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Alla fine è toccato al Presidente degli Stati Uniti Joe Biden spiegare la nuova strategia della Nato, uscita dal vertice di Madrid più forte, allargata a Svezia e Finlandia ma concentrata soprattutto a est. Un vertice che era stato immaginato per ridare smalto all’Alleanza con la riforma 2030, che avrebbe dovuto ridisegnare il perimetro dell’azione e delle sfide future e che è divenuta fatalmente ostaggio della crisi ucraina.
“L’ultima volta che la Nato ha elaborato una nuova strategia è stato 12 anni fa; – ha spiegato Biden al termine del vertice – a quel tempo, la Russia era definita un partner e la Cina non era neppure menzionata. Il mondo è cambiato parecchio da allora, e anche la Nato sta cambiando. Abbiamo invitato due nuovi membri a unirsi alla Nato, un atto storico; – ha aggiunto il Biden – Finlandia e Svezia sono due Paesi con una lunga tradizione di neutralità, che hanno scelto di unirsi alla Nato. Stiamo posizionando più navi in Spagna, più difese aeree in Italia e Germania. E sul fianco orientale, uno nuovo quartier generale permanente in Polonia, una brigata da combattimento aggiuntiva in Romania, dispiegamenti aggiuntivi a rotazione nei Paesi Baltici. Le cose cambiano per adattarci al mondo com’è oggi, e tutto questo accade sullo sfondo dell’aggressione russa contro l’Ucraina”.
Secondo Biden, mentre la Russia rappresenta una “minaccia diretta” per l’Europa, la Cina sfida “l’ordine mondiale basato sulle regole”.
“La crisi ucraina – osserva l’ex Segretario Generale aggiunto della Nato, Ambasciatore Alessandro Minuto Rizzo – ha obbligato la Nato a concentrarsi sul rafforzamento del fronte orientale con la gran parte dei 300mila uomini della forza di intervento rapido quasi tutti dispiegati tra Polonia e Paesi Baltici”. Ma qualcosa resta dell’impostazione iniziale del vecchio concetto strategico, aggiunge Minuto Rizzo. “Ad esempio, si cita la Cina come nuova minaccia sistemica per la sicurezza occidentale”.
Dello stesso parere Stefano Pontecorvo, già Ambasciatore italiano in Pakistan e, da ultimo, rappresentante civile della Nato a Kabul. “La Nato – osserva Pontecorvo – sta uscendo dai confini europei e si sta occupando del mondo e di minacce sistemiche come quelle della Cina. Un cambio di passo significativo per un’alleanza che finora si era concentrata sulle sfide del Mediterraneo e dei Balcani”. Non proprio un segnale incoraggiante per l’Italia che si trova sguarnita a far fronte alle minacce provenienti dalla sponda sud del Mediterraneo in termini di flussi migratori e sacche non ancora totalmente sradicate di fondamentalismo islamico. Soprattutto nel momento in cui è tutta in mano italiana la missione Nato in Iraq.
Ma cosa cambierà tutto ciò per l’Italia? Secondo il Ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, “è stato peraltro annunciato l’adattamento della presenza militare statunitense in Europa: aspetto che, per quanto riguarda l’Italia, comporterà lo schieramento – a seguito delle previste procedure di autorizzazione – di 65 unità aggiuntive di personale, nonché di una batteria per la difesa aerea a corto raggio, destinata a consentire la rotazione di analoghe batterie già schierate sul fianco est”. “Questo summit è un momento storico”, ha aggiunto il Ministro Guerini, “un momento di trasformazione. Evolversi senza perdere la propria identità, adattarsi ai tempi che cambiano: sono i segreti del successo di un’organizzazione difensiva che, in 73 anni di storia, ha saputo rinnovarsi mantenendo intatta la sua missione: difendere i propri membri dalle minacce esterne, senza costituire una minaccia per altri”.
È quindi un fatto che la gran mole di uomini, mezzi e risorse economiche dell’Alleanza atlantica per i prossimi anni sarà assorbita quasi per intero dal fronte orientale. Se a ciò si aggiunge il fatto che ormai da anni il Segretario Generale della Nato è espressione di Paesi del Nord (prima il danese Rasmussen e ora per un altro anno il norvegese Stoltenberg) tutto ciò concorre a rendere tutta in salita la candidatura di un nuovo Segretario del sud Europa o meglio, come si vorrebbe, dell’Italia. Non si può certo definire un segno di grande rispetto per gli altri leader dell’Alleanza la repentina partenza del premier italiano Mario Draghi a vertice non ancora concluso, richiamato in Italia da vicende tutte domestiche.
Draghi resta tuttavia uno dei candidati possibili alla successione di Stoltenberg, anche se era stato proprio Draghi un anno fa, al G7 in Cornovaglia, a escludere una candidatura italiana (in quel momento i nomi che si facevano erano quelli di Enrico Letta e Matteo Renzi). I temi della crisi ucraina e della nuova postura della Nato saranno comunque al centro, martedì prossimo, del viaggio lampo di Draghi ad Ankara per un incontro con il Presidente Recep Tayyp Erdogan. Sarà, quella, l’occasione per ribadire le scuse dopo le dichiarazioni con cui il Presidente del Consiglio definiva “dittatore” il Presidente turco. Ma anche per chiarire alcuni aspetti del negoziato con Mosca sull’Ucraina e del memorandum con la Nato che prevedrebbero la possibilità di estradizione da Svezia e Finlandia di aderenti al partito curdo Pkk. E il via libera dagli Usa all’invio in Turchia degli F16 (per gli F35 bisognerà attendere ancora).
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Nelle varie sessioni di lavoro tra domenica 26 e martedì 28 a Schloss Elmau, nelle montagne bavaresi, i sei leader del G7, oltre alla Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e al Presidente del Consiglio europeo Charles Michel, hanno ascoltato con attenzione il premier Mario Draghi che snocciolava tutti i rischi che sta correndo l’economia mondiale a causa della crisi tra Russia e Ucraina.
Una riflessione che non riguarda solo l’Unione europea e i timori sul riaccendersi dell’inflazione trascinata in alto dall’aumento del prezzo degli idrocarburi. Riflessione che ha trovato una sponda fondamentale nel Presidente francese Emmanuel Macron ma soprattutto nel Presidente americano Joe Biden, che già da giorni insisteva per un tetto al prezzo del greggio.
Alla fine, anche il Cancelliere tedesco Olaf Scholz (che solo pochi giorni prima a Bruxelles al vertice Ue di Bruxelles era apparso molto cauto sull’introduzione di un tetto al prezzo del gas) è apparso molto più collaborativo, sposando le riflessioni di Draghi sul significato geopolitico della misura. Certo, ora se ne occuperanno i ministri tecnici dell’energia e, come ha riferito Macron, non sarà una decisione semplice ma il comunicato finale del G7 ha messo un punto sulla questione imprimendo una forte accelerazione alle decisioni europee. Il G7, recita il comunicato finale, “accoglie con favore la decisione dell’Unione europea di esplorare con i partner internazionali modi per contenere i prezzi crescenti dell’energia, inclusa la fattibilità di introdurre tetti temporanei ai prezzi, ove appropriato”. E poi ancora: “Mentre riduciamo gradualmente l’afflusso del petrolio russo sui nostri mercati – continuano i leader – cercheremo di sviluppare soluzioni che consentano di raggiungere il nostro obiettivo di ridurre i ricavi della Russia dagli idrocarburi, sostenendo la stabilità nei mercati globali dell’energia, minimizzando nel contempo gli impatti economici negativi, specialmente nei Paesi a basso e medio reddito”.
