
Da due decadi giornalista, blogger e ricercatore con focus sull’Africa sub-sahariana.
I legami storici tra Mosca e Pretoria risalgono al sostegno sovietico nella lotta contro l’apartheid e più volte il Sudafrica si è schierato a favore della Russia contro posizioni occidentali
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La risoluzione 2614/2021 adottata lo scorso 21 dicembre all’unanimità dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che ha esteso di tre mesi la scadenza della missione di pace AMISOM, prevista per il 31 dicembre 2021, è una buona notizia per la Somalia, che fa affidamento sui soldati della missione dell’Unione africana (UA) per la protezione di importanti strutture, il sostegno alle forze governative e la lotta contro uno dei più letali gruppi jihadisti del mondo: Harakat al-Shabaab.
Il dispiegamento di truppe africane nel Paese del Corno d’Africa venne autorizzato dal Consiglio per la pace e la sicurezza dell’Unione africana (AUPSC) il 19 gennaio 2007 e poi approvato dalle Nazioni Unite il 20 febbraio 2007 con la risoluzione 1744, che prevedeva la protezione dei membri del Congresso somalo per la riconciliazione nazionale e la messa in sicurezza delle infrastrutture chiave. Alla missione, istituita tecnicamente come “Peace Support”, ovvero di appoggio all’apparato di sicurezza delle istituzioni federali di transizione, prendono attualmente parte circa 22mila effettivi e il grosso delle truppe proviene da cinque Paesi africani: Uganda, Burundi, Gibuti, Kenya ed Etiopia.
Il Consiglio di sicurezza ha concesso l’ennesima proroga subordinatamente alla conduzione di un tavolo tecnico, avviato lo scorso 28 dicembre e concluso il 9 febbraio, tra l’UA, il comando della missione AMISOM e il governo federale somalo, per la ridefinizione del mandato e per stabilire ruoli e competenze delle diverse componenti dell’apparato di sicurezza nazionale e quello internazionale.
Dopo essere stata esaminata congiuntamente dal governo somalo, dai funzionari dell’UA, dell’Unione europea (Ue) e delle Nazioni Unite, la documentazione elaborata nel tavolo tecnico sarà presentata all’AUPSC e al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite entro il 7 marzo per l’esame finale ed entro il prossimo 31 marzo per l’adozione, che dovrebbe aprire la strada alla nuova missione.
Il nuovo piano di transizione prevede verosimilmente la presenza della missione AMISOM sino alla fine del 2023, definendo un nuovo mandato e una riconfigurazione delle competenze. Ma soprattutto la ricerca di nuovi fondi per assicurare il finanziamento dell’operazione, che resta il nodo principale e fino a oggi è stato in gran parte coperto dall’Unione europea.
Dal primo dispiegamento delle truppe nel 2007, Bruxelles ha fornito quasi 2,3 miliardi di euro al dispositivo militare panafricano. Mentre i Paesi membri vorrebbero che l’AMISOM fosse direttamente sovvenzionata dalle Nazioni Unite.
Il rinnovo dell’AMISOM vedrà con ogni probabilità la missione trasformata in modalità ibrida, con l’ingresso di nuove forze selezionate in seno al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e soprattutto l’avvio anche di una fase di ristrutturazione tecnico-burocratica delle istituzioni somale.
Lo scorso ottobre, il governo federale somalo aveva respinto la decisione dell’AUPSC di approvare il dispiegamento di una missione congiunta UA-ONU ai sensi del capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, che garantirebbe un finanziamento pluriennale programmabile e sostenibile per assicurare il futuro della missione, attraverso contributi erogati dalle Nazioni Unite.
Secondo Mogadiscio, l’AUPSC non ha tenuto in considerazione le posizioni del governo federale ed evidenziato che invece di procedere verso l’approvazione di una missione di stabilizzazione multidimensionale UA-ONU in Somalia, l’organismo panafricano avrebbe dovuto attenersi all’agenda prefissata nell’ambito del piano di transizione del marzo 2018 per l’assunzione delle responsabilità di sicurezza dall’AMISOM da parte delle forze locali.
Per questo, nella concretizzazione di tale ipotesi di trasformazione della gestione della missione dall’UA alle Nazioni Unite, la Somalia ha posto come condizione per la propria accettazione il mantenimento della conduzione in mano all’organismo internazionale africano.
La presenza della missione AMISOM in Somalia, a partire dal 2007, è stata oggetto a più riprese di critiche da parte del governo somalo. Secondo le istituzioni locali, pur riconoscendone il merito nell’aver estromesso al-Shabaab dai centri urbani chiave della Somalia centro-meridionale, la permanenza dei militari stranieri nel Paese avrebbe da una parte rallentato il processo di transizione in direzione delle forze federali somale e dall’altro creato una vera e propria economia parallela all’interno degli apparati militari dei Paesi partecipanti.
