Jacopo Scita è Policy Fellow alla Bourse and Bazaar Foundation. Si occupa di Iran, relazioni tra la Cina e il Golfo Persico e sanzioni internazionali.
Le potenzialità economiche dell’Iran
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A sette anni dall’approvazione dell’accordo sul nucleare del 2015 (JCPOA) tra l’Iran e i membri permanenti del consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, la promessa di espansione economica e riapertura al commercio internazionale che aveva spinto l’amministrazione iraniana di Hassan Rouhani ad accettare ampie limitazioni e controllo internazionale sul programma nucleare della Repubblica islamica rimane evidentemente disattesa. La decisione dell’amministrazione statunitense di Donald Trump di rigettare il JCPOA e imporre sull’Iran la massima pressione economica e le difficoltà della successiva amministrazione Biden a mantenere la promessa elettorale di ritorno all’accordo – anche e soprattutto a causa dell’atteggiamento poco costruttivo del governo conservatore di Ebrahim Raisi – hanno fatto sì che oggi l’Iran si trovi di nuovo isolato internazionalmente e con un’economia il cui potenziale risulta ampiamente inespresso. A oggi, gli investimenti europei nel paese – il grande obiettivo del JCPOA – sono praticamente inesistenti, scoraggiati da un clima politico interno sempre più precario e dalle sanzioni che costituiscono una barriera che pone rischi e costi maggiori dei possibili guadagni.
Il Paese guarda a Oriente
In questo scenario, nell’ultima decade, l’Iran ha sviluppato una strategia improntata a guardare sempre più verso Oriente e in particolare alla Cina. Se da un lato questa strategia avrebbe dovuto stimolare la concorrenza internazionale per l’accesso al mercato iraniano nello scenario di eliminazione di larga parte delle sanzioni internazionali a seguito del JCPOA, dall’altro il guardare a Oriente è sintomatico della crescente influenza cinese in Asia centrale, nel Golfo Persico e in Medio Oriente. Con il lancio della Nuova Via della Seta nel 2013, l’Iran si è infatti riscoperto in una posizione potenzialmente centrale nelle rotte commerciali cinesi che, passando attraverso il territorio della Repubblica islamica, consentono a Pechino di collegare le province occidentali al bacino mediterraneo via terra tagliando fuori la Russia. La Cina, dunque, rappresenta un orizzonte certamente importante per l’economia iraniana. Ciononostante, e a dispetto delle mirabolanti premesse economiche e politiche contenute nell’accordo venticinquennale di partenariato strategico che i due Paesi hanno firmato nel 2021 dopo 5 anni di negoziazione, il potenziale delle relazioni economiche tra di loro rimane quasi totalmente inespresso. Non a caso gli investimenti cinesi in Iran hanno avuto un picco nel biennio 2016-17, salvo poi arrestarsi a seguito della re-imposizione delle sanzioni secondarie da parte dell’amministrazione Trump.
Un mercato del lavoro in sofferenza
Se dunque geograficamente il Paese si trova in un’area particolarmente attraente per le rotte commerciali che collegano l’Asia all’Europa, il potenziale maggiore dell’economia iraniana è quello legato alla presenza di una popolazione giovane, istruita e dinamica. L’Iran è il secondo paese più popolato dell’area MENA (Medio Oriente e Africa del Nord) e circa metà della popolazione totale di 85 milioni è costituita da giovani sotto i 30 anni. La popolazione iraniana è tendenzialmente tra le più educate della regione e dunque potenzialmente adatta sia a essere impiegata in lavori ad alto valore aggiunto e innovazione che ad acquistare beni e tecnologia importata dall’estero. Nonostante questa premessa, il mercato del lavoro iraniano risulta particolarmente in sofferenza, con un tasso ufficiale di disoccupazione giovanile al 23%, sia a causa delle sanzioni internazionali che della poca efficienza del mercato interno. In quest’ottica, non sorprende che buona parte dei giovani iraniani che possiedono un diploma universitario continuano a considerare la possibilità di emigrare all’estero come la miglior soluzione per continuare gli studi e la carriera lavorativa. Quindi, la sfida più pressante per la Repubblica islamica è quella di creare un mercato del lavoro dinamico e attraente per i giovani iraniani.
È però evidente che il rinnovamento e lo sviluppo del mercato del lavoro non può prescindere da un allargamento delle libertà civili e di impresa – dall’ampliamento della possibilità di accesso al lavoro per le donne allo stop al controllo arbitrario dell’accesso a internet che costituisce un danno evidente per le start up tecnologiche iraniane. La durissima repressione delle proteste successive all’uccisione di Masha Amini, tuttavia, suggerisce che lo spazio per una riforma necessariamente ampia che modernizzi il paese sul piano interconnesso dei diritti umani, civili e dell’innovazione del mercato del lavoro, resta un miraggio.