Secondo Draghi, tuttavia, “è difficile capire che cosa farà la Russia con il gas: andiamo avanti cercando di prepararci. La strada consiste nel diversificare le fonti, nell’aumentare i livelli di stock, nell’incrementare gli investimenti nelle rinnovabili, facendo anche investimenti di lungo periodo nei Paesi in via di sviluppo”. Sull’introduzione di un tetto al prezzo del gas interviene anche il Cremlino, secondo il quale spetta a Gazprom decidere e probabilmente “vorranno rivedere i contratti in essere”. Così il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov.
Ma il G7 si preoccupa anche della sicurezza alimentare nei Paesi più poveri aggravata dal blocco delle navi ricolme di grano e fertilizzanti bloccate nei porti ucraini. “Ribadiamo – recita il comunicato del G7 – il nostro urgente appello alla Russia affinché metta fine senza condizioni al blocco dei porti ucraini sul Mar Nero e smetta di distruggere infrastrutture portuali di trasporto, terminali e silos per il grano e di appropriarsi in modo illegale di prodotti agricoli e attrezzature ucraine. Sosteniamo fortemente l’Ucraina nel riprendere le sue esportazioni agricole sui mercati mondiali – si legge ancora – nonché gli sforzi delle Nazioni Unite per sbloccare un corridoio marittimo sicuro attraverso il Mar Nero”. Secondo Draghi, “la situazione” del grano “deve essere sbloccata in tempi rapidi; occorre immagazzinare il raccolto nuovo”. “Ma – ha aggiunto il Presidente del Consiglio – il Segretario generale dell’Onu ha detto che siamo ormai vicini al momento della verità per capire se la Russia vorrà sottoscrivere un accordo che permetterà al grano di uscire dai porti”.
Ma il G7 in tempo di guerra ha soprattutto concordato aiuti economici e militari a Kiev “fino a quando saranno necessari”. Una sorta di “Whatever it takes” a favore dell’Ucraina.
L’ultimo drammatico attacco missilistico russo a Kremenchuk, città di 200mila abitanti nella regione centro-orientale di Poltava, nelle stesse ore in cui i sette grandi si riunivano nelle Alpi bavaresi, rappresenta l’ennesima provocazione russa. Il Cancelliere tedesco, Presidente di turno del G7, in conferenza stampa a Elmau è stato chiaro: “Continueremo ad aumentare i costi politici ed economici per il Presidente Putin: per questo è importante stare insieme. Anche se è un percorso lungo, dobbiamo reggere. Forniremo armi e molti altri Paesi lo stanno facendo”. Anche per Draghi “non ci sarà pace se l’Ucraina non sarà in grado di difendersi. Senza difese c’è imposizione, sottomissione e oppressione, non c’è pace. Finora il sostegno del G7 è stato sufficiente, la condizione essenziale per la difesa. Questo costituisce una sorpresa, nessuno pensava che l’Ucraina potesse difendersi con efficacia e coraggio, come sta facendo. Le ultime settimane hanno visto un costante progresso delle forze militari russe. Tutti guardiamo quello che succede sul campo, il sostegno all’Ucraina andrà avanti e continuerà in maniera unitaria e adeguata”.
Chiuso il G7, Draghi si trasferisce a Madrid per partecipare al vertice della Nato che avrà come tema centrale sempre la crisi ucraina. “Dal vertice Nato – dice – ci aspettiamo la riaffermazione di unità e di fermezza già espresso dal G7 e poi, probabilmente, un ampliamento della Nato alla Svezia e alla Finlandia. Gli effetti di questa guerra sono imprevedibili, ora ci troviamo un’Unione europea più unita, una Nato più unita e più grande. Tutti i Paesi limitrofi alla Russia cercano protezione e riarmamento. Le cose non stanno andando come avrebbe voluto il Presidente Putin”.
Ci si interroga ora sul futuro di una soluzione diplomatica come suggerito dall’ex segretario di Stato Usa Henry Kissinger, secondo il quale meglio una Russia europea che una Russia asiatica alleata della Cina. E ci si interroga, quindi, sulla possibilità che Putin possa partecipare al prossimo vertice del G20 di Bali. Draghi ha riferito che la presidenza indonesiana avrebbe escluso una partecipazione in presenza del Presidente russo. Pronta la replica del portavoce del Cremlino: “Il Presidente russo Vladimir Putin ha ricevuto l’invito per il vertice del G20 e vi parteciperà, non è il Presidente del Consiglio italiano Mario Draghi a decidere sulla partecipazione di Putin al vertice”.
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BRUXELLES – Nella notte tra giovedì e venerdì a Bruxelles ce l’ha messa davvero tutta il premier Mario Draghi (spalleggiato dal Presidente francese Emmanuel Macron e dal Presidente del Consiglio Ue Charles Michel) per convincere gli altri partner che un Consiglio straordinario a luglio sul cosiddetto “price cap” per il gas si rendeva assolutamente indispensabile.
In un primo tempo il Cancelliere tedesco Olaf Scholz non si era opposto in linea di principio ma alla fine avrebbe manifestato tutti i suoi timori per una possibile reazione russa su nuove riduzioni delle forniture di gas. “Ma vi rendete conto – avrebbe detto Draghi – che stiamo pagando gli stessi soldi per avere da Mosca metà del gas di qualche mese fa? Solo l’Italia, è passata dal 40% di forniture al 25%”. “Lo sappiamo bene – è stata la risposta di Scholz – ma c’è il rischio che la Russia blocchi pure l’altra metà del gas”.
Preoccupazioni analoghe anche da parte del premier olandese Mark Rutte, anche se nei corridoi di Justus Lipsius circolava tra i diplomatici la voce secondo la quale Rutte era più che altro preoccupato di dover rinunciare alle proprie ferie nel caso di un vertice straordinario. Essendo luglio, per i Paesi del Nord Europa il mese tradizionale per le ferie estive, un po’ come da noi agosto. Sta di fatto che la Commissione, per non ripetere le conclusioni del vertice di maggio ma tenendo presenti le resistenze di alcuni Paesi, si è impegnata a predisporre entro settembre una proposta complessiva su tutti i problemi dell’energia, dal gas alle rinnovabili, sulla quale i 27 si pronunceranno nel vertice di ottobre.
Ma non è un po’ troppo tardi? È stato chiesto a Draghi in conferenza stampa. “Certo – ha risposto il Presidente del Consiglio – potrebbe essere tardi. Soprattutto se avvengono altre cose sul fronte dell’energia. Ma su questo il Consiglio europeo è stato aperto: se la situazione dovesse aggravarsi è chiaro che ci sarà un Consiglio straordinario. È stato detto esplicitamente, non è che stiamo lì a far passare due mesi e mezzo senza fare niente”. Il price cap, secondo Draghi, “è la cosa che chiunque suggerisce di fare in questa situazione. Nei confronti della Russia l’Ue ha un potere di mercato che deve esercitare attraverso il price cap. Non lo fa perché c’è paura da parte di qualcuno che la Russia tagli le forniture di gas ancora di più. Ma quello è già successo.”
Di sicuro Draghi punterà a tenere caldo il tema da domenica al vertice G7 di Schloss Elmau in Germania, facendo leva sulla posizione americana espressa dal segretario al Tesoro Usa Janet Yellen a favore di un price cap per il prezzo del greggio.
Insomma, l’Europa che, secondo Draghi, con la crisi ucraina ha compiuto un vero “salto identitario” nella sua dimensione esterna divenendo sempre più attrattiva per Paesi come Ucraina, Moldova e Georgia, rischia tuttavia di fare i conti con la mancanza di unità su temi centrali rimasti da tempo irrisolti (politica comune in campo energetico come in quello fiscale).