Nella sostanza, Mogadiscio reclama che il contributo finanziario internazionale avrebbe permesso alle strutture militari dei Paesi che compongono la missione di corrispondere con regolarità i salari ai propri militari, impedendo disordini e colpi di stato, oltre a rendere possibile il rinnovo degli equipaggiamenti e le dotazioni delle proprie forze armate.
Questi fattori, secondo alcuni esponenti della politica e della sicurezza somala, avrebbero convinto i vertici militari dei Paesi partecipanti della necessità di alimentare costantemente la minaccia islamista, riducendo contestualmente la capacità delle forze somale, al fine di prorogare indefinitamente la missione a proprio vantaggio.
Al tempo stesso, con il pretesto di contribuire alla sicurezza e alla stabilità della Somalia, alcuni Paesi partecipanti alla missione AMISOM, in primis Kenya ed Etiopia, avrebbero sfruttato la propria presenza nel Paese per consolidare i propri interessi economici connessi ed esercitare un’influenza politica funzionale a risolvere a proprio favore questioni bilaterali.
A partire dall’annoso contenzioso per la determinazione dei confini marittimi tra Kenya e Somalia, su cui lo scorso 21 ottobre si è pronunciata la Corte internazionale di giustizia de L’Aja, dando in gran parte ragione alla Somalia e respingendo le richieste con le quali Nairobi invocava un adeguamento della linea equidistante per ragioni di sicurezza.
Tuttavia, anche i funzionari somali che si lamentano dell’AMISOM riconoscono che il ritiro della missione a breve termine sarebbe disastroso, perché le forze armate somale non sono ancora all’altezza di combattere al-Shabaab. Nei primi anni del suo mandato l’AMISOM ha registrato importanti successi e anche se ultimamente ha conseguito pochi progressi nel contrasto agli estremisti islamici, è ancora essenziale per mantenere una certa stabilità in Somalia. Un ritiro frettoloso incoraggerebbe l’insurrezione islamista e potrebbe far precipitare di nuovo il Paese nel caos, mentre è scosso da una crisi politica che ha paralizzato le elezioni parlamentari per oltre un anno.
Tuttavia, sarà difficile che prima del ritiro definitivo l’AMISOM sia in grado di degradare la minaccia del gruppo estremista e ripristinare la pace e la stabilità in Somalia. Ma è ancor più difficile operare una previsione su quando e come l’AMISOM riuscirà a trasferire completamente le responsabilità della sicurezza alle forze somale. Un passaggio che era già stato annunciato alla popolazione locale nel novembre 2017, quando il capo della missione, l’ambasciatore mozambicano Francisco Caetano Madeira, aveva dichiarato che il ritiro graduale si sarebbe completato entro la fine del 2020.
Il tempo ha dimostrato che l’AMISOM da sola non può sconfiggere al-Shabaab, come aveva avvedutamente previsto un rapporto realizzato nel febbraio 2016 dall’Heritage Institute for Policy Studies (HIPS) di Mogadiscio. Nelle conclusioni delle 44 pagine dello studio veniva evidenziato che ciò sarebbe potuto accadere solo se la missione di supporto alla pace avesse potuto collaborare con un apparato capace, legittimato e inclusivo delle forze di sicurezza locali. Ma l’esercito nazionale somalo è debole, lacerato dalle divisioni, dalla corruzione e dalla mancanza di una fattiva cooperazione tra le autorità federali e regionali.
Oggi l’esercito somalo non è in grado di tenere le aree riconquistate dalla missione dell’UA e con il ritiro dell’AMISOM i militanti di al-Shabaab potrebbero invadere il Paese. Di conseguenza, mantenere la missione attiva è essenziale, almeno per ora.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di marzo/aprile di eastwest.
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“Nonostante l’impatto della pandemia di Covid-19, l’ottava conferenza ministeriale del Forum sulla cooperazione Cina-Africa (FOCAC) è stata un completo successo”. Così il Ministro degli Esteri cinese, Wang Yi, chiosava con enfasi la fine dei lavori dell’evento che, lo scorso 29 e 30 novembre, ha riunito i 52 più alti rappresentanti della diplomazia africana insieme a Wang Yi e al Ministro del Commercio cinese Wang Wentao, nel Centro per le conferenze internazionali Abdou Diouf di Diamniadio (Cicad), a circa 30 chilometri dalla capitale senegalese Dakar.
