
[MILANO] Giornalista freelance e reporter per Il Foglio, Business Insider, National Geography Traveller, Linkiesta, La Repubblica. Cura una newsletter settimanale sull’Unione europea: La Spada nella Roccia.
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A cosa pensiamo quando pensiamo a una guerra? A una serie di cose, per lo più tutte brutte. Pensiamo alle vittime militari e civili, prima di tutto.
Pensiamo a chi sopravvive e si ritrova tra le mani i brandelli di quella che, fino a pochi mesi prima, era la sua vita. Pensiamo alla fame, al freddo, alla sete, alla paura. Allo stato semiferino cui, in genere, la guerra ci riduce, impegnati solo a sopravvivere. Eppure, oltre a tutte queste calamità che della guerra sono diretta conseguenza, ce n’è un’altra, cui si tende a dare meno clamore ed eco (forse per non sembrare insensibili verso le persone e le vittime) e che riguarda l’ambiente nel quale le guerre si svolgono. Intere zone teatro di guerra, spesso, vengono distrutte in modo irrimediabile o rimangono contaminate per decenni in un modo che non solo rende estremamente tossico vivere, respirare e nutrirsi, ma che spesso rende anche impossibile coltivare, innescando fenomeni di desertificazione e, di conseguenza, siccità.
I modi in cui la guerra inquina sono vari. Il primo, in ordine di successione degli eventi e ipotizzando che non si combatta con armi chimiche ma solo tradizionali, sono i bombardamenti e le esplosioni. Ogni edificio che viene colpito da bombe o missili sprigiona nell’aria un pulviscolo fatto di materiali da costruzione (tra i quali, spesso, ancora amianto) e metalli (tra i quali, spesso, ancora, piombo).
A questo primo danno, man mano che la guerra continua e i combattimenti si intensificano, se ne sommano altri. Per esempio, sempre per quel che riguarda l’aria, occorre contare le emissioni di carri armati e aerei, mezzi che hanno bisogno di un enorme quantitativo di carburante e che, di conseguenza rilasciano enormi emissioni Co2. Emissioni alle quali si sommano quelle sprigionate dagli incendi, dalla dispersione di metalli pesanti nell’aria, dalle esplosioni di mezzi carichi di carburante, fino a quelle che arrivano dal danneggiamento di impianti industriali e minerari. Ad oggi, per esempio, è impossibile conoscere i danni ambientali legati alla lunga battaglia nella acciaieria di Azovstal, a Mariupol, un impianto che già in tempo di pace era considerato tra i più inquinanti d’Europa, ma in passato, esempi simili non sono mancati. Nel 1991, nel corso della Prima Guerra del Golfo, per citare un evento clamoroso, furono dati alle fiamme più di 600 pozzi petroliferi in Kuwait. Il risultato di quell’immenso rogo fu non solo l’emissione di un quantitativo di Co2 pari al 3% delle emissioni di quell’anno, ma anche la dispersione di una fuliggine che rimase nel cielo per mesi, cambiando le temperature a terra (che per un certo periodo furono più basse del normale).
Ma se questi sono i danni che riguardano l’aria, occorre poi considerare quelli che riguardano l’acqua. In genere le infrastrutture idriche e di trattamento dell’acqua (come depuratori e fogne) sono tra le prime ad andare a gambe all’aria, o perché prese di mira in quanto strategiche, o perché abbandonate da chi ci lavora. Il risultato più ovvio è che le acque reflue finiscono così come sono in laghi e fiumi, con un immediato rischio per la salute di chi, quell’acqua, dovesse bere. A questo primo danno, che potremmo definire, per così dire, logistico, se ne aggiungono altri, legati all’effetto delle armi che finiscono in acqua, dove rilasciano materiali tossici, e allo sversamento (incidentale o volontario) di sostanze chimiche nei corsi di acqua. L’Ucraina, in questo senso, è un caso di scuola. Lo scorso marzo, la ricercatrice del Leibniz Institute of Freshwater Ecology di Berlino, Oleksandra Shumilova, ha pubblicato uno studio relativo all’impatto della guerra sulle risorse idriche del Paese. Nello studio sono stati censiti i diversi tipi di danno alle strutture idriche e alla qualità dell’acqua, arrivando a contarne una quarantina.
Un caso particolare è quello che riguarda l’area del Donbass, una regione ricca di miniere di carbone che, come è facile immaginare, sono state abbandonate. Il problema però è che le miniere di carbone sono luoghi che hanno bisogno di continua manutenzione, per evitare che, dal momento che sono sotterranee, si allaghino di acqua destinata a contaminarsi. Per evidenti ragioni, nel Donbass nessuno si occupa più di questo tipo di manutenzione, con il risultato che le miniere sono allagate e l’acqua, che prima o poi sarà bevuta e usata, è ormai contaminata.
Ma se questo tipo di contaminazione è una specie di danno collaterale, cioè di effetto non voluto e non cercato, esistono evidenze del fatto che, altre volte, soprattutto nell’Iraq flagellato dallo Stato Islamico, la contaminazione dell’acqua sia stata volontaria e che si sia usata quell’acqua avvelenata a mo’ di arma per indebolire, avvelenare e uccidere la popolazione di intere città.
