambiente”; “Ue nel mondo e migrazione”). Tanto nella plenaria della CoFoE quanto nei gruppi di lavoro orizzontali, poi, una delegazione di 80 cittadini dei quattro panel si è trovata accanto ai rappresentanti indicati dal Parlamento europeo (108), dal Consiglio (54), dalla Commissione (3) e da tutti i Parlamenti nazionali dei Ventisette (108), a cui aggiungere anche il presidente del Forum europeo dei giovani e quelli dei panel di cittadini tenutisi a livello nazionale (27).
Mentre questo numero va in stampa, la CoFoE è giunta al suo ultimo tornante, con l’approvazione per consenso da parte della plenaria delle raccomandazioni compilate dai gruppi di lavoro a partire dai contributi caricati sulla piattaforma online e dagli input dei panel dei cittadini. Sulla base della versione finale del documento, ciascuna istituzione dell’Ue dovrà fare la propria parte, alla luce delle rispettive competenze e attribuzioni, per l’implementazione delle proposte. Si va dalle liste transnazionali per le elezioni europee all’addio al voto all’unanimità nel Consiglio, passando per una semplificazione dei nomi delle istituzioni.
Inizialmente spalmata su due anni (dal maggio 2020 al maggio 2022), la pandemia ha dato non poco filo da torcere al lancio della CoFoE: prima ne ha ritardato di un anno l’avvio, poi ne ha accorciato di fatto la durata ad appena 12 mesi, con un meeting su tre dei panel dei cittadini che si è svolto online. Nel mezzo, pure i veti incrociati fra le istituzioni per scegliere chi dovesse guidare la CoFoE, tenzone risolta con una presidenza tripartita per Commissione, Consiglio e Parlamento. La conclusione, invece, è stata per l’appunto mantenuta nel maggio 2022, nella fase finale della presidenza di turno francese del Consiglio dell’Unione europea. E questo perché la Conferenza è stata sin dall’origine legata a doppio filo alla Francia e a Macron. Sviluppando un punto contenuto già nel discorso della Sorbonne del 2017 in cui articolava la sua visione per l’Europa, fu in una tribuna pre-elettorale alla vigilia del voto europeo del 2019 che l’inquilino dell’Eliseo propose concretamente il lancio di una “Conferenza per l’Europa” tra le ricette “per il Rinascimento europeo”, strutturata “attorno a delle assemblee cittadine”. La priorità d’azione è poi finita, al pari di altri obiettivi strategici di Parigi, dritta nell’agenda della Commissione, tanto che l’esecutivo Ue assegnò al progetto pure una vicepresidente dedicata, la croata Dubravka Šuica.
Dopo la sfilata nel cortile del Louvre, nel 2017, e la marcia ai piedi della Tour Eiffel, nel 2022, in entrambi i casi con Inno alla Gioia e bandiere Ue d’ordinanza, Macron otterrà il terzo suggello europeo proprio officiando, da presidente di turno del Consiglio, la cerimonia di chiusura della CoFoE, nell’emiciclo del Parlamento europeo di Strasburgo e nel giorno della Festa dell’Europa. Sarà l’incoronazione laica dei prossimi cinque anni (franco-)europeisti: ma il momento della verità riguarderà come Macron vorrà fare tesoro di questo processo dal basso durato un anno, e cosa verrà dopo.
Il pressing francese è la forza motrice che fa avanzare molti dossier prioritari per Parigi sulla scena Ue, dal rafforzamento di un tessuto industriale europeo alle regole chiare per disciplinare le Big Tech d’Oltreoceano: Macron, fresco di rielezione, ha tutto il capitale politico da spendere per prendere in mano l’eredità della CoFoE e portarla a un nuovo livello. Per inquadrarne a dovere la portata storica, prima di soppesarne in concreto e nel merito i suggerimenti, la Conferenza sul Futuro dell’Europa va anzitutto valutata in quanto processo aperto e per il merito di aver innestato una modalità di lavoro partecipativa nella complessa cornice istituzionale Ue. In quanto processo, ha tutte le credenziali per andare avanti, ma spetta alla politica europea indicare come. Secondo alcuni tra i più attenti osservatori delle dinamiche della Conferenza, appena una proposta su dieci, fra quelle portate avanti dai panel dei cittadini, richiederebbe una riforma dei Trattati. Insomma, un intervento puntuale per ampliare, ad esempio le competenze dell’Ue in ambiti in cui, alla prova dei fatti, è stato dimostrato il valore aggiunto dell’azione comune: la salute, con la risposta unitaria alla pandemia e l’approvvigionamento dei vaccini, e adesso la politica estera, con il necessario abbandono dell’unanimità nelle relative decisioni.
La naturale evoluzione della CoFoE passa per la messa a sistema del suo metodo di lavoro e la creazione di uno stabile organismo di democrazia partecipativa attraverso cui dar voce ai cittadini, magari mantenendo la già sperimentata (con tutte le difficoltà del caso) piattaforma online. Ma, per evitare di allungare la liturgia dei tanti pareri che spesso finiscono in fondo ai cassetti delle istituzioni di Bruxelles, la posta in gioco è più alta. Fino alla vigilia della conclusione della CoFoE, il maggiore oppositore dell’idea di usare la Conferenza come rampa di lancio per un ambizioso tentativo di revisione dei Trattati Ue era, manco a dirlo, il Consiglio, dove siedono i rappresentanti degli Stati membri. L’idea trova invece entusiastici sostenitori nel Parlamento europeo, dove si evoca la possibilità di far seguire la Conferenza sul Futuro dell’Europa da una Convenzione sul Futuro dell’Europa, dando pure tono costituente a quel che rimane della legislatura Ue da qui al 2024.