L’industria energetica
Storicamente, l’industria energetica rappresenta il motore dell’economia iraniana. Tuttavia, sin dalla rivoluzione del 1979, il settore oil & gas si è trovato a fronteggiare periodi di difficoltà ad attrarre i necessari investimenti internazionali e, soprattutto negli anni 2000, ha dovuto fronteggiare importanti barriere al commercio internazionale. Due esempi su tutti descrivono le difficoltà del settore energetico iraniano. A seguito della campagna di massima pressione messa in atto dall’amministrazione Trump a partire dal 2018, le esportazioni ufficiali di petrolio iraniano si sono progressivamente ridotte, costringendo Teheran a utilizzare canali non ufficiali e l’intermediazione di paesi terzi (Emirati Arabi Uniti, Malesia, ecc.) per continuare a esportare petrolio a quei pochi paesi, tra cui la Cina, disposti ad accettare il rischio di sanzioni secondarie statunitensi. Tuttavia, nonostante la capacità iraniana di utilizzare sofisticati sistemi di elusione delle sanzioni, l’impossibilità di ricorrere ai canali ufficiali di export continua a costringere la Repubblica islamica a vendere il petrolio a sconto, perdendo ulteriori revenues a causa dei premi richiesti dagli intermediari.
Il caso South Pars
Il sistema attuale, dunque, pur permettendo all’Iran di continuare a vendere petrolio e mantenere una ridotta ma fondamentale fonte di moneta forte, risulta altamente inefficiente e difficilmente sostenibile nel lungo periodo. Similmente, l’imposizione di sanzioni secondarie da parte dell’amministrazione Trump ha scoraggiato gli investimenti esteri nel settore energetico. Il caso emblematico è quello dello sviluppo del South Pars, il più grande giacimento di gas naturale al mondo che l’Iran condivide con il Qatar. Successivamente all’approvazione del JCPOA del 2015, il governo iraniano aveva affidato lo sviluppo del giacimento a una joint venture tra la francese Total e la compagnia di stato cinese CNPC. A novembre 2018, temendo il rischio di subire sanzioni, Total abbandona il progetto dal valore di 4.8 miliardi di dollari, a quel punto preso totalmente in carico da CNPC. Tuttavia, a distanza di un anno, le autorità iraniane hanno preso la decisione di terminare il contratto con la compagnia cinese, denunciando la sostanziale incapacità di CNPC di portare a termine il progetto a causa di limiti tecnici e tecnologici irrisolvibili. A oggi, dunque, lo sviluppo del South Pars rimane ampiamente sotto le aspettative, specchio di una industria del gas iraniana che, nonostante le seconde riserve al mondo dopo la Russia, riesce a soddisfare quasi esclusivamente il fabbisogno domestico del paese. Oggi, dunque, l’industria degli idrocarburi iraniana ottiene risultati commerciali ampiamente sotto le naturali potenzialità di un Paese che possiede tra le più grandi riserve di petrolio e gas naturale al mondo, mostrando evidenti difficoltà di manutenzione, gestione e sviluppo tecnologico del settore.
È dunque notevole leggere le dichiarazioni del Ministro del petrolio della Repubblica islamica Javad Owjii che nel 2021 reclamava la necessità di investimenti urgenti nell’industria energetica per un valore di 160 miliardi di dollari, necessari a Teheran per mantenere lo status di esportatore netto di combustibili fossili. La difficoltà del Paese ad accedere alla tecnologia e agli investimenti internazionali è anche evidente nel mancato sviluppo delle considerevoli potenzialità di produzione di energia da fonti rinnovabili. Geograficamente, infatti, l’Iran presenta un territorio largamente adatto alla produzione di energia solare e, seppure in misura minore, soggetto a venti costanti e di sufficiente velocità per generare energia eolica commerciale.
Potenzialità economiche inespresse
Come evidenziato dalla Banca Mondiale in un report pubblicato ad Aprile 2022, l’economia iraniana sembra mostrare i primi segni di recupero dopo un decennio di stagnazione acuito dall’impatto delle sanzioni, dalla ciclicità dei prezzi del petrolio e dall’epidemia di Covid-19. Tuttavia, nonostante i timidi segni di miglioramento, le potenzialità economiche del paese rimangono ampiamente inespresse, risultato del combinato disposto dell’isolamento internazionale e della scarsa capacità di riforma e “buon management” di un sistema economico spesso gestito da centri di potere poco efficienti come le bonyad – fondazioni para-statali controllate da varie istituzioni della Repubblica islamica che gestiscono ampi settori economici. In questo senso, dunque, è evidente che lo sviluppo economico iraniano è legato a doppio filo alle tendenze profonde della politica interna ed estera di Teheran. La spada di Damocle delle sanzioni resta oggi il principale limite alla capacità iraniana di attrarre investimenti esteri, sia provenienti dai paesi occidentali – certamente più attenti alla situazione sociopolitica e dei diritti umani all’interno dell’Iran – sia da quelli cinesi, lasciando l’economia del paese isolata e non in grado di sviluppare le proprie potenzialità intrinseche.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/marzo di eastwest