Un altro settore dell’ambiente che paga un conto salatissimo per la guerra è quello dei rifiuti. Non solo quelli militari, altamente inquinanti e pericolosi, come bossoli o residui di esplosivo, ma anche i banali rifiuti urbani. Il loro trattamento, spesso già complicato e costoso in tempo di pace, diventa pressoché impossibile in tempo di guerra. Così, nei centri urbani più o meno grandi, si creano discariche abusive (anche se sarebbe più corretto definirle spontanee) per gestire le quali ci sono solo due alternative: o lasciarle lì, a marcire e imputridirsi, contaminando la falda, o dare loro fuoco, inquinando l’aria. Un caso significativo, in questo senso, è stato ed è ancora quello della Siria, Paese che già prima dell’inizio dei combattimenti era noto per la sua pessima gestione dei rifiuti (inclusi quelli sanitari) e che oggi è di fatto del tutto privo di un sistema di smaltimento.
Oltre a tutti questi problemi ambientali, occorre poi considerare i danni alla biodiversità.Per avere un’idea di quanto seri possano essere occorre guardare a una terra tanto ricca di biodiversità quanto martoriata da guerre di vario genere: l’Africa. Nel 2018, due studiosi di Princeton, Josh Daskin e Robert Pringle, hanno pubblicato una documentatissima ricerca su come le decine di guerre che negli anni si sono susseguite in Africa hanno influito sulla sua fauna. Dalla loro relazione emerge che il 71% delle aree protette dell’Africa ha subito uno o più conflitti dal 1946 al 2010 e che, per almeno un quarto di queste aree (come Ciad, Namibia e Sudan), le guerre si sono trascinate per più di dieci anni. Un esempio lampante dell’impatto delle guerre sugli animali è quello del parco Gorongosa, in Mozambico, dove, all’inizio degli anni 2000, la popolazione di elefanti era crollata di oltre il 75% e i numeri di bufali, ippopotami, gnu e zebre si aggiravano su una o due cifre.
Non diversa è la situazione dell’Ucraina, dove si stima che risieda il 35% della biodiversità europea e dove la Riserva della biosfera del Mar Nero è un paradiso per gli uccelli migratori che lì nidificano e depongono uova. Oggi l’area è sotto il controllo russo, e non è dato sapere in che condizioni sia, se non per il fatto che, nel corso dei combattimenti è stata oggetto di incendi ed esplosioni che potrebbero averne alterato l’equilibrio.
Ma se è vero come è vero che, in tempo di guerra, si è più preoccupati di sopravvivere che dei danni all’ambiente, è vero anche che la guerra inquina anche quando non si combatte e lo fa attraverso strutture militari, produzioni di armi, esercitazioni. Lo scorso ottobre la politologa americana e docente di Oxford Neta C. Crawford ha pubblicato un libro dal titolo The Pentagon, Climate Change, and War: Charting the Rise and Fall of US Military Emissions, nel quale, pur riconoscendo gli enormi progressi in termini di decarbonizzazione compiuti dalla Difesa americana, constata la resistenza di un dato più volte denunciato: ossia che il Pentagono è ad oggi il singolo maggiore consumatore di petrolio al mondo e il maggiore emettitore di gas serra, in grado di consumare, da solo, più di 100 milioni di barili di petrolio all’anno. Il carburante serve sia ad alimentare navi, veicoli, aerei e operazioni di terra, sia per scaldare e illuminare i circa 560.000 edifici che fanno capo alla Difesa americana. Nonostante si tratti di un dato imponente, va detto che è anche inevitabilmente parziale, dal momento che, per evidenti ragioni, non è possibile avere da Paesi che hanno eserciti altrettanto imponenti, come quello russo e cinese, la medesima trasparenza in termini di consumi e inquinamento che, invece, il Pentagono provvede con puntualità. Perché, alla fine, il problema è sempre lo stesso: quando si parla di guerra, di militari e di combattimenti, la parte di danno che è possibile conoscere è sempre parziale e incompleta. Sempre stimata per difetto. L’enorme punta di un enorme iceberg.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di aprile/giugno di eastwest
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Lo scorso 25 agosto, mentre il mondo stava guardando con orrore e sgomento a quello che stava succedendo all’aeroporto di Kabul e la guerra non era nemmeno lontanamente tra le cose che consideravamo probabili, il giornale Foreign Politics pubblicò un articolo dal titolo: “I Balcani non credono più all’Ue”. A quell’epoca, sembra una vita fa, l’articolo, passò relativamente inosservato. Del resto, stavamo tutti guardando, giustamente, a Kabul.
Ma il tempo con quel pezzo è stato gentile e, pochi mesi dopo, lo ha fatto tornare buono. Del resto questi sono tempi complicati. Tempi complicati che, in teoria, non riguardano i Balcani. Ma che in pratica hanno, nella regione tormentata dall’altra parte dell’Adriatico, uno dei loro scenari chiave.
La ragione di questa centralità incidentale della regione è che i Balcani sono, geograficamente parlando, Europa a pieno titolo. Dal punto di vista politico, e anche sociale, invece non lo sono nemmeno un po’. Anzi: sono una regione i cui Governi sono sfilacciati e inefficaci, hanno lacune democratiche (soprattutto in Serbia), questioni territoriali mai risolte (come in Kosovo e in Repubblica Srpska) ed enormi problemi di corruzione e povertà. Queste condizioni di fragilità hanno sempre reso la regione, da dopo la guerra degli anni ’90, ma forse a ben guardare anche da prima, porosa, permeabile. In cerca di una pace, di un buon Governo, di una prosperità che da sola non le è riuscito di darsi e, se fosse possibile, anche di un inquadramento internazionale che, dopo aver rifuggito per tutta la guerra fredda, ora cerca disperatamente.