Per l’apertura di una Convenzione, il Consiglio europeo decide a maggioranza semplice. Tocca poi però a ciascuno Stato membro ratificare internamente le modifiche, ed è qui che il sentiero si fa parecchio più scivoloso. Sconfitti gli euroscettici tra Repubblica Ceca e Slovenia, e con la Polonia che tra un anno potrebbe accompagnare alla porta i suoi ultraconservatori di Governo, l’Ungheria di Viktor Orbán − appena riconfermato premier − rimane il principale ostacolo sovranista a un’ambiziosa maggiore integrazione. A voler guardare il bicchiere mezzo pieno, c’è infatti una tradizionale resistenza alla riforma dei Trattati che è nel frattempo saltata, ed è destinata a far rumore: quella della Germania. Nel contratto di coalizione tra socialdemocratici, verdi e liberali è messo nero su bianco che la CoFoE “dovrebbe portare a una Convenzione costituzionale e gettare le basi per lo sviluppo di un’Europa federale”. Il Governo di Berlino non ha ancora completato il primo giro di boa dei sei mesi al potere e sta parallelamente affrontando questioni esistenziali come il superamento della sua tradizionale postura nei confronti della Russia, ma è anche sulla capacità di far avanzare l’integrazione Ue in un’ora di cambiamenti epocali che sarà giudicato.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di maggio/giugno di eastwest.
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In un’Europa a più velocità c’è chi corre più degli altri. In che direzione, però, è tutto da vedere. Appena un anno fa il Gruppo di Visegrád (V4), baluardo dell’integrazione euro-atlantica dei tre (poi quattro) Paesi dell’Europa centro-orientale all’indomani della disgregazione dell’ex blocco socialista, celebrava il trentennale dalla fondazione, ricordando le aspirazioni di allora – era il 15 febbraio 1991 − e le sfide di oggi. Non più coeso come un tempo, il blocco che mette insieme Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia e Ungheria sperimenta al suo interno notevoli forze centrifughe che potrebbero innescare una nuova metamorfosi politica nel cuore d’Europa. Dopo aver mutato pelle rispetto alle origini liberaldemocratiche ed essersi accreditato nel dibattito politico Ue degli ultimi anni come fortezza sovranista nel cuore del continente, il V4 è infatti semmai descritto, talvolta pure dagli stessi protagonisti, come un V2+2, a marcare la faglia che si è aperta al suo interno.
Il cambio di governo nella Repubblica Ceca che fu di Václav Havel – padre nobile, da leader cecoslovacco, dell’asse di Visegrád insieme al polacco Lech Wałesa e all’ungherese József Antall –, a cavallo fra 2021 e 2022 ha visto il passaggio dai populisti di Andrej Babiš, il magnate accusato di maxi-corruzione, ai moderati filo-Ue di Petr Fiala. Il Ministro degli Affari europei di Praga, Mikuláš Bek, in occasione della prima visita a Bruxelles nella nuova veste, si è fatto interprete del nuovo corso: “Il senso di una cooperazione dei V4 si è indebolito; ma il trend può sempre cambiare dopo le prossime elezioni” in Ungheria, quest’anno, e Polonia, il prossimo, visto che entrambe sono rimaste arroccate su posizioni anti-Ue e di sfida aperta alle istituzioni comunitarie sul capitolo stato di diritto.
Nell’attesa, il V4 può ben finire in standby, è il messaggio senza troppi convenevoli che Bek ha affidato a un dialogo con Politico Europe, in apertura di un 2022 che per i cechi è anche una sfida di credibilità, con la presidenza del Consiglio dell’Ue al via il 1° luglio: “Non vogliamo trascurare la cooperazione all’interno del Gruppo di Visegrád, ma al tempo stesso vogliamo mettere in campo azioni complementari e intensificare il nostro dialogo con altri Stati membri”. A cominciare, ad esempio, da un’intesa mitteleuropea con Germania e Austria.
La prima a tracciare un chiaro solco nel cuore di Visegrád era stata, in ordine di tempo, la Slovacchia, che tra i quattro è anche l’unico Paese membro dell’Eurozona: una rondine non fa primavera, ma nel 2019 l’elezione a sorpresa alla presidenza della Repubblica di Zuzana Čaputová, indipendente dal profilo di attivista e ecologista, ha cominciato a delineare i tratti del volto dell’altro V4. Poi a Bratislava è stata la volta dell’avvento al potere dei popolari di OĽaNO e del premier Eduard Heger (emerso un anno fa dalle rovine di una crisi di governo lampo innescata da un plagio e rinfocolata dall’acquisto un po’ troppo repentino di 200mila dosi del vaccino russo Sputnik V, sulle orme dell’Ungheria). Conservatori sì, come del resto buona parte del centrodestra che si è appena insediato a Praga in coalizione con il Partito Pirata, ma non certo esponenti dell’internazionale sovranista come i leader al potere a Budapest e Varsavia.