Secondo il Ministro degli Esteri cinese, la conferenza di Dakar ha permesso alle parti di raggiungere un ampio consenso in materia di investimenti, sicurezza, economia digitale e cooperazione anti-pandemica, settori che saranno sviluppati in linea con le condizioni nazionali. E Wang aggiunge che “il vertice ha inoltre messo in luce la necessità di lavorare per ridefinire le relazioni internazionali nel segno di equità e giustizia, obiettivo che Cina e Africa intendono perseguire incrementando la rappresentanza dei Paesi in via di sviluppo negli organismi multilaterali”.
Di tutt’altro tenore è stato il commento del Financial Times, che ha evidenziato la riduzione degli impegni finanziari della Cina per sostenere lo sviluppo dell’Africa dai 60 miliardi di dollari del 2018 ai 40 miliardi di dollari quest’anno. Il quotidiano della City citando Chidi Odinkalu, senior manager per l’Africa alla Open Society Foundations, sottolinea come l’impegno ridotto dimostra che Pechino non deve più esporsi così tanto in Africa a livello finanziario e che alcuni governi africani si sono troppo affidati ai prestiti cinesi.
Prestiti che in alcuni casi hanno fatto scattare la cosiddetta trappola del debito, attraverso la quale la Cina riesce a tenere sotto pressione molti Paesi africani, accordando crediti spesso impossibili da restituire perché ovviamente non presta denaro gratis e intende essere rimborsata anche stipulando clausole vessatorie. Tra i due blocchi si è quindi instaurata una relazione squilibrata che genera effetti perversi con i prestiti cinesi che hanno fatto crescere il debito africano, che negli ultimi cinque anni è raddoppiato con il rischio di diventare insostenibile.
Un autorevole e illuminante parere sugli esiti dell’ultimo FOCAC giunge dall’economista e sinologo francese Thierry Pairault. In un’intervista a Le Monde Afrique, l’emerito direttore della ricerca del Centro nazionale per la ricerca scientifica (CNRS) di Parigi ha affermato che l’ottavo FOCAC ha segnato “la fine delle illusioni dopo anni di finanziamenti cinesi a impatto limitato sullo sviluppo del continente”.
L’autorevole sinologo ha spiegato che “le relazioni sino-africane sono profondamente asimmetriche poiché la Cina è altamente importante per l’Africa, grazie ai suoi progetti e ai suoi finanziamenti che hanno permesso al continente di affrancarsi dalle potenze ex coloniali. Mentre, a livello economico, l’Africa non rappresenta affatto una priorità per la Cina, ma è interessante nella misura in cui confina con le rotte marittime verso l’Europa per consentire a Pechino di raggiungere l’obiettivo dell’accesso al mercato europeo”.
Nel cementato rapporto tra i due player, c’è anche da sottolineare che gli ingenti stanziamenti finanziari cinesi in favore dell’Africa hanno permesso al gigante asiatico di fidelizzare un buon numero di Paesi dai quali raccogliere crescenti consensi alle Nazioni Unite, in termini di voti all’Assemblea Generale. È in questo modo che la Cina ha potuto ottenere la direzione di quattro agenzie dell’ONU: l’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO), l’Organizzazione per l’aviazione civile internazionale (ICAO), l’Organizzazione per lo sviluppo industriale (ONUDI) e l’Unione internazionale delle telecomunicazioni (ITU).
Un evidente successo diplomatico, considerato che né gli europei né gli americani hanno mai guidato contemporaneamente così tante agenzie delle Nazioni Unite. Senza dimenticare, che Pechino ha potuto conquistare queste posizioni solo grazie al sostegno africano, che non ha un costo troppo rilevante.
Un altro aspetto da sottolineare nei lavori dell’ottavo FOCAC è insito nella differenza a livello rappresentativo rispetto agli ultimi due vertici, quello di Johannesburg nel 2015 e quello di Pechino nel 2018, che rispettivamente registrarono la presenza di 13 e oltre 50 capi di Stato o di Governo africani, mentre il meeting di Dakar è stata una riunione a livello ministeriale.
Il Presidente cinese Xi Jinping non ha partecipato di persona all’evento e ha tenuto un discorso in videoconferenza per enunciare il suo piano per l’Africa, mentre aveva sempre partecipato agli incontri di Pechino. E prima di Xi era il Primo Ministro del Consiglio di Stato cinese a presenziare agli incontri del FOCAC in Africa (Etiopia nel 2003 ed Egitto nel 2009). Poi sotto Xi, le due riunioni del FOCAC del 2015 e del 2018 sono state trasformate in vertici di leadership.