Draghi è preoccupato anche per gli effetti che il prezzo del gas potrebbe avere sulla ripresa dell’inflazione. “Ci stiamo preparando proprio in funzione di questo inverno; – osserva Draghi – le misure che si stanno pensando in Italia assicurano nel caso vi sia emergenza durante l’inverno. Tutti gli studi che ho visto finora danno un quadro nel quale, grazie proprio alla ricerca di altri fornitori, dal punto di visto dei volumi noi siamo in una posizione buona”. “Noi – ha aggiunto Draghi – siamo stati molto rapidi nei primissimi giorni dell’inizio della guerra: abbiamo assicurato una rete di fornitori all’Italia e siamo relativamente ottimisti che tutto ciò possa compensare pienamente le importazioni di gas russo entro un anno, un anno e mezzo. Comunque, i risultati si vedono anche ora e sono migliori di quello che ci si aspettava”.
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La guerra in Ucraina sta cambiando l’Europa. E, in molti casi, non in peggio. La conferma all’Eliseo di Emmanuel Macron che, come Presidente di turno dell’Unione europea, ha svolto un ruolo attivo nelle ultime settimane per aprire un dialogo con Mosca è un primo segnale positivo che lascia bene sperare per il futuro della costruzione europea che veda finalmente concretizzarsi una politica estera e di difesa comune.
Rafforzato dal risultato delle urne Macron punterà ora tutte le sue carte per far approvare in maggio la cosiddetta “bussola strategica” che prevede un primo embrione di esercito europeo sia pure non in concorrenza con la Nato. Mario Draghi, dal suo buen retiro umbro che lo ha ospitato durante l’isolamento da Covid-19, ha accolto con soddisfazione la conferma di Macron. La sua rielezione rafforza infatti la strategia europea del Presidente del Consiglio italiano per la riforma del Patto di stabilità e il Pnrr così come le azioni di politica interna necessarie a favorire funa soluzione diplomatica per la crisi ucraina.
Dopo una prima fase di passi incerti e un po’ tentennanti due mesi fa coronati dalla “gaffe” (assai poco gradita a Washington) dell’annuncio di un viaggio a Mosca a crisi ormai conclamata, nelle ultime settimane Draghi ha ripreso in pieno il dominio del dossier ucraino. Non ci sono conferme ufficiali ma Palazzo Chigi sta lavorando a un viaggio a Kiev per un incontro con il Presidente Zelenski prima dell’annunciato viaggio a Washington, così come hanno già fatto altri leader europei.
Petro Poroshenko, Presidente dell’Ucraina dal 2014 al 2019 ha detto di attendere Draghi “a braccia aperte”. “Lo conosco bene – ha aggiunto Poroshenko – ci siamo incontrati quando ero Presidente, un grande leader europeo che non ha avuto dubbi nel sostenere la nostra causa sin dall’inizio dell’invasione russa”.
Il 29 marzo, nel colloquio telefonico con Putin, Draghi ha avuta netta la sensazione che la soluzione diplomatica è al momento una chimera. Il premier italiano ha ribadito al Presidente russo “la disponibilità del Governo a contribuire al processo di pace, in presenza di chiari segni di de-escalation da parte della Russia”. Putin si sarebbe detto d’accordo sull’ipotesi che l’Italia, i membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu, Germania, Canada, Turchia, svolgano una funzione di garanti sia sul rispetto della neutralità da parte dell’Ucraina, sia per quanto riguarda la rinuncia al nucleare di Kiev e a eventuali sinergie con la Nato. In più, le stesse fonti fanno sapere che il Presidente russo si è detto “soddisfatto” per come procedono i negoziati di Istanbul e per la decisione dell’Ucraina di restare neutrale sul modello Austria. A un certo punto del colloquio la chiamata si è interrotta ed è stato Putin a ritelefonare. Assieme hanno concordato “sull’opportunità di mantenersi in contatto”. Ciò significa che Putin e Draghi torneranno a sentirsi, dopo che in febbraio l’esplosione della guerra aveva fatto saltare la trasferta del premier italiano a Mosca.
La prossima missione di Draghi in Ucraina servirà anche per chiarire la notizia non confermata sulla morte di 11 foreign fighters italiani in Ucraina nel corso di operazioni di combattimento contro i russi. Diverse fonti di intelligence hanno smentito la notizia: “non c’è la conferma né della presenza in loco né della morte dei connazionali – hanno fatto sapere fonti di intelligence – tuttavia la notizia fatta pervenire a palazzo Chigi dal ministero della Difesa russo è in corso di accertamento”.
Ma la visita di Draghi a Kiev coinciderà molto probabilmente con l’approvazione del terzo decreto per l’invio di armi a Kiev. Il 26 aprile, nella base americana di Ramstein in Germania, si è tenuto un maxi vertice tra 40 Ministri della Difesa, venti di Paesi della Nato e altri venti che stanno fornendo armi alla resistenza ucraina. L’Italia, oltre a predisporre un pacchetto di aiuti economici da 200 milioni a favore di Kiev (oltre ai 110 già stanziati), sta preparando l’invio di artiglieria e cingolati pesanti. Sistemi di difesa come i Sidam 25 antiaereo montati su cingolati M113 e anche mezzi molto più moderni come una settantina di obici PzH2000 di fabbricazione tedesca con gittata massima di 40 Km.
Nonostante le resistenze di alcuni settori dei Cinque stelle e di una parte della sinistra, Draghi sa di avere disco verde nell’invio di altre armi alla resistenza ucraina. Dietro queste forniture ci sono le prove in corso per chi salirà sul vagone di testa della difesa europea che avrà molto probabilmente una guida francese. “La Bussola – ha detto Draghi in Parlamento – è stata adattata alla luce della guerra in Ucraina, che rappresenta la più grave crisi in ambito di difesa nella storia dell’Unione europea e prevede l’istituzione di una forza di schieramento rapido europea fino a 5mila soldati e 200 esperti in missioni di politica di difesa e sicurezza comune. A queste iniziative si aggiungono investimenti nell’intelligence e nella cybersicurezza, lo sviluppo di una strategia spaziale europea per la sicurezza e la difesa e il rafforzamento del ruolo europeo”.
L’ex Presidente della Commissione Ue Romano Prodi non si stanca di ripetere che sulla difesa europea occorrerà arrivare a un meccanismo di cooperazione rafforzata. La pensa allo stesso modo il segretario del Pd Enrico Letta. “Ritengo – ha detto di recente Letta – che non ci possa essere una scelta vera, un passo avanti sulla difesa comune, se non c’è un impegno, un passo chiaro dei cinque grandi Paesi europei. Francia, Germania, Italia, Spagna e Polonia che dicono ‘decidiamo di andare in questa direzione, con questi tempi’. Se non c’è questo, non credo ci possa essere una difesa comune. Poi ci saranno gli altri passaggi burocratici, ma il mio auspicio è che questo passo ci sia e che l’Italia ne sia promotrice, considerando il ruolo importante che svolgono Spagna e Polonia”.