Repubblica Ceca e Slovacchia, insomma, si sono stancate di fare il gioco anti-Bruxelles di Ungheria e Polonia. Una delle più plastiche rappresentazioni del V2+2 di fatto risale all’inverno 2020, nei giorni più tesi dello scontro per l’approvazione del nuovo bilancio settennale e del Recovery Plan: al pacchetto era collegato per la prima volta un meccanismo che condiziona l’esborso dei fondi Ue al rispetto dei principi dello stato di diritto nell’impiego degli stessi, avversato dai governi di Viktor Orbán e di Mateusz Morawiecki. L’opposizione, poi parzialmente disinnescata da una delle ultime mediazioni aperturiste verso l’est di Angela Merkel, non trovò lo sperato sostegno da parte di Praga e Bratislava. A schierarsi al fianco di ungheresi e polacchi nella crociata per mantenere l’accesso indiscriminato al Bancomat Ue fu solo un altro apprendista stregone della nuova Europa: il premier della Slovenia dalle simpatie trumpiane Janez Janša.
Non che la graduale comparsa di un altro volto di Visegrád, più simile a quello delle origini, sia arrivata inattesa: a fine 2019, a farsi carico di ripristinare la narrativa del blocco centro-orientale come pilastro dell’Europa unita erano stati infatti i sindaci delle quattro capitali, tutti a indirizzo pro-Ue, con il “Patto delle città libere” firmato da Gergely Karácsony (Budapest), Rafał Trzaskowski (Varsavia), Zdeněk Hřib (Praga) e Matúš Vallo (Bratislava).
Venivamo da anni in cui, soprattutto su dossier chiave come la migrazione, era quanto mai evidente la sintonia coriacea del Gruppo di Visegrád, diventato pecora nera dell’Europa politica e freno a un balzo qualitativo della legislativa. È questo il contesto in cui, per esempio, Ungheria, Polonia e Repubblica Ceca vengono condannate dalla Corte di Giustizia dell’Ue per essersi rifiutate di accogliere alcune decine di richiedenti asilo nel quadro del meccanismo temporaneo di ricollocazione attivato per gestire i flussi straordinari del 2015 nel Mediterraneo. Un’unità di intenti oggi sempre più appannata. A voler ragionare di temi, l’ambiente sembra essere quello più al riparo dalle spaccature, con i V4 – alle prese con la complessa decarbonizzazione delle loro economie − compatti dietro la Francia nel sostegno all’inserimento del nucleare, oltre che al gas, nella tassonomia verde dell’Ue, la lista delle fonti green a sostegno della transizione ecologica su cui i governi europei duellano da mesi.
Eppure, per il resto, non c’è solo la decisa virata verso ovest di Praga e Bratislava a mettere in luce che il re è nudo e che Visegrád, perlomeno come l’abbiamo conosciuta negli ultimi anni, non esiste più. L’agenda di politica estera, infatti, pone persino il binomio V2 più inossidabile, il Varsavia-Budapest, su due barricate nettamente opposte, con la prima decisa a chiedere un’azione più coraggiosa dell’Ue contro la Russia e la seconda, invece, di fatto vinta alle sirene del Cremlino. Il dossier Ucraina non ha fatto che confermarlo: non è passata inosservata l’assenza di Orbán, il 17 febbraio, al Consiglio europeo informale convocato per appena un’ora per fare il punto sulla crisi a est.
Riavvolgere il nastro di una storia così sfilacciata non è semplice, ma i due appuntamenti elettorali di 2022 in Ungheria e 2023 in Polonia possono contribuire a indicare la strada futura: dopo un giro immenso che ha dimostrato tutta la travolgente potenza dell’eterogenesi dei fini, il Gruppo di Visegrád potrebbe davvero rispolverare la prospettiva inaugurata 31 anni fa.
Un doppio successo del fronte unitario delle opposizioni in Ungheria questa primavera e degli europeisti di Donald Tusk in Polonia nel 2023 innescherebbe un avvitamento carpiato per Varsavia e Budapest con importanti ripercussioni anche sull’agenda Ue. Anzitutto per allentare il continuo braccio di ferro sullo stato di diritto, con la Commissione che alza i toni ma ritarda l’iniziativa nonostante la Corte di Giustizia dell’Ue abbia pronunciato a metà febbraio la legittimità del meccanismo di condizionalità. E poi anche per rilanciare un protagonismo costruttivo dell’Europa centro-orientale: ungheresi e polacchi sono infatti attesi dalla presidenza di turno del Consiglio dell’Ue rispettivamente tra luglio e dicembre 2024 i primi − nei mesi delicati dopo le europee in cui andrà gestita la partita del rinnovo delle istituzioni Ue − e subito dopo, tra gennaio e luglio 2025 i secondi − quando si avvicineranno gli ultimi tornanti del Recovery e l’Unione avrà ormai chiaro il sentiero imboccato dalla ripresa. Se la scommessa filo-Ue sarà vincente, l’Europa potrebbe arrivare senza scossoni a quello che ad oggi sembra un temibile appuntamento con l’annus horribilis dei governi illiberali. Lo spirito di Visegrád, insomma, tornerebbe a soffiare.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di marzo/aprile di eastwest.
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Cosa succede quando un Paese di poco meno di 3 milioni di abitanti − circa la popolazione di Napoli − decide di sfidare due potenze che si atteggiano a colossi neo-imperiali? La piccola Lituania affacciata sul Mar Baltico si è trovata nell’occhio del ciclone geopolitico tra la Russia, lo scomodo vicino con cui condivide 274 chilometri di frontiera, e la lontana Cina, oltre 6.500 chilometri più a est. Se il muro contro muro con la prima non è una novità, con la seconda ha non solo deteriorato le relazioni diplomatiche ma anche interrotto quelle commerciali.