Questo inquadramento internazionale, in linea teorica, dovrebbe essere all’interno dell’Ue, perché la geografia, in merito, parla chiaro: i Balcani sono Europa. Però per varie ragioni questo non è mai successo. Le fragilità politiche dei Paesi balcanici hanno impedito loro di effettuare le riforme e di raggiungere i requisiti economici e di democrazia minimi richiesti dall’Ue; allo stesso modo, però, l’Ue (specie per mano di Emmanuel Macron) ha nicchiato quando si è trattato di accelerare e, addirittura, ha fermato tutto quando si è trattato di consentire a Paesi come Albania e Macedonia del Nord di entrare in Ue. “Nel 2003 – scrive Foreign Politics – a Salonicco, in Grecia, i leader europei hanno promesso ai paesi dei Balcani occidentali che il loro futuro ultimo risiede nell’Ue. Il linguaggio su una “prospettiva europea” per la regione è entrato in quasi tutti i comunicati pertinenti da allora, a cui i funzionari si sono aggrappati come dimostrazione di serietà e impegno da un blocco che ha tradizionalmente lottato per articolare una politica estera coerente per il suo vicinato più ampio. Ma la volontà politica non ha mai tenuto il passo con la retorica. E il sostegno all’allargamento tra gli elettori è in gran parte crollato in tutto il continente dall’ammissione della Croazia nel 2013, con l’opinione pubblica nei Paesi dell’Europa occidentale particolarmente diffidente nell’ammettere più paesi al momento”.
Questo continuare a procrastinare dell’Ue, questo suo continuo considerare (non senza ragioni) i Paesi balcanici come ‘non all’altezza’ del salotto buono di Bruxelles, ha generato da quelle parti enorme frustrazione e malcontento. Oltre che una sempre meno celata diffidenza verso quell’Ue che, dopo l’ignavia mostrata all’epoca della guerra, per la seconda volta nel giro di due decenni voltava ai Balcani le spalle, lasciandoli, di fatto al loro destino.
Su questo malcontento, o meglio, su questa delusione, ha seminato per anni la Russia di Vladimir Putin. Lo ha fatto in vari modi. Il primo e il più evidente dei quali è stata le propaganda capillare, compiuta sia attraverso i canali Sputnik e Russia Today, diretta emanazione del Cremlino, sia attraverso canali televisivi ‘amici’ e soprattutto attraverso la terra di nessuno dei social, inondati di troll, profili di fake news e complotti di ogni ridda. L’intenzione era quella di dimostrare come Ue e Nato fossero istituzioni pasticcione, inconcludenti, corrotte, tutto il contrario della Russia putiniana che veniva invece ritratta come solida, concreta, efficace.
Il report dell’Europarlamento ‘Mapping Fake News and Disinformation in the Western Balkans and Identifying Ways to Effectively Counter Them‘ scrive: “La disinformazione è una parte endemica e onnipresente della politica in tutti i Balcani occidentali, senza eccezioni. Una mappatura del panorama della disinformazione e della contro-disinformazione nella regione nel periodo dal 2018 al 2020 rivela tre sfide chiave della disinformazione: sfide esterne alla credibilità dell’Ue; disinformazione relativa alla pandemia di Covid-19; e l’impatto della disinformazione su elezioni e referendum”.
Allo stesso modo, un report della Nato collega esplicitamente questa volontà di semina russa nei Balcani con l’avvio della crisi in Crimea: “L’emergere di queste narrazioni in Bosnia ed Erzegovina, Montenegro e Serbia coincide con l’annessione illegale della Crimea nel marzo 2014. Il servizio di notizie Sputnik è stato lanciato in lingua serba, nel febbraio 2015, subito seguito da Russia Beyond. Decine di portali con e senza impronta (cioè una dichiarazione di proprietà e paternità obbligatoria) sono apparsi, generando o distribuendo messaggi simili. Nel corso del tempo, vari media, inclusi i principali organi di stampa nei paesi colpiti, hanno iniziato a utilizzare i contenuti di disinformazione stranieri su larga scala. Ciò è stato possibile grazie a un panorama mediatico caratterizzato da tabloidizzazione, logica clickbait, scarsi standard etici, scarso giornalismo investigativo e analisi delle notizie e influenze politiche”.
Ma anche se la propaganda fa molto, non fa tutto. La propaganda si fa amiche le persone, ma non i Governi. Per farsi amici i Governi servono gli investimenti. E anche quelli sono puntualmente arrivati, copiosi. In particolare nel mondo del gas. “Nel 2008 – scrive un report di Carnegie – la russa Gazprom Neft, una sussidiaria di Gazprom, ha acquisito una partecipazione di controllo nella compagnia petrolifera e del gas serba Naftna Industrija Srbije (NIS), un affare del valore di oltre $ 450 milioni e si è impegnata a investire almeno $ 600 milioni in più nell’azienda. Attraverso il suo investimento in NIS, Gazprom Neft ha acquisito beni in altre parti della regione, comprese imprese sussidiarie – stazioni di servizio, impianti di stoccaggio, diritti di perforazione ed esplorazione e uffici di rappresentanza – in Bosnia, Bulgaria, Croazia, Ungheria e Romania. Queste strutture offrono alle entità commerciali russe una presenza visibile in tutta la regione più ampia e creano affinità nelle comunità provinciali in cui le entità russe possiedono, direttamente o indirettamente, partecipazioni in importanti datori di lavoro locali”.