Il ritorno del FOCAC a livello ministeriale può creare l’impressione che l’incontro di Dakar sia stato declassato, ma fin dalla sua istituzione nel 2000, è stato un evento a livello ministeriale che si tiene in maniera alternata a cadenza triennale tra Pechino e l’Africa. Inoltre, le restrizioni dovute all’emergenza epidemiologica del Covid hanno influito in buona misura sulla non partecipazione dei leader africani e del Presidente cinese.
I cambiamenti più significativi per FOCAC sono invece avvenuti a livello di sostegno economico, come dimostra l’annunciata quantità di finanziamenti per almeno 40 miliardi di dollari. Si tratta di 20 miliardi di dollari in meno rispetto a quelli ufficializzati durante il vertice di Pechino del 2018 e a tutti gli effetti è la prima riduzione di fondi per l’Africa degli ultimi 12 anni, da quando la Cina è diventata il più grande partner commerciale dell’Africa. Mentre per l’assistenza agricola, clima e ambiente, salute, pace e sicurezza e promozione commerciale, il numero di progetti da sostenere per ciascuna categoria è sceso dai 50 del 2018 ai 10 del 2021.
I due giorni di lavori del vertice in Senegal sono stati anche segnati dall’impegno di Xi Jinping a donare un miliardo di dosi di vaccino contro il Covid-19, nel continente più in difficoltà nella campagna di immunizzazione con solo l’8,75% della popolazione africana, che ha completato il ciclo vaccinale (dati CDC Africa al 20 dicembre 2021).
Il Dragone vuole così mettere in difficoltà il mondo occidentale che sulla fornitura dei vaccini si è impegnato con il programma Covax, sostenuto dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS). Entro la fine del 2021, l’iniziativa avrebbe dovuto fornire due miliardi di dosi di vaccino a circa un quarto della popolazione dei Paesi più poveri, ma ha mostrato non poche criticità, soprattutto in Africa.
Dopo lo scoppio della pandemia di Covid-19, Cina e Africa hanno lavorato a stretto contatto per contenere la diffusione del virus. Già nel maggio 2020, alla prima Assemblea virtuale dell’OMS, Xi Jinping aveva promesso 2 miliardi di dollari di assistenza per il Covid-19 ai Paesi in via di sviluppo.
Il Dragone ha poi schierato 46 squadre mediche in Africa stabilendo una cooperazione tra gli ospedali cinesi e 30 ospedali africani per facilitare il trasferimento di conoscenze. Inoltre, Xi ha promesso di assistere l’Unione africana nella costruzione di nuove sedi del CDC Africa.
Il presidente cinese ha così colto l’occasione del FOCAC per ribadire come si debba “mettere le persone e le loro vite al primo posto, essere guidati dalla scienza, sostenere la rinuncia ai brevetti sui vaccini Covid-19 e garantire veramente l’accessibilità e la convenienza dei vaccini in Africa per colmare il divario di immunizzazione”.
La Repubblica Popolare è già il primo fornitore di vaccini dell’Africa e ora punta a diventare anche il suo primo donatore. Un argomento che tornerà utile a Pechino per dimostrarsi il più vigoroso propugnatore nella lotta al coronavirus e combattere la narrazione della Cina “untrice del mondo”.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/febbraio di eastwest.
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La scarsa diffusione dei vaccini (solo il 7,35% della popolazione del continente finora è stata vaccinata con due dosi) unita alla bassa presenza di misure sanitarie per il controllo dell’epidemia hanno pesato sull’economia dell’Africa sub-sahariana, che nel 2020 per la prima volta in venticinque anni è entrata in recessione, segnando un -1,7% con alcuni stati, come il Botswana, Namibia, Zimbabwe o Repubblica del Congo che hanno superato il -8%. Tuttavia, nel 2021, l’Africa sub-sahariana è uscita dalla recessione, ma la sua ripresa è ancora timida e fragile, trainata dalla crescita economica globale e più nello specifico dal vistoso aumento dei prezzi delle materie prime.
Le stime contenute nel ventiquattresimo rapporto semestrale Africa’s pulse, pubblicato lo scorso ottobre dalla Banca mondiale, indicano che nel 2021 la macroregione potrà crescere del 3,3%: una ripresa più debole rispetto alle altre emergenti economie di mercato. Nel biennio 2022-23, si prevede una crescita a tassi inferiori al 4%, ma sarebbe possibile superare il 5% con una rapida distribuzione del vaccino contro il Covid-19, che consentirebbe il ritiro delle misure di contenimento nell’area sub-sahariana.
La crescita economica più debole si tradurrà in un peggioramento delle condizioni di vita generali, con il risvolto dell’instabilità politica e securitaria, che facilmente si collega nei contesti dove cresce l’insicurezza alimentare e sanitaria, si abbassa livello di istruzione e aumentano genericamente tutte le condizioni di povertà.