È la contesa di Davide contro Golia, solo che in questa storia i giganti sono ben due, e si dà il caso siano pure i “rivali sistemici” di Nato e Ue. Gradualmente, lungo tutto l’arco dello scorso anno, la Lituania è diventata l’avamposto d’Europa contro la loro assertività. Tutto è cominciato con Mosca (e il suo “proxy” Aleksandr Lukashenko, l’autocrate della Bielorussia) e continuato con Pechino ma, come effetto immediato, ha avuto quello di inchiodare l’Unione europea alle sue responsabilità: vuole (oppure no) una politica estera unitaria del blocco? E, soprattutto, una strategia che sia interprete dei valori alla base del progetto Ue?
Dopo le elezioni dell’autunno 2020, il programma di Governo della coalizione di centrodestra capeggiata dalla premier Ingrida Šimonytė l’ha pure messo nero su bianco: i partiti si impegnano “a contrastare attivamente ogni violazione dei diritti umani e della democrazia e a difendere chi è in lotta per la libertà in ogni angolo del mondo, dalla Bielorussia a Taiwan”. Il filo rosso che unisce le due contese regionali è presto avvolto.
Cominciamo dalla prima. Il sollevamento dei bielorussi contro i brogli dell’estate 2020 e, quindi, le repressioni, le incarcerazioni illegittime e le sentenze politicizzate dell’establishment di Minsk lasciano tutt’altro che indifferenti la Lituania e gli altri Paesi della regione. Da Tallinn in giù, i baltici vi rivedono la loro stessa lotta per la libertà combattuta trent’anni fa, quando riottennero l’indipendenza al termine dell’occupazione sovietica iniziata durante la Seconda Guerra mondiale. Per questo la Lituania non solo ha da subito dato asilo agli oppositori di Lukashenko, ma è anche diventata la sede del Governo in esilio scelto dalle urne e dalle piazze e guidato da Sviatlana Tsikhanouskaya.
Insomma, la Resistenza bielorussa ha preso casa a Vilnius, mentre i lituani si sono dimostrati i più risoluti nel rifiutare una normalizzazione delle relazioni “con l’aggressore di Mosca”, imputando oltretutto al monopolista di Stato Gazprom il mancato aumento delle forniture di gas al continente che contribuisce a far schizzare i prezzi dell’energia alle stelle. Anzi, sperano di poter rivendicare per sé la prossima Segreteria Generale della Nato, per cui avrebbero la forte quanto divisiva candidatura dell’ex Presidente della Repubblica Dalia Grybauskaitė.
E fin qui è il racconto di un insolito quanto deciso protagonismo regionale del piccolo Stato baltico, oltretutto di fronte alle proteste nella vicinissima Bielorussia e a una Russia che è ineluttabile e ingombrante protagonista di ogni discussione nello spazio post-sovietico. Se non fosse che l’escalation è stata seguita da un braccio di ferro ancora più serrato, che la Lituania ha ingaggiato con la Cina.
Anche in questo caso all’origine c’è una scelta di campo: stare (più o meno) con Taiwan, l’isola che per Pechino è un territorio indipendentista. Chi la riconosce viola la “One China Policy”, è l’affondo del Dragone. Non che si tratti di una fronda affollata: in avvio di 2022, i Paesi che al mondo riconoscono la Repubblica di Cina con capitale Taipei sono appena 13; in Europa c’è solo la Santa Sede, mentre negli ultimi anni il consenso si è andato assottigliando soprattutto nell’America centrale, con il passo indietro di Repubblica Dominicana, El Salvador e Nicaragua. La Lituania, per intenderci, non hai parlato di riconoscimento diplomatico di Taiwan (non lo fa nessuno fra gli Stati Ue), ma si è mossa con i fatti autorizzando l’apertura a Vilnius di un ufficio di rappresentanza: i locali al numero 16b di Jasinskio gatvė sono diventati così l’epicentro di uno scontro a muso duro con la Cina, che in estate, per tutta risposta, ha richiamato l’ambasciatore in Lituania e dichiarato persona non grata la titolare della sede della repubblica baltica a Pechino. È l’avvio di un domino che innescherà la contesa diplomatica più sottostimata del 2021, ma destinata a espandersi e avere effetti nel nuovo anno.
“Un topo, o forse giusto una mosca, sotto la zampa di un elefante intenzionato a combattere”: il Global Times, quotidiano del Partito comunista cinese, non ha usato mezzi termini per descrivere l’iniziativa baltica e l’intensità della reazione del Dragone. I dirigenti cinesi mettono quindi pressione sul corpo diplomatico lituano rimasto nel Paese, ne vogliono riesaminare le carte d’identità speciali, riducono il rango della sede; un accerchiamento cui Vilnius risponde, poco prima di Natale, trasferendo tutte le operazioni da remoto. Nel frattempo era intervenuta la tagliola commerciale, con un embargo in piena regola e la cancellazione della repubblica baltica dai registri doganali della Cina: stop, in buona sostanza, ai traffici in entrata e in uscita. La ritorsione non si fa sentire subito; Pechino, del resto, è solo il 22esimo mercato per l’export lituano con appena l’1% del mercato, e valori non dissimili anche per l’import.