Un altro report, di Center for Strategic and International Studies, scrive “L’investimento economico della Russia nella regione si è concentrato su settori strategici come l’energia e ha capitalizzato i sistemi di clientelismo e corruzione dei partiti. Negli ultimi anni, la Russia ha anche rafforzato i suoi legami militari con la Serbia, vendendole armi, aerei e sistemi di difesa aerea. Ciò ha spianato la strada all’influenza russa per permeare fortemente in Serbia, Bosnia e Montenegro, dove segmenti significativi del sistema politico sono fermamente filo-russi”.
Così, ora che le menti delle persone sono state adeguatamente imbibite di propaganda filo-russa e che i Governi sono stati adeguatamente legati a Mosca, per Putin è arrivato il tempo di mietere quel che ha seminato negli anni con tanta meticolosità. I frutti sono le strade di Belgrado e Banja Luka piene di manifestazioni di estremisti di destra che inneggiano a Putin; sono il capo della Repubblica Srpska (la parte serba della Bosnia Herzegovina) che fa pressioni sull’ambasciatore bosniaco alle Nazioni Unite affinchè non voti contro la Russia; sono la Serbia che non si unisce alle sanzioni; sono Belgrado che presta orecchio a chi sussurra che, in fondo, la storia del Kosovo non è poi tanto differente da quella del Donbas.
Ma la messe più importante è quella che riguarda l’Europa. Un’Europa che, solo oggi, si accorge che il vuoto da lei lasciato nei Balcani è stato colmato da qualcun altro. Un’Europa che si accorge solo ora, che i Balcani, non sono dall’altra parte del mondo, ma al centro del suo continente. Esattamente dove li avevamo lasciati negli anni ’90.
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Pochi mesi ancora, e poi, a novembre ci saranno le elezioni di mid term. Pochi mesi ancora e poi, comunque andranno le cose, a guidare il Congresso non sarà più Nancy Pelosi.
Non sarà più lei per due ragioni. La prima, la più evidente, è che i dem potrebbero perdere il Congresso (i sondaggi, almeno per ora, sono piuttosto chiari in questo senso); la seconda è che, almeno in teoria, anche se vincessero i democratici, Pelosi potrebbe comunque decidere di passare la mano, non foss’altro che per questione di età (ha 81 anni).
Su quest’ultimo punto, ci sono voci piuttosto discordanti, perché benché Pelosi abbia detto più volte che non avrebbe fatto di nuovo la Speaker, in realtà, si è altrettante volte rimangiata la parola. Recentemente, poi, il Washington Post le ha chiesto se intendesse conservare il ruolo di Speaker in caso di vittoria o di leader della minoranza in caso di sconfitta, ma Pelosi ha rifiutato di commentare.
In realtà, la neghittosità di Pelosi circa il suo futuro non è faccenda da ascrivere solo alla vanità o alla difficoltà a lasciare il potere. È invece faccenda molto politica. La ragione è che prima di fare un passo di lato (comunque vada, Pelosi siederà al Congresso, dal momento che si ricandida per il suo collegio sicuro di San Francisco), Pelosi vuole guardare in faccia il Congresso e, soprattutto, il Partito democratico che uscirà dalle prossime elezioni di mid term e prima ancora, dalle primarie che si svolgeranno da qui alla prossima estate.
Nei prossimi mesi infatti, le primarie saranno se possibile persino più importanti delle elezioni vere e proprie, perché sarà da quelle consultazioni interne che comprenderemo che aspetto avranno i partiti dei prossimi mesi e anni. La ragione è che entrambi i partiti americani, in questa fase, sono in una situazione speculare, e vivono, mutatis mutandis, la stessa situazione.
Sia tra repubblicani che tra democratici esiste una profonda spaccatura: da in lato ci sono i centristi, figli della vecchia tradizione novecentesca, convinti che le elezioni si vincano al centro, che l’elettorato non vada spaventato ma rassicurato, che la conciliazione tra le diverse anime dell’America possa essere trovata e, soprattutto, debba essere cercata; dall’altro lato ci sono i radicali, che si traducono in una fazione fortemente progressista, tra i dem, e in una fortemente trumpiana tra i repubblicani. A onor del vero, comparare democratici dem e repubblicani trumpiani non è del tutto onesto, perché se i progressisti alla Alexandria Ocasio-Cortez o alla Bernie Sanders sono radicali e spesso hanno toni accesi e fuori dalle righe, fondano comunque le loro posizioni su un principio di realtà e di verità. Si possono condividere o meno le loro analisi e proposte, le si possono trovare più o meno praticabili, sensate, eque o efficaci, ma non si possono definire lunari. Le posizioni dell’ala trumpiana dei repubblicani, invece, sono del tutto scollegate dalla realtà e dalla verità; anzi traggono forza dalla sua sistematica negazione, mistificazione, confusione; dal costante vilipendio dei criteri di verità e giustizia.
Nonostante questa fondamentale differenza, c’è però qualcosa che accomuna i democratici progressisti e i repubblicani trumpiani: la loro enorme capacità di mobilitazione degli elettori, il talento (che in America è raro e prezioso) di far uscire di casa le persone per andare a votare; la sapienza nel toccare le corde giuste dell’animo degli elettori, siano quelle dell’orgoglio o quelle della rabbia; la virtù di occupare, come un gas, tutto lo spazio di dibattito disponibile.
La ragione di questo successo è semplice e comprensibile: sia i progressisti che i trumpiani propongono un cambiamento, una rivoluzione, titillano la rabbia e la frustrazione degli ultimi, dei poveri, degli arrabbiati e degli oziosi (che spesso, per altro, sono molto di più di ultimi, poveri e arrabbiati).