Eppure le armi all’Ucraina dividono la politica italiana. A cominciare dalle “esternazioni” del Presidente della Commissione Esteri del Senato, il grillino Vito Petrocelli, che si è impossessato di un simbolo delle truppe russe, ossia la Z scritta col gesso sui mezzi blindati e sui camion militari che hanno invaso l’Ucraina. A Mosca è comparsa sulla fiancata delle auto, sui cartelloni pubblicitari e sulle bandiere sventolate dai seguaci di Vladimir Putin. Alla vigilia del 25 aprile il filorusso Petrocelli ha infilato la Z in una frase di augurio inviata pubblicamente via Twitter: “Buona festa della LiberaZione”. A stretto giro, la presa di posizione di Giuseppe Conte, leader del Movimento: “Vito Petrocelli è fuori dal Movimento 5 Stelle. Stiamo completando la procedura di espulsione. Il suo ultimo tweet è semplicemente vergognoso. Il 25 aprile è una ricorrenza seria. Certe provocazioni sono inqualificabili”. Tra le repliche al post di Petrocelli c’è chi ha risposto: “Buona festa di Liberazione denazificata”, riportando quella “Z” alla sua versione minuscola. E dal Pd arriva la reazione: “Basta con queste continue provocazioni – afferma il capogruppo Dem in Commissione, Alessandro Alfieri – è ora che intervenga la Presidente del Senato, Elisabetta Casellati”.
Una posizione, quella di Petrocelli già nota da tempo, quando il 31 marzo ha votato no alla fiducia sul decreto Ucraina. Posizione, rivendicata più volte dal senatore, che ha aperto un fronte, su cui ancora si continua a dibattere, in merito alla sua espulsione dai 5S.
Ma Petrocelli non è isolato. Anche alcuni settori della sinistra guardano con preoccupazione l’invio di armi. Come l’ex Presidente della Camera, deputata del Pd Laura Boldrini: “Trovo molto preoccupante – ha fatto sapere la Boldrini – che l’Unione europea stia rispondendo a questa crisi inviando armi. L’Unione europea è il più grande progetto di pace della storia: Paesi che per millenni si sono fatti la guerra da oltre settant’anni vivono in pace. Le controversie non si risolvono più con le armi, ma con i trattati e le convenzioni”. Durante l’esame del decreto legge sull’invio di aiuti militari in Ucraina la Boldrini si è astenuta per quanto riguarda le armi a Kiev, in dissenso con quanto fatto invece dal resto dei deputati Dem. Secondo l’ex Presidente della Camera, mandare armi in Ucraina in questo momento va “nella direzione opposta alla distensione” e “la corsa agli armamenti è un tornare indietro di decenni”. “Zelensky – aggiunge la Boldrini – chiede quello che lui ritiene essere utile al suo Paese. È una richiesta legittima, ma non sarà attraverso questa strada che si risolverà la guerra. La guerra si risolverà solo per via negoziale”.
Ma guerra vuol dire anche crisi economica e non solo in Russia a causa delle sanzioni. Nelle sue previsioni il Fondo monetario segnala che “per alcune delle più grandi economie europee come Francia, Germania, Regno Unito e Italia è prevista una crescita trimestrale molto debole o negativa alla metà del 2022”. Il Fmi ha previsto per l’Italia un Pil a +2,3% quest’anno, +1,7% il prossimo e +1,3% nel 2024. Il responsabile del Dipartimento Ue del Fmi, Alfred Kammer, ha precisato: economie come “Francia, Germania, Italia e Regno Unito sono previste crescere a malapena o anche contrarsi per due trimestri consecutivi quest’anno”.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di maggio/giugno di eastwest.
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Ora che la guerra di Putin portata fino alle porte di Kiev chiede un’Europa con leader uniti, stabili e affidabili, per Mario Draghi la partita si fa davvero complicata. Un conto è infatti vincere la guerra alla pandemia, mandare a casa Arcuri e nominare il generale Figliuolo come plenipotenziario della campagna vaccinale. Altro è mediare con gli altri capi di Stato e di Governo europei mantenendo la barra dritta sugli interessi nazionali, che poi significa sostanzialmente mettere in sicurezza i nostri contratti energetici con Mosca o trovare fonti di approvvigionamento alternative quali Algeria e Azerbaijan.
È pur vero che nell’ora più buia dell’attacco all’Ucraina, la mattina del 24 febbraio, Mario Draghi, anche grazie al tutoraggio del Presidente Mattarella, è uscito con dichiarazioni risolute che hanno fatto quasi dimenticare l’assordante silenzio dei giorni precedenti e i vari inciampi su una visita annunciata ma non ancora confermata a Mosca per mediare con Putin, annuncio che avrebbe irritato notevolmente l’amministrazione Usa, non avendo finora Draghi, in un anno al Governo, compiuto alcun viaggio a Washington.
Ma a ben guardare, già prima della crisi ucraina, qualcosa si era fatalmente rotto nell’incantesimo del banchiere centrale che dopo aver salvato l’Euro avrebbe salvato l’Italia piegata dalla pandemia e dalla crisi rimettendola in carreggiata per affrontare le sfide del futuro. Difficile stabilire esattamente quando la magia si è spenta, quando i poteri di SuperMario non hanno più colto nel segno. Nelle cancellerie e nell’opinione pubblica Draghi è tornato ad essere – come già fu Mario Monti nel 2011 – quel tecnico competente e apprezzato che è sempre stato. Nulla di più.
Vero spartiacque tra il SuperMario della prima ora e Draghi 2, la conferenza stampa del 22 dicembre, in una location insolita fuori dai palazzi del potere, che doveva segnare una discontinuità con i suoi predecessori. Ai giornalisti che gli chiedevano se intendesse o meno partecipare alla corsa per il Quirinale, il premier rispose con una battuta che lasciò trasparire tutta la disponibilità per l’alto incarico. Liquidò il lavoro del Governo come già quasi completato e si definì “un nonno al servizio delle istituzioni”. Fu la conferma che al Colle l’ex governatore della Bce ci puntava davvero.
In quell’occasione Draghi mostrò tutta la sua incapacità nell’intercettare i veri “animal spirit” della politica italiana (cosa che invece sa destreggiare con abilità il Presidente della Repubblica). Ma fece di peggio: nel primo giorno di consultazioni convocò il leader della Lega Matteo Salvini (che nelle settimane precedenti aveva quasi ridicolizzato nei duelli sul Green Pass e i vaccini) e gli altri segretari di maggioranza per sondare la loro disponibilità a votarlo.
Quelle vicende segnarono la fine di SuperMario. Il passaggio tra il prima e il dopo del suo mandato di unità nazionale. Un prima, fatto di decisionismo e mediazione tattica, con lo sguardo fisso al Colle e la prospettiva di guidare il Paese per sette anni. Un dopo, da decifrare tra partiti ingovernabili guidati da comitati elettorali e capibastone ma da lasciar cuocere nel loro brodo. E obiettivi non semplici da raggiungere, una scadenza certa nel 2023, campagna elettorale permettendo. Mantenere saldamente i risultati della crescita del Pil e difendere il Pnrr dai ritardi della burocrazia italiana e dalle diffidenze di Bruxelles. Insomma uno scenario molto diverso rispetto a quando Draghi disse sì a Mattarella per quella che sembrava una missione impossibile: unire forze politiche diverse tra loro per utilizzare gli oltre 200 miliardi assegnati all’Italia dal Next Generation EU, il più grande piano di aiuti economici che l’Europa abbia mai concesso.
La cosiddetta “accountability” ossia quel principio di responsabilità di cui sono tradizionalmente forniti i banchieri centrali, che nella prima fase del Governo poteva apparire un elemento necessario per agevolare il funzionamento della macchina statale, alla fine del 2021 e ancora di più nella vicenda del Quirinale e subito dopo ha mostrato tutti i suoi limiti. Il compromesso con i partiti e con le diverse anime presenti in ciascun partito è oggi un passaggio obbligato che Draghi vive come una costrizione che rallenta l’azione del Governo e ne limita l’efficacia.