Nei giorni di maggiore tensione, la questione aleggia nei corridoi del vertice dei leader del Consiglio europeo, senza finire tuttavia mai al centro della discussione. Qualcosa potrebbe cambiare con l’inizio del 2022. Un dato da tenere d’occhio, come spesso accade quando sono in ballo le catene del valore in Europa, è la postura della Germania, che in questo caso è anche il primo partner della Cina. L’avvertimento della Confindustria di Berlino è semplice: “Le misure adottate contro la Lituania sono di fatto un boicottaggio commerciale che ha un impatto sull’intera Ue”. E sulla componentistica tedesca che, con il colosso dell’auto Continental, ha negli ultimi anni delocalizzato fasi della produzione proprio nel Baltico: una crisi da aggiungere alla strozzatura delle forniture globali di cui il settore non ha proprio bisogno.
Non che Bruxelles sia rimasta con le mani in mano: a metà dicembre la Commissione aveva infatti presentato la proposta legislativa di istituzione di un nuovo meccanismo di rappresaglia contro la coercizione economica, con cui dotare l’Unione di nuovi strumenti sanzionatori in risposta alle restrizioni agli scambi per fini politici. Un’operazione interessante, perché l’esecutivo Ue ha sfruttato la leva del contrasto strategico per ampliare il catalogo delle ipotesi in cui il Consiglio può decidere a maggioranza (come in materia commerciale) e senza seguire la gravosa unanimità propria invece delle deliberazioni di politica estera.
Da Vilnius, insomma, arriva anche la spinta per una più matura Unione geopolitica. L’unico modo per dialogare da pari con Pechino è un format 27+1, ha ribadito di recente il Ministro degli Esteri Gabrielius Landsbergis. Già a maggio dello scorso anno, infatti, la Repubblica baltica aveva abbandonato il Forum 17+1, la piattaforma creata dai cinesi per sviluppare la cooperazione con i Paesi dell’Europa centro-orientale e dei Balcani: un altro sentiero per gli investimenti della Nuova Via della Seta, che ha messo occhi e mani sui progetti infrastrutturali dell’ampia area. I lituani hanno provato a far saltare il tavolo, esprimendo la necessità di un approccio coordinato europeo all’interventismo cinese. Anche perché, se Vilnius continua a sfidare a viso aperto Mosca e Pechino, dalla sua dice di fare affidamento sulla carta di una comunità transatlantica pronta a non lasciarla sola. Ma forse crede nell’unità di intenti del summit delle democrazie persino più del presidente Joe Biden.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/febbraio di eastwest.
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In Europa i falchi non volano più (o quasi). C’è un inedito clima nel continente dopo che questa settimana il premier olandese Mark Rutte si è presentato in Parlamento per illustrare il programma di Governo messo a punto al termine di nove mesi di trattative di coalizione fatte di alti e bassi, stop e accelerazioni. Gli alleati, come avevamo raccontato su eastwest, sono gli stessi dello scorso esecutivo (liberali conservatori di Vvd e liberali progressisti di D66, insieme alle due formazioni minori di cristiano-democratici, Cda e Cu), ma la discontinuità rispetto a un passato fatto di austerità non è mai stata così marcata. E, in qualche modo, c’entra l’avvento della coalizione Semaforo in Germania.
Insomma, il quarto esecutivo Rutte diventa parecchio più progressista sulla spesa pubblica e rompe con la precedente etichetta di capofila dei frugali sul dossier forse più simbolico per misurare la temperatura del conflitto fra Nord e Sud Europa sui conti dello Stato: la riforma del Patto di stabilità e crescita, la disciplina di bilancio Ue che adesso non è più vista come un tabù da parte de L’Aia.
Il cambio di rotta degli olandesi è anzitutto una questione di politica interna: nel programma, largamente influenzato da D66 (arrivato secondo nelle urne, ma con una netta crescita nei consensi), per la prima volta si prevedono imponenti investimenti statali che rompono con la tradizione dell’austerità: più stanziamenti per scuola, difesa, edilizia sociale, clima vogliono anche dire che nei prossimi anni i Paesi Bassi supereranno il tetto – previsto nel Patto – del 60% del rapporto debito/Pil, calcola il Financial Times.
Di colpo, insomma, gli olandesi si trovano non più spettatori, ma parte attiva dello sforzo collettivo europeo (guidato da Italia, Francia e Spagna) per modernizzare la disciplina Ue sui conti pubblici. E in fondo finiscono persino a serrare i ranghi di una comunità di falchi convertiti, tra cui pure i tecnici del Mes, il Meccanismo europeo di stabilità, che nelle scorse settimane hanno invocato un superamento della regola del 60% visto che il debito pubblico nella zona euro durante la pandemia si è attestato attorno alla soglia record del 100%.
È proprio sull’agenda europea che si potrà misura l’impatto del nuovo corso olandese: nel 2022 le istituzioni Ue sono chiamate a rivedere la governance economica dell’Unione, compreso il Patto, in modo da arrivare al 1° gennaio 2023 – quando la disciplina di bilancio tornerà operativa dopo quasi tre anni di sospensione causa pandemia – già con regole modificate. Sul punto, il programma del nuovo esecutivo è morbido, anche se non troppo dettagliato: sì alla modernizzazione delle regole fiscali, purché serva alla sostenibilità di bilancio e alla convergenza economica. Insomma, il mantra adottato dal commissario europeo agli Affari economici in questi mesi (“riduzione del debito e investimenti per la crescita”) potrebbe adesso radicarsi pure nei Paesi Bassi.