Le fazioni centriste, incarnate da Pelosi e dal suo omologo repubblicano Mitch McConnell, invece propongono una versione aggiornata della solita vecchia formula di mediazioni, dialogo e concretezza. Una formula che probabilmente funziona, ma che difficilmente scalda i cuori e porta la gente a fare la fila alle urne.
Il successo, in entrambi i partiti, delle ali estreme porta a una specie di paradosso: i candidati che più hanno possibilità di vincere le primarie, sono quelli che hanno meno possibilità di vincere le elezioni. E viceversa, perché ogni volta che un candidato radicale si afferma, lascia scoperta una enorme fetta di elettorato che radicale non è e che dunque o sta a casa (come successo in Alabama nel 2017, dove la candidatura di un personaggio indigeribile persino per uno stato superrepubblicano come l’Alabama ha fatto sì che vincesse, a sorpresa, un candidato senatore democratico) o si rivolge altrove.
Il problema però è che, se in entrambi i partiti vincono candidati radicali, questo altrove potrebbe semplicemente non esistere.
La politica, infatti, non è un sistema perfetto. Non è governata dalle leggi della termodinamica. Non è in costante ricerca di equilibrio. Se lo fosse, ogni volta che uno dei due partiti si sposta all’estremo, l’altro, per forza di cose, si sposterebbe al centro. Ma con la politica non funziona così. Anzi, spesso, vale l’opposto. E polarizzazione chiama polarizzazione. Estremismo chiama estremismo. Lacerazione chiama lacerazione, con il risultato che nel prossimo Congresso potrebbero sedere soggetti che non solo non si piacciono, ma non si riconoscono nemmeno il reciproco diritto di esistere e non avrebbero la benché minima possibilità di arrivare a stringere accordi, paralizzando del tutto l’azione legislativa e il Governo di Joe Biden.
Per questo Pelosi si è ricandidata. Per questo tentenna nel dire cosa farà da grande. Non per vanagloria o, come diremmo (con grande volgarità) in Italia, per “attaccamento alla poltrona”. Perché prima di dire se sarà ancora leader o semplice deputata, vuole capire quale sarà il Partito democratico che esisterà da qui a pochi mesi. Se prevarrà la fazione centrista, potrebbe serenamente tornare a fare la deputata semplice, affidando il partito nelle mani del suo delfino, il newyorkese Hakeem Jeffries, centrista come lei. Se invece dovesse prevalere la fazione progressista (che Pelosi detesta cordialmente e di cui detesta soprattutto l’esponente superstar Ocasio-Cortez), Pelosi potrebbe voler guidare l’opposizione interna, presidiare il terreno centrista e fare da vigoroso e autorevole contrappeso a possibili sbandamenti a sinistra, che non solo lascerebbero senza voce la base centrista e moderata del partito, ma che lascerebbero anche scoperte le spalle del presidente Joe Biden.
Allo stesso modo, prima di lasciare il campo, Pelosi potrebbe voler vedere come andrà a finire la disfida tra trumpiani e centristi nel Partito repubblicano: se dovesse prevalere (cosa improbabile ma non da escludere) la fazione raziocinante che si riconosce (nonostante qualche mal di pancia) in Mitch McConnell, o in senatori centristi come Susan Collins, Mitt Romney e Lisa Murkowski, o nella deputata Liz Cheney, allora Pelosi potrebbe tirare un sospiro di sollievo e mollare la presa, convinta che comunque vada il Congresso sia in mani guidate dalla razionalità. Se invece dovesse prevalere (come sembra probabile, almeno per ora) la fazione più esaltata, quella dei cultori di Trump e della teoria della Big Lie, ossia del fatto che le ultime elezioni presidenziali siano state truccate, allora Pelosi potrebbe voler restare in prima linea, consapevole di avere una conoscenza della macchina dei regolamenti che in pochissimi anno e consapevole di avere un carisma e un autorevolezza che potrebbero essere capitali da spendere per guidare, anche dall’opposizione, il Congresso e mettere al sicuro la presidenza Biden.
La sua anali potrebbe non essere sbagliata. Per dire l’aria che tira, pochi giorni fa, Kevin McCarty, l’uomo che potrebbe diventare Speaker della Camera nel caso in cui i repubblicani tendenza Trump dovessero vincere primarie ed elezioni, ha partecipato a una trasmissione tv. Lì gli è stato chiesto “Cosa farà se diventerà Speaker e Nancy Pelosi le consegnerà il martelletto di inizio lavori?”. La sua risposta, ridanciana, è stata “Sarà difficile non darglielo in testa”. I social si sono scatenati per questa risposta inopportuna sotto mille punti di vista. Ma forse hanno perso di vista il punto vero: e cioè che probabilmente Nancy Pelosi preferirebbe farsi dare il martelletto in testa, piuttosto che affidarlo a McCarty.
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Il clima, il suo cambiamento, il suo continuo (e, a questo punto, evidente) surriscaldarsi, è faccenda che riguarda tutti, a tutte le latitudini. Ma non tutti i Governi stanno reagendo allo stesso modo. Alcuni hanno preso la faccenda di petto, affrontandola come se fosse qualcosa da cui, con urgenza, dipende la vita delle persone. Altri, invece, continuano a trattare tutta la questione clima e inquinamento come hanno sempre fatto, ossia come un problema lontano, nello spazio e nel tempo. E per questo, danno la precedenza a problemi più immediati e concreti, come l’occupazione, l’inerzia dei modelli industriali o, molto più prosaicamente, il consenso elettorale.