Un esempio tra i tanti: Draghi ha abbandonato il vertice Ue-Unione africana del 17 febbraio a Bruxelles, alla prima sessione plenaria, scusandosi con Macron, per rientrare a Roma e consultarsi con Mattarella sul percorso da intraprendere per non entrare in rotta di collisione con quei partiti che in Consiglio dei Ministri gli approvano i provvedimenti e in Parlamento li stravolgono. Mattarella lo ha rassicurato e consigliato di andare avanti con l’unico obiettivo di difendere il Pnrr, ridurre le bollette e salvaguardare il Pil.
Anche in politica estera, a cominciare dalla crisi ucraina e dal dibattito sulle sanzioni, si è avuto un Draghi defilato pronto a delegare quasi tutta la visibilità internazionale al Ministro degli Esteri Luigi Di Maio. Significativo al riguardo l’editoriale del Wall Street Journal, secondo il quale l’atteggiamento di Draghi che ha chiesto di escludere dalle sanzioni il settore energetico sarebbe “una resa preventiva ed è esattamente il motivo per cui Putin immagina che il prezzo di un’invasione sarebbe inferiore a quanto annunciato”. Draghi, si legge nell’editoriale, “non vuole che la sua eredità come Primo Ministro di unità nazionale sia offuscata da una crisi energetica ma consentire l’imperialismo di Mosca sarebbe una macchia ancora più grande”. Insomma anche i giornali stranieri che lo avevano osannato nella prima fase stanno cominciando a guardare Draghi con un occhio meno benevolo.
Le energie del capo del Governo si concentrano ora tutte sulla guerra mentre la pandemia viene delegata a Speranza. Dalla fine di marzo 2022, poi, niente più Green Pass e obblighi vaccinali. Una sorta di “liberi tutti”. Eppure Draghi aveva fatto veramente Draghi nelle seconde e terze ondate del Covid l’anno passato. Aveva smantellato ciò che c’era prima. A Bruxelles aveva chiesto alle case farmaceutiche vaccini per tutti. Il Super Green Pass ha consentito di raggiungere livelli record di vaccinazioni. Erano anche i mesi in cui il premier calcava con forza la scena internazionale, con il Global Health Summit e un G20 di successo organizzato a Roma in pieno Covid. C’è chi dice che le monetine che i leader del mondo lanciarono nella fontana di Trevi serrano il segnale che individuava in Draghi il vero successore della Merkel in Europa e nel mondo.
Ma poi arrivò la politica e i partiti con quelle logiche inspiegabili per un “civil servant” educato alla chiarezza dei rapporti in stile anglosassone. È ancora presto per trarre vaticini affidabili dai comportamenti del premier italiano. Bisognerà vedere tra qualche mese se i due anni al Governo valgono più degli otto a Francoforte. Se tutti i partiti della maggioranza possono essere paragonati a Jens Weidmann, il governatore della Bundesbank. Serve infatti un tempo sufficiente per capire se l’agenda di Draghi 2-Mattarella saprà imporsi sui partiti così come a suo tempo si impose sul banchiere centrale tedesco.
“Io la vedo in maniera relativamente chiara; – ha detto Draghi recentemente – il dovere del Governo è proseguire e affrontare sfide importanti per gli italiani che sono quella immediata del caro energia, quella meno immediata ma preoccupante che è l’inflazione che sta aggredendo il potere acquisto dei lavoratori ed erodendo, anche se per ora non si vede, la competitività delle imprese. C’è poi l’uscita dalla pandemia e il Pnrr, che sta andando molto bene”.
Draghi ha escluso crisi e rimpasti fino alle elezioni. E a chi lo vorrebbe in campo anche dopo il termine della legislatura nel 2023, il premier respinge l’ipotesi di diventare federatore di un centro politico. “Ho visto che tanti politici mi candidano a tanti posti in giro per il mondo, mostrando grande sollecitudine, ma vorrei rassicurarli che, se decidessi di lavorare, un lavoro lo trovo da solo”. E, dette con quel mezzo sorriso che somiglia a un ghigno, sono parole che hanno quasi il suono di una velata minaccia.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di marzo/aprile di eastwest.
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La notizia è recente e contribuisce a sgombrare il campo da un’ipotesi che continuava a circolare da tempo, e ossia che l’attuale Segretario Generale dell’Alleanza atlantica, il norvegese Jens Stoltenberg si sarebbe potuto candidare per un terzo mandato alla guida dell’organizzazione. Ma Stoltenberg, su pressione di Oslo, sarà probabilmente il nuovo governatore della Banca centrale norvegese. Dalla partita della nomina del nuovo Segretario Generale esce un nome “pesante” ma questo non significa affatto che la strada che dovrà portare all’indicazione del nome del nuovo Segretario al vertice dei capi di Stato e di Governo di Madrid del 29 e 30 giugno prossimo sia tutta in discesa.
Non c’è una procedura formale per arrivare a definire il nome del nuovo capo dell’Alleanza e non ci sono scadenze particolari da rispettare. Si tratta di un processo di consultazione politica informale che non prevede candidature ufficiali. Anzi, quando c’è stato qualcuno che si è presentato come “candidato ufficiale”, come nel passato l’ex Ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini o, più recentemente, il premier olandese, Mark Rutte, si è trovato quasi subito la strada sbarrata. Anche per questo motivo c’è una grande prudenza da parte dei Governi degli Stati membri a presentare nomi che verrebbero inesorabilmente bruciati.
Diverso è, invece, il discorso che riguarda l’alternanza tra Paesi, anche alla luce del nuovo concetto strategico della Nato e delle nuove sfide che attendono l’Alleanza, dal fronte Sud nel Mediterraneo allargato al quadrante orientale fino alla Cina. Ebbene dal 2008 alla guida della Nato si sono avvicendati due segretari generali (prima il danese Rasmussen e poi Stoltenberg per 8 anni). Si tratta di due ex primi Ministri ma di Paesi tutto sommato di piccole dimensioni con circa 4 milioni di abitanti. Due segretari che hanno privilegiato fatalmente i rapporti tra Paesi baltici o del Nord Europa con la Russia trascurando un poco il fronte Sud affidato a un comando di Napoli abbandonato un poco al suo destino.
Logica vorrebbe quindi che il nuovo Segretario appartenesse a un Paese del Sud Europa. La Francia, peraltro impegnata nei prossimi mesi nelle elezioni presidenziali, non ha mai manifestato particolari ambizioni per quella poltrona mentre la Spagna non ha candidati e ha già (con Josef Borrell) il posto di Alto Rappresentante per la politica estera e di difesa europea.
L’Italia avrebbe quindi tutte le carte in regola per concorrere a una poltrona che non ricopre da 50 anni (con Manlio Brosio). In realtà, nel 2004 il segretario alla Difesa Usa Donald Rumsfeld aveva sostenuto una candidatura italiana dopo l’inglese Robertson. C’era anche il nome, quello di un ex Ministro degli Esteri e della Difesa come Antonio Martino che però rinunciò (provocando le ire di Silvio Berlusconi) con la motivazione che il carico di lavoro per quella poltrona era da lui considerato eccessivo. L’Italia, dopo la fine della missione in Afghanistan, è il maggiore contributore di forze alle missioni Nato e dalla primavera prossima assumerà anche il comando della missione in Iraq. Nel nostro Paese sono presenti molte basi Nato e i droni di Sigonella stanno cominciando a svolgere al meglio il loro compito.
Una candidatura italiana otterrebbe tutto il sostegno da parte della Francia se non altro per sbarrare la strada all’ipotesi di un segretario inglese (era circolato il nome della ex premier Theresa May) soprattutto dopo la vicenda del contratto dei sommergibili all’Australia bloccato da Aukus di cui il Regno Unito fa parte. L’Italia è tra l’altro un Paese Ue che, al netto delle sanzioni, intrattiene rapporti stretti con la Russia non solo di carattere economico.