“Siamo la quinta economia del continente, abbiamo la responsabilità di un ruolo più propositivo di quello che abbiamo avuto negli ultimi tempi”, commenta da L’Aia un portavoce di D66. E siccome la politica è fatta anche dalle persone, ai progressisti andrà con buone probabilità il Ministero delle Finanze, chiudendo così la gestione del super-rigorista Wopke Hoekstra, negli ultimi quattro anni bestia nera per i Paesi ad alto debito del Sud Europa. Tra le altre priorità della politica europea del Governo, pure una riscoperta del ruolo di Paese fondatore dell’Ue attraverso l’avanzamento dell’integrazione europea, in particolare con l’addio all’unanimità in materia di politica estera, ma anche maggiore attenzione ai temi dei diritti fondamentali e delle violazioni dello stato di diritto.
L’Aia, però, non è da sola nel nuovo orizzonte. La rottura con il passato arriva subito dopo l’uscita di scena di Angela Merkel, con Rutte diventato – insieme alla sua nemesi ungherese Viktor Orbán (che è però attesa da complicate elezioni in primavera) il leader più longevo d’Europa. E in effetti, potrebbe esserci anche lo zampino ideale del nuovo corso a Berlino dietro il cambio di passo (Rutte è stato tra i primi leader Ue che il neo-cancelliere Olaf Scholz ha sentito al telefono dopo l’insediamento). D66 non ne fa mistero: “Con questo accordo, il Governo olandese sarà ampiamente allineato alla coalizione Semaforo in Germania”. Pure fra i tedeschi, in effetti, c’è chi ha allentato la precedente linea del rigore a tutti i costi. Christian Lindner, il leader dei liberali che nel nuovo esecutivo presidierà le Finanze, nelle prime uscite s’è parzialmente lasciato alle spalle la vecchia linea rigorista, sposando invece la formulazione contenuta nell’accordo di coalizione con socialdemocratici e verdi, che parla di “garantire la crescita, la sostenibilità del debito e investimenti sostenibili ed ecologici”.
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“Un passo importante verso un’economia digitale più sociale”. L’annuncio di nuove regole per i lavoratori delle piattaforme digitali in Europa arriva nei giorni più caldi per Uber nella capitale del Belgio e delle istituzioni Ue. Da fine novembre, la popolare app di taxi si è “spenta” nella regione di Bruxelles dopo una pronuncia della Corte d’Appello in applicazione di un vecchio regolamento sul servizio di noleggio con conducente. Eppure, mentre il Governo regionale di Bruxelles riflette sulle modalità per reintegrare parte dei 2mila autisti rimasti senza lavoro e per mettere mano a una complessiva riforma del servizio taxi, l’assist sulla necessità di prevedere tutele nuove e più incisive arriva dal cuore del quartiere europeo.
A palazzo Berlaymont, sede della Commissione europea, questa settimana è stato svelato il contenuto di una proposta di direttiva per regolare il fenomeno della “gig-economy” – dai driver di Uber ai rider di Deliveroo, Just Eat e Glovo – e per prevedere nuove norme per quei lavoratori delle piattaforme digitali che sono qualificati come autonomi ma sono invece di fatto dei dipendenti.
Secondo le stime rese note dalla Commissione, sono 28 milioni gli europei che lavorano attraverso app; un numero destinato a crescere fino ad almeno 43 milioni nei prossimi quattro anni. Tra questi, più di 5 milioni sarebbero autonomi fittizi. La proposta di direttiva presentata ieri dall’esecutivo Ue per la prima volta mette nero su bianco una presunzione che ribalta l’onere della prova a carico delle piattaforme: se la multinazionale dell’online soddisfa almeno due dei cinque criteri individuati da Bruxelles (si va dalla definizione del livello di retribuzione e dell’orario di lavoro all’abbigliamento e alla possibilità di lavorare per clienti terzi), questa – se non sarà in grado di provare il contrario – sarà considerata datore di lavoro e dovrà regolarizzare i rider come dipendenti. Con tutti i diritti che ne derivano, come le ferie retribuite e la protezione sugli infortuni sul lavoro, ma anche sussidi di disoccupazione e diritto ai contributi pensionistici.
Sempre secondo i calcoli dell’esecutivo Ue contenuti nella valutazione d’impatto della misura, tra 1,72 e 4,1 milioni di lavoratori della “gig-economy” potrebbero concretamente beneficiare delle nuove regole, anche se il guadagno netto medio annuo sulla base di queste stime si attesterebbe ad appena 121 euro nelle tasche di ciascun lavoratore (alcuni dei quali prendono già più del salario minimo). Ad avere maggiori introiti, una volta che tutti gli autonomi fittizi della gig economy saranno correttamente classificati come subordinati, potrebbero invece essere le casse degli Stati, che potrebbero ricevere fino a 4 miliardi di euro all’anno di contributi in più.