Altri ancora invece, e sono i Paesi più grandi e grossi, sia dal punto di vista della popolazione che da quello dell’economia, come gli Usa o l’Ue, hanno ben chiara la portata del problema, la sua imminente gravità (e anche il suo peso elettorale), ma si trovano nella complicata posizione di essere gli unici che davvero possono fare qualcosa e, allo stesso tempo, quelli che possono farci meno di tutti perché la loro ricchezza (opulenza, in alcuni casi) e quella di chi li abita dipendono proprio, se non solo, da un modello economico pensato e progettato sulla base di petrolio e carbone. Smantellarlo, potrebbe significare ripensare l’intero sistema: una cosa che si può fare, ma che richiede passi lenti e ponderati, laddove invece forse servirebbero strappi decisi.
Così, in questa stasi, mentre guardiamo le nuvole che corrono nel cielo, le tempeste tropicali che spazzano le Alpi, la grandine a novembre e i 38 gradi in Siberia, risulta difficile fare una lista dei buoni e dei cattivi tra i Paesi del mondo. Qualunque definizione sarebbe imprecisa, affrettata, parziale. Quello che possiamo fare, però, è una distinzione tra Paesi più o meno consapevoli e volenterosi. Nella lista dei Paesi più consapevoli, perché il cambiamento climatico ce lo hanno letteralmente in casa, possiamo mettere il Costa Rica, la Danimarca (con la costola Groenlandia) e le Barbados. Paesi il cui peso economico e geo-politico è, in verità, piuttosto limitato, ma che hanno fatto della lotta al cambiamento climatico la loro bandiera, la loro sfida identitaria.
Nel caso del Costa Rica occorre dire che, insieme alla Danimarca, ha dato vita al BOGA, Beyond Oil and Gas Alliance, una specie di cordata internazionale di Paesi intenzionati a fissare una data precisa entro cui mettere al bando definitivamente, la produzione e la ricerca di petrolio e gas. All’alleanza, lanciata tra non poche perplessità lo scorso settembre, hanno aderito, dopo Cop26, Paesi come Francia, Italia, Finlandia e Irlanda, oltre che lo stato della California e la regione del Quebec. La Danimarca, inoltre, si è impegnata a ridurre del 70% le emissioni di gas serra entro il 2030 e ha deciso di investire fortissimo sull’energia eolica offshore, settore del quale aspira a diventare Paese faro. Della Danimarca, poi, fa parte anche la regione autonoma della Groenlandia, che si ritrova nella posizione peculiare di essere una delle terre in assoluto più colpita dal riscaldamento globale e dallo scioglimento dei ghiacci.
Allo stesso tempo, però, la Groenlandia è anche un Paese ricchissimo di terre rare, materiali indispensabili alla transizione ecologica, ma la cui estrazione è devastante e inquinante come poche altre. Non a caso, dunque, pochi mesi fa, la Groenlandia ha fermato un enorme progetto di escavazione. Una scelta comprensibile e salutata con sollievo dagli ambientalisti di tutto il mondo. Ma che mette la Groenlandia nella scomoda e paradossale posizione di essere uno dei paesi climaticamente più consapevoli e, allo stesso tempo, che più si mette di traverso alle politiche di transizione energetica. E la ragione per cui lo fa è, in questa specie di matrioska di paradossi, proprio la tutela dell’ambiente.
Un altro Paese che merita di stare nella lista dei Paesi volonterosi e consapevoli è il Gambia, un posto del quale il mondo, in genere, tende a dimenticarsi. Pochi pochi mesi fa, però, è balzato agli onori delle cronache perché il think tank Climate Action Tracker ha certificato che, con una riduzione di gas serra del 44% entro il 2025, il Gambia è l’unico Paese ad aver rispettato a pieno gli impegni della tabella di marcia previsti da Parigi 2015. Un traguardo enorme in termini assoluti e simbolici. Ma insignificante in termini relativi, se si pensa che il Gambia è un Paese di 2,5 milioni di abitanti che per lo più vivono in estrema povertà e il cui contributo alle emissioni globali annue è di meno dello 0,01% annuo.
Nel gruppo dei buoni, poi, potremmo mettere anche un altro paese africano, il Marocco, che si sta dando da fare per migliorare la gestione delle sue risorse idriche, per ripopolare le foreste e per generare gran parte della sua energia da fonti rinnovabili. La posizione del Marocco, però, è contestata, perché per raggiungere l’obiettivo del 53% di energia rinnovabile entro il 2030 occorre passare dal controllo del Sahara Occidentale, area tra le più contese e complesse della Terra.
Infine, nel club dei Paesi senza dubbio buoni, ma di scarso ruolo economico e (ahimè) ambientale, ci sono le isole Barbados. Il loro peso nel gigantesco paniere delle emissioni globali è minimo (siamo, di nuovo dalle parti dello 0,01%, per circa 250 mila abitanti), ma, dopo Glasgow, il Paese, o meglio la sua carismatica presidente Mia Mottley, ha assunto il ruolo di leader ambientale planetario.
Stilare un gruppo dei cattivi, o meglio di Paesi che si ostinano a non impegnarsi per la riduzione del loro impatto sul clima, è faccenda assai più complicata. Perché in teoria non esiste nessun Paese che non sia consapevole dalla questione clima. E non esiste nessun Paese che, almeno di facciata, non abbia preso impegni per ridurre le proprie emissioni. Però esistono Paesi ai quali la transizione ecologica non conviene. Almeno non ora, non a queste condizioni.
Uno, per esempio è l’Australia, primo esportatore al mondo di carbone.