Ma se si snocciolano i possibili nomi dei candidati italiani le cose sono meno chiare. Per restare tra gli ex premier era circolato il nome di Matteo Renzi il cui profilo di vero outsider mal si attaglia però a un ruolo istituzionale che detiene lo stesso rango che spetta ai Capi di Stato. Enrico Letta avrebbe invece tutte le carte in regola per entrare in partita, se solo lo volesse e non fosse così concentrato sulle responsabilità di partito. Tra gli altri nomi, quello della ex ministra degli Esteri e Alta Rappresentante della politica estera e di difesa europea Federica Mogherini si è un po’ perso nelle nebbie di Bruges, mentre invece il presidente della Commissione Esteri della Camera Piero Fassino avrebbe delle chances se solo il sistema politico italiano lo appoggiasse con convinzione.
Un nome tenuto finora riservato, ma che potrebbe uscire allo scoperto solo in prossimità del vertice di Madrid, è quello dell’attuale commissario Ue agli Affari economici ed ex premier italiano Paolo Gentiloni. La corsa per il Quirinale, che vede lo stesso Gentiloni come possibile candidato, consiglia il silenzio assoluto. Poco senso hanno poi le obiezioni di chi teme che l’uscita di Gentiloni dalla Commissione rappresenterebbe un vulnus alle capacità dell’Italia di essere rappresentata al meglio a Bruxelles su dossier molto delicati come quelli economici. Il nuovo segretario generale della Nato entrerebbe in funzione solo nell’ottobre del 2022 quando alla Commissione von der Leyen mancheranno alla fine del mandato solo due anni mentre la carica di guida dell’Alleanza ha una prospettiva di 4 anni o, nel caso di una conferma, di otto.
Prende infine consistenza l’ipotesi che il Governo italiano in prossimità di Madrid si candidi come Paese alla guida della Nato magari offrendo il suo contributo con il nome di un alto funzionario che ha svolto un ruolo chiave nelle ultime concitate ore del ritiro della missione Nato dall’Afghanistan. Si tratta dell’ambasciatore Stefano Pontecorvo, già rappresentante civile della Nato a Kabul e regista dei ponti aerei per il rientro di civili e militari da quel Paese. Il suo nome rafforzerebbe il ruolo del segretariato Nato a servizio dei capi di Stato e di Governo in discontinuità con Stoltenberg che aveva molto politicizzato il ruolo di Segretario Generale. Candidare intanto il Paese (anche con il nome di un alto funzionario) avrebbe il vantaggio di bloccare le fughe in avanti degli Stati Uniti che potrebbero essere tentati, nell’impasse, di favorire qualche oscuro candidato dell’Estonia, della Lituania o della stessa Polonia. Ipotesi che verrebbe letta dalla Russia come provocatoria chiusura a ogni possibilità di dialogo futuro con l’Alleanza.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/febbraio di eastwest.
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Lo schema che si vorrebbe seguire è lo stesso utilizzato per il Trattato del Quirinale con la Francia, firmato a Roma poche settimane fa. Ma, al di là degli aspetti formali, è un fatto che tra Italia e Germania c’è la ferma volontà di creare le condizioni per relazioni bilaterali più strutturate. Ne parleranno lunedì a Palazzo Chigi il Presidente del Consiglio Mario Draghi e il nuovo Cancelliere tedesco Olaf Scholz, che ha inserito la tappa italiana nella seconda ondata dei suoi viaggi all’estero dopo Parigi e Bruxelles.
Nel settembre scorso era stata la Cancelliera Angela Merkel a proporre al Governo italiano un programma di azione che comprendesse tutto il ventaglio dei settori oggetto della cooperazione bilaterale. In realtà, i tedeschi sono da sempre abbastanza reticenti a firmare trattati bilaterali con altri Paesi. Lo hanno fatto solo quando si è trattato di scelte inevitabili come appunto il Trattato dell’Eliseo per la riconciliazione con la Francia dopo la guerra e l’ultimo Trattato di Aquisgrana.
Anche senza chiamarlo Trattato, fanno rilevare fonti diplomatiche italiane, si potrebbe lavorare a un piano di azione che contenga anche un programma di lavoro e in allegato il dettaglio sui metodi di lavoro scelti di volta in volta. In realtà, è lo stesso percorso previsto con la Francia per il Trattato del Quirinale, che contiene il perimetro dei temi e il metodo di lavoro e rinvia al programma allegato le iniziative concrete da realizzare.
Dentro questo schema i temi della pandemia, della ripresa economica, dell’energia, della green economy e dell’immigrazione avranno un posto prioritario. Draghi e Scholz discuteranno lunedì anche tempi e modi per una riforma al Patto di stabilità. All’ultimo Eurosummit di Bruxelles se ne è cominciato a discutere su iniziativa congiunta di Italia e Francia. Ma c’è da attendersi analoga disponibilità anche da parte del nuovo Governo tedesco. Una riforma che per Draghi è ineludibile. “Le regole del Patto di stabilità – ha detto il premier in Parlamento – si sono rivelate inefficaci e pro-cicliche, cioè dannose. Ho cominciato a dirlo negli ultimi 3 anni della mia permanenza alla Bce e ne sono sempre più convinto”.
Anche sull’immigrazione c’è da aspettarsi un atteggiamento tedesco più vicino alle posizioni italiane per effetto del condizionamento dei Verdi sulla coalizione del nuovo esecutivo tedesco. E i Verdi faranno sentire la loro presenza anche nel sistema di classificazione per gli investimenti “verdi”. “Già da tempo – ha detto Scholz a Bruxelles – la Germania ha preso la decisione che l’energia nucleare non prenderà parte alla transizione energetica”. Ma non si opporrà alle scelte francesi a favore del nucleare. La Commissione Ue mercoledì prossimo dovrà decidere se inserire nella “tassonomia” nucleare e gas, con il forte sostegno francese (per il nucleare) e italiano (per il gas, considerato fonte energetica di transizione). Quanto al gasdotto Nord Stream 2, Scholz ha tenuto a ricordare che la Germania si sente molto responsabile che “l’Ucraina resti un Paese di transito del gas”. Anche se il Nord Stream 2 è un progetto privato, ha ricordato Scholz, e a decidere alla fine sarà l’autorità regolatoria tedesca.
Draghi e Scholz faranno anche il punto sul coordinamento delle misure anti Covid. In questa nuova fase sono stati gli ospedali italiani ad aiutare i pazienti tedeschi (come nella prima ondata furono gli ospedali tedeschi ad ospitare pazienti italiani). La Germania sta anche valutando una stretta sugli arrivi dalla Gran Bretagna sull’esempio dell’Italia. La Baviera, uno dei Lander più colpiti dal rimbalzo dei contagi, ha chiesto al Governo federale di prendere una decisione rapida per classificare la Gran Bretagna come area di variante a rischio a causa della rapida diffusione di Omicron. E quindi richiedere l’obbligo di un test Prc per gli arrivi dal Regno Unito.
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Parigi e Bruxelles sono state le prime tappe obbligate dei viaggi all’estero del neo Cancelliere tedesco Olaf Scholz subito dopo il suo insediamento. Il successore di Angela Merkel vedrà anche il Presidente del Consiglio Mario Draghi a testimonianza dell’importanza che Berlino annette al nostro Paese nella costruzione del futuro dell’Europa. Già giovedì prossimo i due si incontreranno per un primo contatto a margine del Consiglio europeo a Bruxelles. Ma si sta lavorando a un colloquio più strutturato durante un viaggio di Scholz a Roma prima di Natale.