Gli economisti hanno registrato anche un’altra peculiarità in tutta l’area a sud del Sahara consistente in una crescita irregolare, come dimostrano i dati della Repubblica democratica del Congo (RdC) e del Sudafrica.
Secondo quanto dichiarato, la settimana scorsa, in una conferenza stampa dal direttore generale del Fondo monetario internazionale (FMI), Kristalina Georgieva, la RdC dovrebbe crescere del 5,4% nel 2021 e del 6,4% nel 2022. Georgieva ha lodato il Paese africano per la performance economica registrata durante la pandemia, in cui “il primo produttore mondiale di cobalto ha beneficiato dei prezzi più alti delle materie prime, ma soprattutto delle riforme che il Presidente Félix Tshisekedi e il suo Governo hanno portato avanti”.
Di contro, gli analisti di PricewaterhouseCoopers (PwC) hanno evidenziato che il Sudafrica rischia di mancare il suo obiettivo di crescita previsto di circa il 5%. I dati di Stats SA, il servizio statistico nazionale sudafricano, rivelano che la seconda economia più grande del continente è cresciuta al 5,8% nei primi tre trimestri dell’anno, ma l’emergere della nuova variante Omicron, insieme ai conseguenti divieti di viaggio imposti da più di 90 Paesi, provocheranno un rallentamento della crescita nell’ultimo trimestre di quest’anno.
PwC stima infatti che le restrizioni di viaggio da sole potrebbero produrre una perdita di entrate dall’estero, che potrebbe arrivare fino a 406 milioni di dollari riducendo la crescita media annua a meno del 5%.
Nel frattempo, giungono notizie positive dalle start-up tecnologiche africane, come conferma Dario Giuliani, direttore della Briter Bridges Intelligence, una società londinese di analisi aziendale con focus sull’Africa. Giuliani afferma che le start-up africane dovrebbero raccogliere 5 miliardi di dollari di finanziamenti nel 2021: un importo superiore alla somma dei tre anni precedenti messi insieme. Secondo la società di analisi aziendale, l’aumento degli investimenti nel settore è in parte dovuto al richiamo delle imprese di Fintech (tecnologia finanziaria) nel continente, che ha contribuito a far nascere quattro nuovi “unicorni” (aziende private valutate oltre 1 miliardo di dollari) nel settore Fintech: Flutterwave, Interswitch, Fawry e Jumia.
Sebbene gli investimenti nelle start-up in Africa stanno registrando un anno record, il continente è ancora molto indietro rispetto agli accordi di Venture Capital (forma d’investimento ad alto rischio tipicamente orientata a finanziare start-up innovative) realizzati in altri mercati emergenti come India, America latina e Sud-est asiatico.
Una delle maggiori sfide che il mercato africano delle start-up deve affrontare è la carenza di investimenti nella fase iniziale. Sebbene il finanziamento di avviamento costituisca gran parte del volume totale delle operazioni di Venture Capital in Africa, ha rappresentato solo il 6% del valore totale delle operazioni segnalate nel continente tra il 2014 e il 2020. Questo squilibrio dimostra quanto possano essere impervie le opportunità di raccolta di capitali su piccola scala per le start-up africane. Sempre più aziende stanno cercando di far crescere le proprie attività, ma il loro percorso verso la scalabilità e lo sviluppo è ostacolato dai finanziamenti limitati nella fase iniziale.
Tuttavia, è indiscutibile che gli ultimi dati lasciano ben sperare e le start-up in Africa stanno creando nuove opportunità di mercato, avendo raccolto la notevole cifra di 1,1 miliardi di dollari in un anno come il 2020, che è stato senza dubbio difficile per gli investimenti privati a livello globale.
Ciononostante, nei passati dodici mesi, in Africa sub-sahariana si è registrato un aumento di 2,2 volte del volume delle trattative, rispetto al 2019, corrispondente a più di un terzo delle 933 trattative di Venture Capital segnalate in Africa, tra il 2014 e il 2020.
Un dato che attesta come, malgrado l’impatto della crisi sanitaria globale, il Venture Capital africano era ed è tuttora ricco di potenziale. Come conferma anche il secondo e ultimo rapporto sul Venture Capital in Africa realizzato dall’African Private Equity and Venture Capital Association (AVCA), che nel 2020 rileva un record di 319 accordi registrati, rispetto ai 140 accordi registrati nel 2019.
Una spinta inequivocabile che testimonia come imprenditori e investitori hanno resistito alla tempesta della pandemia con notevole forza d’animo. Una resistenza evidenziata dai titoli quasi quotidiani che i giornali locali dedicano a imprenditori e start-up africani, iperattivi nel raccogliere finanziamenti da investitori internazionali per crescere, scalare e continuare a innovare.