In realtà il contributo complessivo del carbone all’economia australiana è relativamente basso (circa l’1% delle entrate nazionali), ma è politicamente cruciale perché i lavori nel carbone sostengono alcune delle comunità rurali da cui dipende il risultato delle elezioni. A quelle comunità guarda soprattutto (un po’ come il senatore del West Virginia, Joe Manchin) il premier australiano Scott Morrison, noto per le sue posizioni di forte minimizzazione, se non proprio negazione, del cambiamento climatico e del ruolo del carbone nella sua crescita.
Male anche la Russia: non solo per i suoi (assai timidi) tentativi di policy interna, non solo per le mire, pesantissime, che ha sull’Artico, ma anche per le sue posizioni sullo scacchiere internazionale. Lo scorso dicembre, per esempio, la Russia ha bloccato una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che avrebbe definito il cambiamento climatico una minaccia alla pace.
Male anche il Brasile, dove i roghi continui della deforestazione selvaggia degli anni di Bolsonaro, hanno fatto sì che ad oggi la Foresta Amazzonica emetta più CO2 di quanta riesca ad assorbirne.
Vulgata vuole che anche Cina e India giochino nella squadra degli inquinatori senza tetto né legge. Ma, di nuovo, si tratta di una definizione un po’ affrettata. La Cina, per esempio, da un lato è responsabile di un’infinità di emissioni e usa il carbone come se fosse acqua fresca, dall’altro è anche uno dei maggiori investitori al mondo in energie rinnovabili oltre che un imprescindibile produttore di tecnologie necessarie alla transizione verde, come pannelli solari e pale eoliche.
Allo stesso modo, anche sull’India (che pure ha giocato la parte del poliziotto cattivo alla Cop di Glasgow, imponendo che nella dichiarazione finale si parlasse di ‘riduzione’ e non di ‘abbandono’ del carbone) non si possono dare giudizi affrettati. In primo luogo perché, per quanto l’India inquini (e lo fa moltissimo, è il terzo Paese al mondo per emissioni dopo Cina e Usa) ha un livello di inquinamento pro capite assai basso (molto inferiore a quello di qualsiasi Paese occidentale: 1,9 tonnellate a persona nel 2019, contro le 16 tonnellate di ciascuno statunitense). In secondo luogo perché quando si parla di India e inquinamento non si può, in tutta onestà, non tenere conto delle responsabilità storiche di un problema antico al quale l’India sta contribuendo solo da pochi anni: e se il clima, nel suo precipitoso cambiare, non tiene conto di chi ha iniziato per primo, la politica, necessariamente, lo fa.
Infine occorre dire che l’India, che pure ha zavorrato le trattative di Glasgow, un impegno lo ha preso: emissioni zero entro il 2070. Il che significa sì, vent’anni più tardi del 2050 promesso da Regno Unito, Stati Uniti e Ue, e dieci dopo il 2060 scelto da Cina, Russia e Arabia Saudita. Ma significa anche il termine ultimo. La vera e non più trattabile data di scadenza del mondo inquinatore che conosciamo. E questa è senza dubbio, una buona notizia. Non ottima, certo. Ma, per ora, è tutto ciò che abbiamo.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/febbraio di eastwest.
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Sono anni che gli esperti (e i film di fantascienza, con loro) vanno ripetendo che esiste un filo sempre meno sottile tra crisi climatica e crisi sociale e che è da illusi (o da miopi) pensare che i ghiacci che si sciolgono e i boschi che vanno a fuoco, oggi, non si trasformeranno, domani, in mancanza di cibo e acqua e in miseria vera e concreta per tutti, incluso l’opulento occidente.
Per comprendere con chiarezza cosa si intende per crisi climatica che diventa crisi sociale, forse, un buon posto a cui guardare è la Mongolia, Paese spesso fuori dai radar delle cronache politiche internazionali, ma nel quale il domani della miseria causata dal clima impazzito sembra essere già arrivato.
La ragione degli “spoiler del mondo che sarà” che ci arrivano dalla Mongolia è piuttosto semplice: la Mongolia è uno dei Paesi più estesi del mondo (il 19esimo per superficie, cinque volte l’Italia) e uno dei meno popolosi (circa 3 milioni di abitanti, metà dei quali vive nella capitale, Ulan Bator). Gran parte del territorio mongolo è costituito da steppe e il 40% della sua popolazione, ossia tutti quelli che non si sono ancora inurbati, vive di pastorizia e di agricoltura.
Non ci sarebbe molto altro da dire, se non fosse che, negli ultimi anni, il clima mongolo, che da sempre è estremamente freddo, da una ventina d’anni, è impazzito.
Dall’inizio degli anni 2000, infatti, si sono fatti frequentissimi gli inverni particolarmente rigidi (con temperature che raggiungono i -50 gradi) seguiti da estati particolarmente secche e da lunghi periodi di siccità. Si tratta di un fenomeno, quello del combinarsi di siccità e inverni freddissimi, che i mongoli conoscono da sempre e chiamano dzud (o zud) e che, fino a pochi anni fa era considerato possibile ma estremamente raro e che ora, invece, si è fatto sempre più frequente fino a essere quasi la norma. Questo abbinamento, uguale e contrario, di siccità e di enorme freddo porta con sé due conseguenze. La prima: le estati troppo calde e la siccità hanno ridotto le possibilità di avere fieno e erba per il foraggio degli animali; la seconda: gli inverni troppo freddi, di fatto, fanno sì che gli animali consumino prima del tempo le loro riserve di grasso e, dunque, abbiano fame proprio di quel foraggio che manca.
A questo punto, di nuovo, le conseguenze dello dzud e della mancanza di foraggio e del freddo, sono due, nessuna delle quali buona.