L’agenda dell’incontro Draghi-Scholz è quasi tutta dettata dall’attualità dei dossier europei. Dalla riforma del Patto di stabilità alla lotta alla pandemia e al Pnrr, dal pacchetto climatico Fit for 55 al patto per l’immigrazione; dalle relazioni transatlantiche alle vicende della Bielorussia, della Russia e dell’Ucraina.
Rispetto alla Merkel, Draghi troverà dunque un’interlocuzione molto diversa con Scholz. È il frutto delle nuove dinamiche esistenti nella coalizione che vede Verdi e Liberali condizionare molto di più rispetto al passato il partito (Spd) del Cancelliere.
Sulla lotta alla pandemia, Scholz chiederà probabilmente chiarimenti a Draghi sulle buone pratiche messe in atto con successo in Italia negli ultimi mesi. Non è tuttavia un mistero che sui vaccini i Verdi siano spaccati al loro interno e non da oggi. Ma la decisione del Bundestag di venerdì per la vaccinazione obbligatoria agli operatori sanitari entro la metà di marzo apre nuove prospettive sugli obblighi vaccinali anche in Germania. Il Parlamento tedesco ha inoltre chiesto ai 16 stati federali di imporre restrizioni che variano dalla chiusura di bar e ristoranti al divieto di grandi eventi a causa degli alti tassi di infezione in Germania.
Altra questione al centro del confronto Draghi-Scholz la riforma del Patto di stabilità. Se ne è parlato già venerdì 10 dicembre nell’incontro tra Scholz e il Presidente francese Emmanuel Macron. “Crescita e solidità delle finanze” non sono incompatibili, ha detto il Cancelliere tedesco. Una visione analoga a quella di Draghi secondo il quale se prima della pandemia la riforma del Patto era già necessaria ora è diventata un’esigenza inevitabile.
Un primo contatto con il nuovo esecutivo tedesco sarà quello che avrà il Ministro degli Esteri Luigi Di Maio nella giornata di oggi, sabato 11 dicembre, a Liverpol per il G7 Esteri a presidenza inglese. È infatti previsto in questa occasione il primo faccia a faccia tra Di Maio e la nuova responsabile della diplomazia tedesca, Annalena Baerbock. In un’audizione in Parlamento, Di Maio ha tenuto a chiarire che il Trattato del Quirinale non può essere certo interpretato come teso a escludere qualcuno. Lo sviluppo del rapporto con la Francia, ha chiarito il Ministro, “non toglie nulla ai rapporti con altri partner europei”. L’Italia è da tempo “impegnata a rafforzare la cooperazione anche con altri importanti Paesi europei, come la Germania”.
Il rapporto tra Italia e Francia, rinsaldato con l’ultimo Trattato del Quirinale, non potrà mai soppiantare la relazione del tutto particolare tra Parigi e Berlino. Ma Germania e Italia restano comunque centrali nella costruzione di un’Unione non solo economica ma politica e di sicurezza comune. “Occorrerebbe davvero – spiega il germanista Angelo Bolaffi già direttore dell’Istituto di cultura a Berlino – chiudere il cerchio e, dopo il Trattato del Quirinale con i francesi, lavorare per chiudere un Trattato del Campidoglio tra Italia e Germania da celebrare nel luogo simbolo che vide nel ’57 la firma dei Trattati istitutivi della Comunità europea su spinta proprio di De Gasperi e Adenauer”.
Quanto al rapporto privilegiato tra Parigi e Berlino dopo il Trattato di Aquisgrana, che ha ridato nuova linfa al vagone di testa franco- tedesco, l’incontro di venerdì tra Macron e Scholz ha gettato le basi per il lavoro dei prossimi mesi che vedranno la Francia impegnata sia per il semestre di presidenza europea sia per le elezioni presidenziali. Il colloquio di ieri con il Cancelliere, ha spiegato Macron, “mostra chiaramente la solida convergenza delle nostre vedute. Abbiamo espresso il desiderio condiviso di lavorare insieme. Abbiamo parlato di Bielorussia, Ucraina e sottolineato l’importanza della cooperazione per supportare i partner a est”. Sul tavolo, ha specificato il Presidente francese, anche la cooperazione all’interno dell’Ue su temi quali migrazione, transizione verde e digitale, clima e investimenti.
E da parte sua, Scholz, dopo un incontro avuto anche con la Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, ha detto di “vedere con grande preoccupazione le truppe russe che si ammassano alla frontiera con l’Ucraina. La Germania, l’Unione europea e molti altri reagirebbero certamente se ci fosse una violazione del confine ucraino da parte della Russia. Ma è chiaro che il nostro compito è prevenirla. Dobbiamo lavorare insieme in Europa e concordiamo sul fatto che i confini in Europa non devono essere violati”.
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Il Papa a Nicosia, Cipro. Mario Draghi dal palco dei Med Dialogues 2021 a Roma. Ma i concetti espressi sui flussi dei migranti sono quasi identici.
I migranti non sono turisti e, dice il Papa, il filo spinato contro chi fugge da violenze e guerre è una vergogna dell’Occidente. E Draghi afferma: “Occorre proteggere i più deboli con cordoni umanitari dai Paesi più vulnerabili, rafforzare i flussi legali, che sono una risorsa e non una minaccia per la nostra società”. Ma per gestire la migrazione, aggiunge il Presidente del Consiglio, serve “un coinvolgimento maggiore di tutti i Paesi europei, abbandonando visioni nazionali o egoistiche”.
I movimenti dei migranti, dice Draghi, “molto spesso hanno origine lontano dal mare, da soli non possiamo controllarli: da inizio di quest’anno sono sei volte tanti, rispetto al 2019. Serve un maggior coinvolgimento di tutti i Paesi europei, anche nel Mediterraneo. L’Italia continua a promuovere un avanzamento europeo verso una gestione collettiva, in un equilibrio fra responsabilità e solidarietà”. Ma la Ministra degli Esteri libica Najla El Mangoush invita a “non puntare il dito contro la Libia” per la gestione dei flussi e il rispetto dei diritti. “Il problema è complesso e siamo stanchi di soluzioni superficiali”, dice la Ministra, secondo la quale se per i morti nel Canale della Manica due dei Paesi più stabili come Regno Unito e Francia non riescono a controllare l’immigrazione illegale, “come potete aspettarvi che noi riusciamo a controllarla?”.
E Papa Francesco da Nicosia, incontrando i migranti, dice: “Chi viene a chiedere libertà, pane, aiuto, fratellanza, gioia, chi sta fuggendo dall’odio, trova davanti un ‘odio’ che si chiama filo spinato”. Risponde a chi in Occidente si scandalizza per i campi di sterminio nazisti e comunisti, ignorando quelli che confinano chi vuole fuggire dalla fame e dalla guerra, per approdare in Europa: “Guardando voi – dice il Papa – penso a tanti migranti che sono dovuti tornare indietro, respinti, finiti nei lager, veri lager, dove le donne sono vendute, gli uomini torturati, schiavizzati. Noi ci lamentiamo dei lager del secolo scorso, ma fratelli e sorelle, sta succedendo oggi, nelle coste vicine. Ho guardato alcune testimonianze filmate di questo. Posti di tortura, di vendita di gente”. Sente sulle spalle tutta la responsabilità di “aiutare ad aprire gli occhi” e smettere di “tacere”.
Il messaggio è chiaro ed è diretto ai leader politici che strumentalizzano il dramma, ma anche ai cittadini che si lasciano influenzare: i migranti non sono “turisti” insiste. “Danno tutto quello che hanno per salire su un barcone di notte, senza sapere se arriveranno. È la storia di una società sviluppata che chiamiamo ‘Occidente’. Che il Signore ci svegli la coscienza”, implora.