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Giovedì scorso si è registrato un nuovo attentato terroristico a Mogadiscio, la capitale della Somalia, dove un Suv imbottito d’esplosivo è stato lanciato contro un automezzo in movimento nei pressi del trafficato snodo del KM4, che congiunge le principali strade della capitale somala ed è ripetutamente colpito da frequenti attacchi perpetrati ai danni dei convogli della missione dell’Unione africana in Somalia (AMISOM) e dell’esercito nazionale somalo (SNA) in pattugliamento.
L’attacco è stato rivendicato alla Reuters dal gruppo terroristico islamista al-Shabaab, che aveva l’obiettivo di colpire un convoglio che trasportava personale delle Nazioni Unite. La detonazione è stata talmente forte da causare il crollo delle pareti di una scuola.
Il bilancio dell’attentato è di 8 vittime e 17 feriti, tra cui diversi studenti e almeno 4 componenti della scorta del convoglio; illesi invece gli stranieri scortati che erano l’obiettivo dell’azione.
L’attacco suicida conferma una fase di recrudescenza della minaccia del terrorismo, con ripetute azioni letali nella capitale. Gli estremisti somali stanno capitalizzando la ridotta pressione antiterrorismo dovuta alla decisione degli Stati Uniti di rivedere il loro sostegno all’unità d’élite Danab, che fa parte dello SNA ed è addestrata da Washington.
La Danab ha registrato maggiori successi rispetto alle altre unità militari somale nella lotta ad al-Shabaab, grazie all’addestramento e all’equipaggiamento di gran lunga superiori. Tuttavia, i suoi 1.400 effettivi sembrano un numero assai ridotto in confronto ai 10mila combattenti attivi e alla ampia rete di informatori e fiancheggiatori, sui quali, secondo gli esperti, può contare al-Shabaab.
La decisione statunitense di rivedere il sostegno alla Brigata Danab è maturata alla fine di ottobre, dopo che gli americani hanno appurato il suo coinvolgimento nei recenti scontri a Guriel, nella regione di Galmudug. Scontri che l’hanno vista contrapposta alla milizia Ahlu Sunna Wal Jama’a (ASWJ), gruppo paramilitare composto da sufi moderati contrari al salafismo radicale di al-Shabaab.
Nel dicembre 2017, ASWJ ha firmato un accordo di condivisione del potere con l’amministrazione statale del Galmudug, dove operano le sue milizie, mentre nel 2019 il Governo somalo ha lanciato un’esercitazione per incorporare i coscritti di Ahlu Sunna nelle forze di sicurezza federali somale. Tuttavia, il mese scorso sono scoppiati nuovi combattimenti a causa di una disputa irrisolta tra il gruppo paramilitare di ispirazione sufi e l’amministrazione regionale di Galmudug.
Sui combattimenti avvenuti a Guriel, aveva preso le distanze anche la missione AMISOM precisando che è attiva in Somalia “per combattere il terrorismo, al-Shabaab, il gruppo dello Stato islamico e i suoi affiliati, e non per non rivolgere le armi contro gli attori somali che sono impegnati in controversie politiche”.
Fonti diplomatiche citate da Voice of America hanno confermato che gli scontri hanno causato oltre 120 vittime da ambo le parti, tra cui il comandante dell’unità Danab, il maggiore Abdilatif Ahmed Ali Fayfle. Le stesse fonti hanno affermato che “in conseguenza del coinvolgimento della Danab negli scontri con ASWJ, gli Stati Uniti hanno deciso di rivedere il sostegno che forniscono all’unità dello SNA per garantire che venga utilizzato in modo appropriato e coerente con la politica e gli obiettivi statunitensi”.
È importante ricordare che negli ultimi dieci anni, gli Stati Uniti hanno investito miliardi di dollari in Somalia, parte dei quali per costituire e addestrare Danab, l’unica unità combattente efficace e apolitica nella guerra in corso contro al-Shabaab. Ora che molti addestratori americani hanno lasciato la Somalia, la catena di comando della Danab teme che la diminuita supervisione degli Usa renderà l’unità d’élite vulnerabile alle interferenze politiche del Governo somalo, che dallo scorso aprile è coinvolto in un aspro conflitto politico.
Anche se in questa nuova fase di recrudescenza degli attacchi di al-Shabaab, il processo elettorale resta in ombra, mentre la commissione elettorale federale che lo sovraintende ha stabilito che le elezioni della Camera bassa somala, iniziate il 16 novembre, dovranno terminare entro il 24 dicembre. Il rispetto della scadenza però dovrà tenere conto di eventuali riscorsi, in particolare quelli dell’opposizione rappresentata dall’ex Presidente del Parlamento Mohamed Sheikh Osman Jawari.