La prima riguarda gli animali che, vuoi per il freddo, vuoi per la fame, muoiono in massa. Durante lo scorso inverno, per esempio, i dati del Ministero dell’Alimentazione e dell’Agricoltura Mongolo avevano contato le morti di 402.300 capi di bestiame, ossia lo 0,6% del totale nazionale; di questi 2.100 erano cammelli, 17.200 cavalli, 36.600 mucche, 123.300 pecore e 222.900 capre. Numeri alti, ma non quanto quelli, terribili, causati dallo Dzud del 2009-2010, durante il quale morirono 8 milioni di animali, o quanto quello del 1999-2001, quando morirono 12 milioni di capi.
La seconda conseguenza degli Dzud, quella che, come dicevamo, trasforma la crisi climatica in crisi sociale, ha a che fare con gli allevatori. Se gli animali muoiono, di freddo o di fame, evidentemente, i loro proprietari rimangono privi della loro principale fonte di sostentamento. A questo punto, per chi alleva bestiame in Mongolia, ci sono varie strade possibili.
C’è chi decide di uccidere gli animali più anziani, così da poter dare il poco mangime disponibile a quelli più giovani; oppure c’è chi decide di affrontare lunghissime transumanze (centinaia di chilometri) per trovare pascoli più ricchi, con il problema, però, di dover far saltare agli animali impegnati in viaggio la stagione dell’accoppiamento e dunque di non poter avere nuovo bestiame. Oppure ancora c’è chi decide di rimanere dov’è e dove è sempre stato, entrando però in una situazione di conflitto, non di rado violento, con gli allevatori vicini, con i quali ci si contende ferocemente il poco foraggio disponibile, tanto che i giornali di cronaca locali riportano con sempre maggiore frequenza storie di alterchi e risse.
Se tutte queste opzioni appaiono, poi, poco percorribili o economicamente inconcludenti, infine, ce n’è un’altra, quella preferita dai più giovani. Gettare la spugna dell’allevamento, vendere i pochi animali rimasti e trasferirsi a Ulan Bator, città che, complice il mercato dell’estrazione mineraria, negli ultimi anni ha avuto un’enorme crescita (la sua popolazione è triplicata in 30 anni) che appare, agli abitanti impoveriti delle campagne una specie di Eldorado grondante di occasioni, lavoro, ricchezza.
Ovviamente, però, non è così. Non tanto perché non ci sia davvero possibilità di lavoro, che, in effetti c’è ed è anche molto, anche se riguarda quasi esclusivamente i minatori, ma perché a Ulan Bator non ci sono né case né infrastrutture adatte a ricevere così tante persone. La ragione di tanta mancanza di alloggi e di strutture ha a che fare in parte con l’enorme quantità di persone arrivate in pochi anni e, in parte, con la legge mongola che prescrive che chiunque ha il diritto di erigere la sua yurta su un pezzo di terreno libero, cosa che ha fatto sì che i terreni vicini alla città siano quasi tutti occupati, rendendo impossibile la costruzione di nuove case.
Il risultato è che, ad oggi, Ulan Bator appare come una città spaccata in due, a sud il quartiere gentrificato e di élite di Zaisan, con grattacieli e villette a schiera; a nord invece enormi slum, dove vecchi e fatiscenti edifici di epoca comunista si alternano alle yurte, in un sistema casuale, più che caotico, quasi del tutto privo di servizi, strade, fognature e riscaldamento. Quest’ultimo aspetto non è secondario, perché Ulan Bator è considerata la capitale più fredda del mondo, con una temperatura media annuale di 0 gradi. “I funzionari – scrive Reuters – stimano che il 55% della città – o 750.000 persone – ora viva in vasti distretti informali nelle tradizionali tende circolari dei pastori, o ger, senza accesso al riscaldamento centralizzato. Ciò ha portato a un grave problema di inquinamento con le stufe a carbone che le persone usano per stare al caldo, e che hanno portato l’inquinamento atmosferico a superare di 14 volte le linee guida globali. Consapevoli della necessità di rigenerare le vecchie aree residenziali sovietiche e di collegare i distretti ger alla fornitura di gas, per fermare l’inquinamento degli incendi, le autorità hanno promesso di investire miliardi in alloggi e servizi pubblici a prezzi accessibili entro il 2030”.
Al momento, però, il piano di nuove costruzioni prosegue a rilento e, secondo un report di Amnesty International del 2016, ha ottenuto il solo risultato di procedere a sgomberi ai quali non sono seguite costruzioni, con il risultato di produrre una pletora di potenziali senzatetto: “L’ambizioso programma di riqualificazione non è stato accompagnato dall’istituzione di garanzie sufficienti per proteggere dal rischio di sgombero forzato – dice il report -. È urgente che le autorità mettano in atto garanzie chiare ed efficaci per proteggere i diritti dei residenti”.
Così, ad oggi, le periferie di Ulan Bator appaiono non solo miserrime, sporche, e dimenticate, ma anche chiuse in un circolo vizioso del quale non si riesce a trovare il bandolo: non c’è più spazio, ma continua ad arrivare gente dalle campagne, spinta in città dagli effetti dell’inquinamento, di cui, in parte sono responsabili proprio quelle periferie sovraffollate nelle quali gli ex allevatori si trasferiscono, nella speranza di una vita migliore che, al momento, non c’è. Il risultato è che per sfuggire a una vita di miseria, se ne sceglie una ancor più misera e faticosa, priva di radici e di prospettive, incantati dal piffero magico di un futuro che, per ora, non c’è.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di settembre/ottobre di eastwest.
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