“Il progresso tecnologico deve essere equo e inclusivo – ha commentato il Commissario europeo al Lavoro Nicolas Schmit -. Ecco perché la nostra proposta riguarda anche la trasparenza e la sorveglianza degli algoritmi delle piattaforme”. Critica invece BusinessEurope, la rete europea delle Confindustrie nazionali, per cui l’iniziativa “non riflette la realtà, perché molti lavoratori scelgono di essere autonomi. La Commissione ha preferito far passare un messaggio politico anziché proporre una soluzione equilibrata per lavoratori, piattaforme e utenti”.
La proposta di direttiva dovrà adesso essere discussa da Parlamento europeo e Governi e, una volta adottata, ci sarà un periodo di due anni prima dell’entrata in vigore delle nuove norme. Per questa ragione c’è già chi – come ad esempio i sindacati in Italia, dove si registra anche l’apertura del Ministro del Lavoro Andrea Orlando -, approfittando della pressione politica sul tema sta chiedendo di anticipare i tempi e mettere mano a un intervento legislativo ad hoc, nelle more della discussione dell’iniziativa Ue.
Nello stesso pacchetto sul lavoro del futuro, l’esecutivo ha anche avviato una consultazione, aperta fino a metà febbraio, su un progetto di linee guida per consentire ai lavoratori autonomi di accedere alla contrattazione collettiva, superando gli ostacoli posti dalle regole Ue sulla concorrenza come il divieto di cartello.
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Di fronte al dramma umanitario in atto alla frontiera con la Bielorussia, l’Unione europea decide, in buona sostanza, di voltarsi dall’altra parte. E di cedere al pressing di Polonia, Lituania e Lettonia, i tre Paesi al confine che da mesi denunciano l’azione destabilizzatrice del regime di Aleksandr Lukashenko, impegnato ad agevolare il transito e spingere migliaia di migranti verso la frontiera con l’Ue.
Questa settimana la Commissione europea ha infatti annunciato che per i prossimi sei mesi Varsavia, Vilnius e Riga potranno sospendere alcune delle regole in materia di asilo e applicare procedure semplificate per i rimpatri. Si tratta di “una serie di misure temporanee per affrontare la situazione di emergenza”, hanno spiegato da Bruxelles. La base giuridica è la stessa (l’articolo 78.3 del Trattato sul funzionamento dell’Ue) invocata nel 2015 per avviare i ricollocamenti dei richiedenti asilo e alleviare la pressione su Italia e Grecia (e anche Ungheria, se solo avesse accettato). Le similitudini, però, finiscono qui, visto che stavolta non c’è l’ombra di solidarietà e redistribuzioni, ma solo il pugno di ferro su domande d’asilo e rimpatri e l’applicazione delle procedure di frontiera.
Nel dettaglio, si allungano i tempi per la registrazione delle domande d’asilo (a disposizione quattro settimane, anziché l’attuale intervallo di 3-10 giorni) e, nell’attesa, si potranno trattenere i migranti in appositi centri alla frontiera fino a un massimo di 16 settimane (salvo che in casi particolari per richiedenti con problemi di salute). Secondo le organizzazioni per i diritti umani, si tratta di una detenzione di fatto: così facendo “si mette la politica al di sopra delle persone”, ha commentato l’Ong Oxfam, mentre per Human Rights Watch “una disposizione di emergenza usata sei anni fa per far sì che i Paesi Ue condividessero equamente le responsabilità per i richiedenti asilo, nel 2021 è usata per giustificare la detenzione, affrettare l’esame delle domande e rimandarli indietro il prima possibile”.
Eppure, la verità è che “i numeri non sono alti”, ha ammesso la commissaria agli Affari Interni Ylva Johansson, ricordando che “8mila migranti hanno superato la frontiera bielorussa” e “si trovano in Polonia, Lituania e Lettonia, mentre altri 10mila hanno raggiunto la Germania”. Gli attraversamenti nel Mediterraneo centrale da inizio anno sono stati oltre 55mila, e quelli nella rotta balcanica 48.500.
La proposta andrà adesso approvata dai Governi dei Ventisette riuniti nel Consiglio, ma non si prevedono sorprese: la crisi con la Bielorussia ha messo infatti in luce come il contagio geografico (e di agenda politica) sia ormai avvenuto.
L’approccio rispetto agli sbarchi nel Mediterraneo ha fatto da apripista, ma il linguaggio e l’orizzonte non cambiano; anzi: la “Fortezza Europa” si ripropone anche a est. E pure quando si trova davanti migranti strumentalizzati come parte di un attacco ibrido scagliato dall’autocrazia bielorussa, la risposta di Bruxelles è una sola: più rimpatri. La stessa, a dirla tutta, contenuta nel Nuovo Patto Ue sulla migrazione e l’asilo, che infatti il vicepresidente dell’esecutivo Margaritis Schinas vuole adesso rilanciare: “Non ci sarà mai un momento migliore di questo per raggiungere un accordo. L’opinione pubblica ne vede i benefici”.
La Commissione non intende autorizzare respingimenti in conflitto con il diritto internazionale, hanno ripetuto dal podio Johansson e Schinas, ma al tempo stesso non condanna le pratiche della guardia di frontiera polacca e i provvedimenti adottati dai Paesi della regione. Gli stessi che criminalizzano anche la solidarietà: “Chi porta acqua e coperte nella zona rossa rischia la galera”, raccontano gli europarlamentari che si sono recati in missione al confine nelle ultime settimane. Confine a cui non possono accedere né gli organi di stampa né gli operatori delle Ong; e dove – lì sì, non nei documenti interni di Bruxelles – viene cancellato il Natale dell’Europa. Lì, al freddo e al gelo.