L’assistenza internazionale resta necessaria anche per la grave siccità che in queste settimane sta colpendo il Paese, interessando oltre due milioni e mezzo di persone, ovvero circa un quinto della popolazione locale. Come riportato da Save The Children, la Somalia è attualmente messa in ginocchio dalla mancanza di acqua e dall’inedia. Stando alle stime dell’organizzazione da oltre un secolo impegnata nella tutela dei minori più fragili, circa 2,6 milioni di somali (il 22% dell’intera popolazione in 66 dei 74 distretti) stanno subendo le pesanti conseguenze della siccità.
I dati diffusi dall’Ong londinese attestano che circa 113mila persone risultano sfollate ed entro la fine dell’anno 1,2 milioni di bambini sotto i 5 anni saranno malnutriti; mentre nel prossimo anno, il numero delle persone bisognose di assistenza umanitaria salirà di oltre il 30%, da 5,9 milioni a 7,7 milioni. Lo scorso 24 novembre, il premier somalo Mohamed Hussein Roble ha dichiarato lo “stato di emergenza umanitaria” a causa della siccità che sta devastando il Paese, sollecitando l’assistenza internazionale.
L’appello di Roble sembra essere stato accolto il giorno seguente, quando l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao) e il Fondo per lo sviluppo del Qatar (Qffd) hanno siglato un accordo per lo stanziamento di 1,7 miliardi di dollari per aiutare le comunità rurali vulnerabili in Somalia a raggiungere la sicurezza alimentare e a sviluppare la resilienza ai cambiamenti climatici.
Un aiuto che potrebbe risultare assai utile dopo che la scorsa settimana, l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari (OCHA) ha rilasciato un nuovo bollettino in cui afferma che “la Somalia si prepara all’arrivo di una quarta consecutiva stagione delle piogge fallimentare”. Il paradosso è nell’inversa proporzionalità tra danni ambientali commessi e conseguenze da espiare. “La Somalia – come spiega il giornalista Mohamed Kahiye – contribuisce a meno dello 0.003% delle emissioni di gas serra in atmosfera, ma l’impatto del cambiamento climatico grava fortemente sulle spalle dei pastori e degli allevatori locali”.
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Lunedì scorso a Banjul, capitale del Gambia, sono cominciati i lavori della 69esima sessione ordinaria della Commissione africana sui diritti dell’uomo e dei popoli (ACHPR), che si concluderanno il prossimo 5 dicembre.
L’ACHPR è stata istituita dall’Assemblea dei capi di Stato e di Governo dell’allora Organizzazione dell’Unione africana (dal luglio 2001 divenuta Unione africana) come organo competente a promuovere e assicurare la tutela dei diritti fondamentali e di quelli dei popoli africani.
L’ultima sessione ordinaria dell’ACHPR di quest’anno giunge in un momento critico in cui la pandemia di Covid-19 ha messo in luce evidenti disuguaglianze economiche, nonché i deboli sistemi di protezione sociale dei Governi africani, che non riescono a garantire un tenore di vita migliore per le fasce più povere della popolazione.
Nel frattempo, come evidenziato da un nuovo report di Human Rights Watch (HRW), molte altre sfide umanitarie sono sempre presenti, mentre gli Stati membri dell’Unione africana (Ua) continuano ad anteporre la politica ai diritti umani, ampliando il divario tra gli organi politici dell’organizzazione continentale e le istituzioni africane impegnate nella salvaguardia dei diritti umani. Un approccio che, secondo Carine Kaneza Nantulya, direttrice della difesa dell’Africa presso HRW, minaccia di annullare decenni di duro lavoro e progressi sulla delicata tematica nel continente.
Nantulya non perde l’occasione per sollecitare gli Stati membri dell’Unione africana ad affrontare con urgenza il deteriorarsi della situazione dei diritti umani e il deficit democratico che colpisce il continente, con particolare attenzione rivolta all’Etiopia. Secondo la direttrice della difesa dell’Africa per HRW, l’Ua dovrebbe invece allinearsi e mettere in pratica le raccomandazioni della Commissione africana sottoposte all’attenzione degli Stati membri, nell’ambito di un’agenda sui diritti umani incentrata sulla tutela delle persone.
In particolare, di fronte all’intensificarsi e all’allargarsi dei combattimenti nella regione del Tigrè, dove il 4 novembre 2020, il Governo federale etiope ha iniziato un violento conflitto, che con ogni probabilità è già stato segnato da numerosi crimini di guerra e contro l’umanità.