Il peccato peggiore di chi vive in un Paese agiato, mette in guardia Papa Francesco, è che ci si abitua ai naufragi nel Mediterraneo, come ai morti di freddo al confine tra Polonia e Bielorussia: “Questo abituarsi è una malattia molto grave e non c’è antibiotico, dobbiamo andare contro questo vizio dell’abituarsi alle tragedie”.
E per sua iniziativa, il Vaticano ricollocherà subito per motivi umanitari 50 migranti da Cipro in Italia. Le operazioni di trasferimento, ospitalità e integrazione saranno interamente a carico della Santa Sede. Un primo gruppo di 12 persone partirà già prima di Natale, gli altri seguiranno tra gennaio e febbraio. Vengono da Siria, Congo, Camerun e Iraq e tra loro ci sono anche famiglie con bambini. L’operazione sarà resa possibile grazie a un accordo tra la segreteria di Stato, le autorità italiane e cipriote, la collaborazione con la Sezione per i Migranti e Rifugiati della Santa Sede e con la Comunità di Sant’Egidio.
E pure strettamente legata al tema migranti è la stabilità dei Paesi di transito e di origine. Draghi ribadisce quanto già detto il 12 novembre alla Conferenza di Parigi sulla Libia sulla necessità che “solo un processo a guida libica potrà portare a una soluzione piena e duratura della crisi nel Paese”. E sulle prossime elezioni in Libia del 24 dicembre, Draghi rinnova l’appello a tutti gli attori politici “perché le elezioni siano libere, eque, credibili e inclusive”. E per il Ministro degli Esteri Luigi Di Maio, anche lui intervenuto ai Med Dialogues, “il dopo elezioni lo si costruisce adesso, con elezioni libere, trasparenti e inclusive. L’inclusività sarà il fattore di successo di queste elezioni e dobbiamo fare in modo, attraverso un’azione diplomatica continua della comunità internazionale, che ci possano essere elezioni il più inclusive possibile”.
Nel frattempo la Corte di Sabha ha accettato il ricorso del figlio di Gheddafi Saif al Islam permettendogli di partecipare alle elezioni presidenziali. Il figlio di Muammar Gheddafi era stato in un primo tempo escluso dalla corsa. Accettata anche la candidatura del Presidente ad interim Abdul Hamid Mohammed Dbeibeh che a Ginevra in sede Onu sembrava esclusa. L’idea che si sta facendo sempre più strada è un ballottaggio tra Saif e Dbeibah.
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Le Frecce tricolori e la Pattuglia acrobatica francese hanno disegnato venerdì mattina sul cielo di Roma i colori delle bandiere italiana e francese. Senza errori né incertezze, come quelle che videro gli aerei militari francesi nel 2018 alla festa del 14 luglio a Parigi sbagliare il loro tricolore. Con la stessa chirurgica precisione, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, poco prima, nel salone d’onore del Quirinale dopo la firma del Trattato di cooperazione rafforzata italo-francese, stringeva la mano a Macron e insieme a Draghi come quelle di due giovani un po’ litigiosi che vanno riportati alla ragione dal grande saggio.
La gestazione del Trattato non è stata breve né semplice. È andata avanti a singhiozzo con inciampi critici come durante il sostegno dei grillini ai gilet gialli francesi o le accuse di Salvini a Macron sui migranti. Ma Mattarella, anche nei momenti più bui, ha salvato il rapporto con Parigi e Macron glielo riconosce.
Un accordo storico che avvicina di più Roma e Parigi nella definizione di Mario Draghi ma arriva in un momento di vera svolta nella costruzione europea: dopo la Brexit, alla fine dell’era Merkel e alla vigilia delle elezioni in Francia come per la corsa al Quirinale. C’era bisogno che due grandi Paesi chiudessero subito quel triangolo motore dell’Europa che tra Roma-Parigi-Berlino è destinato a guidare le forme dell’Ue e le sfide che la attendono, si chiamino cambiamenti climatici, green economy, lotta alla pandemia, immigrazione, autonomia strategica nella difesa.
Tra Francia e Germania, oltre all’accordo di riconciliazione post bellico del ’63 firmato da De Gaulle e Adenauer, c’è stato il più recente Trattato di Aquisgrana del 2019. Il patto “per una cooperazione bilaterale rafforzata” tra Roma e Parigi sancisce ora un asse in grado di guidare l’Europa nella nuova era di lotta al Covid e verso una Unione più forte e integrata.
Vengono gettate le basi per un’alleanza tra pari, dove non c’è un pesce grande che mangia il pesce piccolo, nessun intento predatorio sui “gioielli” dell’economia italiana ma due Paesi integrati e sempre più complementari. Due Paesi, dice Draghi, che “condividono molto più di confini” che hanno in comune la visione di padri politici come Jean Monnet e Robert Schuman, Altiero Spinelli e Alcide De Gasperi. Per la cultura, Stendhal e Umberto Eco, nel cinema, Mastroianni, Belmondo a Claudia Cardinale. “La nostra storia, la nostra arte, le nostre economie e le nostre società si intrecciano da tempo immemore”.
Un’alleanza che prevede nuovi meccanismi di consultazioni periodiche, un vertice bilaterale annuale e la partecipazione reciproca di un membro di Governo di uno dei due Paesi, almeno una volta per trimestre e in alternanza, al Consiglio dei Ministri dell’altro Paese. Un’integrazione al Trattato voluta espressamente dallo stesso Draghi sull’esempio di quanto deciso con l’articolo 24 del Trattato di Aquisgrana con i tedeschi. Draghi parla di accordo storico, di una “collaborazione rafforzata che renderà Italia e Francia da oggi ancora più vicine”. C’è da riscrivere le regole del Patto di stabilità, rivedere quelle regole pro-cicliche che già non funzionavano prima della pandemia e che ora è “inevitabile” riformare. Su questo Italia e Francia marceranno unite senza preoccuparsi troppo delle gelosie tedesche.
Ma gli obiettivi di Italia e Francia coincidono anche in altri settori con quelli di tutta la Ue: cambiamento climatico, transizione ecologica e digitale, difesa europea, complementare alla Nato e non sostitutiva. Draghi ribadisce il sostegno al prossimo semestre di presidenza francese dell’Ue che si caratterizzerà per la conclusione della Conferenza sul futuro dell’Unione (probabilmente il 9 maggio, festa dell’Europa) e l’autonomia strategica in tema di difesa comune che sarà oggetto di un vertice europeo in giugno prima del summit Nato di Madrid.
Tra i nuovi istituti del Trattato, la cooperazione tra forze di polizia per la lotta al terrorismo, un comitato di cooperazione transfrontaliera, un Servizio civile volontario congiunto e la promozione della mobilità degli studenti. A questo proposito Draghi ha ricordato Valeria Solesin, l’italiana uccisa insieme a tanti cittadini francesi e di altre nazionalità nei “vili attentati di Parigi” del 2015. Tra le cooperazioni rafforzate anche la lotta contro le migrazioni illegali. Macron e Draghi condividono la stessa visione. “In ambito migratorio – osserva il Presidente del Consiglio – riconosciamo la necessità di una politica di gestione dei flussi e d’asilo condivisa a livello europeo, basata sui principi di responsabilità e solidarietà”. Nel settore delle grandi opere proseguirà il coordinamento sulla Torino-Lione “con l’obiettivo di raggiungere la piena operatività del tunnel e delle sue tratte di accesso e nella gestione del tunnel del Fréjus e del Monte Bianco”.
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