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Il Parlamento europeo va alla battaglia per il rinnovo della presidenza, ma David Sassoli non ha nessuna intenzione di passare la mano. Lo scontro tra i vari gruppi dell’Aula di Strasburgo entra nel vivo dopo che questa settimana gli eurodeputati del Ppe, la principale forza di centrodestra, hanno scelto nel corso di primarie interne con una netta maggioranza la maltese Roberta Metsola come candidata alla carica più alta dell’emiciclo. L’attuale numero due di Sassoli come vicepresidente vicaria del Parlamento è in corsa per quando, a metà gennaio, arrivato il giro di boa della metà del mandato, l’Eurocamera sarà chiamata a rinnovare l’ufficio di presidenza. A cominciare dalla poltrona più alta, quella che dal luglio 2019 è occupata dall’italiano Sassoli, in quota socialdemocratici dell’S&D. Si apre così una lunga, imprevista e imprevedibile campagna elettorale in cui alla fine le altre forze, soprattutto verdi e liberali, faranno pesare i propri consensi.
Secondo gli accordi di legislatura sottoscritti due anni fa dai principali gruppi parlamentari (Ppe, S&D e centristi-liberali di Renew Europe), infatti, dopo due anni e mezzo di presidenza socialdemocratica, la guida del Parlamento deve passare a un esponente popolare. Non uno qualsiasi, ribattono però dal campo del centrosinistra: l’intesa prevedeva infatti un cambio in corso fra Sassoli e il capogruppo del Ppe Manfred Weber, il bavarese sfortunato aspirante alla presidenza della Commissione, cui i capi di Stato e di governo preferirono Ursula von der Leyen. Visto che Weber si è però tirato indietro – interessato com’è semmai a rivestire al contempo i panni di capogruppo e presidente del partito per rilanciare un Ppe in affanno -, l’S&D giudica il patto rotto.
Inoltre, c’è un dato molto politico di cui tenere conto. Sassoli lo ha affidato a un intervento davanti ai colleghi S&D, dicendo disponibile al bis: “Non possiamo permetterci di arrivare alle elezioni europee del 2024 con le istituzioni Ue a trazione conservatrice”. Del resto, secondo molte fonti S&D sarebbero stati i popolari (che hanno già la presidenza della Commissione con von der Leyen) a tradire l’intesa, eleggendo un anno fa a capo dell’Eurogruppo, la riunione informale dei ministri delle Finanze dell’eurozona, l’irlandese Paschal Donohoe anziché la socialista spagnola Nadia Calviño. Cedere senza combattere la guida del Parlamento “sarebbe un errore in un momento in cui in Europa siamo in vantaggio come famiglia politica”, ha aggiunto Sassoli. Nel frattempo, infatti, molto è cambiato nei rapporti di forza: non solo il Ppe ha visto l’addio della delegazione ungherese di Fidesz, il partito di Viktor Orbán (che guarda al consolidamento di una gruppo sovranista), ma ha anche perso la guida del governo tedesco, ultimo Paese a tradizione conservatrice nel club dei grandi.
Adesso punta su Metsola per risalire la china, anche perché il profilo della maltese sembra vincente sotto vari punti di vista. Porterebbe di nuovo una donna sullo scranno più alto di Strasburgo 20 anni dopo Nicole Fontaine, sarebbe la più giovane Presidente del Parlamento mai eletta e anche la prima proveniente da un piccolo Stato membro. E pure del Sud. In cerca di nuove direzioni politiche dopo la batosta rimediata in casa, poi, i popolari tedeschi punterebbero su Metsola nella speranza di conservare importanti presidenze di commissioni parlamentari.
Il nome della maltese – capace di pescare consensi trasversali – potrebbe dare del filo da torcere alla candidatura mediterranea di Sassoli: nel pallottoliere dell’Aula sposta poco, ma ad esempio il premier di Malta Robert Abela, laburista, ha già detto che sosterrà la corsa della connazionale. Decisivi nella conta sono però, a Strasburgo come a Berlino – dove hanno appena inaugurato il Governo di coalizione -, verdi e liberali. Questi ultimi, che con il recente ingresso di Carlo Calenda hanno toccato quota 100 membri, esprimono già, con il belga Charles Michel, la presidenza del Consiglio europeo, altra carica che si rinnova dopo due anni e mezzo, e devono stare attenti a tutelare gli equilibri con Ppe e S&D per non far crollare tutto l’assetto da manuale Cencelli in salsa Ue. Qualcuno fra loro non ha escluso il voto per Metsola, ma nessuno ha finora ufficializzato la posizione del gruppo Renew Europe, che attende paziente di capire come posizionarsi. Stanno (per ora) a guardare con candidature di bandiere la destra sovranista di Ecr e Id e l’ultrasinistra di The Left.
Il copione è in fin dei conti simile a quello del 2017: anche allora l’accordo di legislatura che prevedeva una ripartizione della presidenza fra Ppe e S&D saltò all’ultimo, con la candidatura di Gianni Pittella contro Antonio Tajani. Alla fine prevalse il forzista, grazie al passo indietro del liberale Guy Verhofstadt. Ma da allora il gruppo centrista ha cambiato pelle, e oggi è saldamente controllato da Emmanuel Macron. Che nelle prime settimane della presidenza francese del Consiglio Ue non vorrà certo farsi nemici in Parlamento.
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