Per questo, è molto importante che l’Ua dimostri il proprio impegno a far rispettare gli obblighi degli Stati membri sulla base dei suoi rigorosi standard sui diritti umani. A questo proposito, la decisione del Consiglio per la pace e la sicurezza di invitare il Presidente dell’Ua a fornire aggiornamenti periodici sulla crisi, offre l’opportunità di riferire pubblicamente sugli sforzi regionali per evitare ulteriori atrocità e punire i responsabili.
Su quest’ultimo punto, l’Ong newyorchese non ha risparmiato le critiche al Consiglio per la pace e la sicurezza dell’organizzazione panafricana, che nonostante le crescenti tensioni, lo stato di emergenza nazionale approvato dal Parlamento etiope e il blocco umanitario illegale messo in atto delle autorità locali, ha aspettato più di un anno per lanciare l’allarme e chiedere al Presidente dell’Ua di fornire aggiornamenti periodici sulla crisi.
A tale proposito, il Consiglio dovrebbe anche continuare a sostenere il lavoro della Commissione d’inchiesta sugli abusi commessi nel conflitto del Tigrè, istituita dall’ACHPR e invitare i commissari a relazionare al Consiglio al termine dell’indagine.
Da parte sua, il Governo etiope, ha criticato l’ACHPR per aver istituito la Commissione d’inchiesta e ha invece chiesto di avviare un’indagine congiunta nel Tigrè con la Commissione statale etiope per i diritti umani (EHRC). L’ACHPR ha però respinto questa richiesta, argomentando che un’indagine congiunta in un conflitto in cui il Governo è direttamente coinvolto altererebbe l’indipendenza della Commissione d’inchiesta.
L’Atto costitutivo dell’Ua e la Carta africana per la democrazia, le elezioni e la governance contengono diverse disposizioni che possono essere applicate per condannare i cambiamenti di regime incostituzionali e gli emendamenti costituzionali controversi, che possono violare i principi democratici di un Governo. Strumenti legali estremamente importanti per mitigare la recrudescenza dei colpi di Stato militari e il loro impatto negativo sulla democrazia e sui diritti umani in tutta l’Africa.
Human Rights Watch obietta che l’Ua abbia applicato in modo incoerente entrambi gli strumenti. Infatti, ha prontamente sospeso il Sudan da tutte le attività dell’organizzazione, dopo il colpo di Stato militare del 25 ottobre; mentre alla fine di aprile non ha intrapreso azioni simili nei confronti del Ciad, dopo il golpe messo in atto dal generale Mahamat Idriss Déby, detto Kaka.
In quest’ultimo caso, l’ACHPR si è limitato a condannare le forze di sicurezza del Ciad per l’uso eccessivo della forza contro manifestanti pacifici, che chiedevano la fine della requisizione del potere da parte del Consiglio militare di transizione (CMT), guidato da Kaka.
Assai debole è stato anche l’effetto del richiamo del Consiglio per la pace e la sicurezza compiuto in una sessione aperta nel maggio 2014 per adottare “tolleranza zero contro politiche e azioni perseguite con mezzi incostituzionali per rovesciare sistemi oppressivi”. In pratica, gli organi politici dell’Ua spesso tacciono sugli abusi dei diritti umani da parte dei Governi, compresi quelli che generano corruzione, disuguaglianza, violazioni dello stato di diritto e dei principi di buon Governo.
Per aiutare a prevenire cambiamenti di Governo incostituzionali e rafforzare le capacità di gestire tali situazioni, l’Ua dovrebbe affrontare attivamente i problemi dei diritti umani alla radice di queste sommosse, come la debolezza della governance, dello stato di diritto, delle istituzioni giudiziarie e la diffusa impunità.
Gli Stati membri dell’Unione africana dovrebbero quindi utilizzare gli strumenti legali a loro disposizione per tutelare le persone, i diritti umani e la democrazia nel continente. Oltre a sostenere apertamente le Commissioni d’inchiesta istituite dall’ACHPR, mettendo così in atto un approccio di cui a lungo termine potrebbe beneficiare tutta l’Africa.
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Un nuovo golpe militare ha fatto nuovamente precipitare il Sudan nel caos, interrompendo il corso della transizione democratica avviata dopo la rivolta popolare dell’aprile 2019, che aveva rovesciato la dittatura di Omar al-Bashir. Tutto ha avuto inizio all’alba di lunedì 25 ottobre, quando, dopo aver bloccato le vie d’accesso a Khartoum, le forze armate hanno fatto irruzione nel nuovo palazzo presidenziale.
I militari, guidati dal generale Abdel Fattah al-Burhan, hanno sciolto d’imperio il Governo composto da militari e civili, arrestato il Primo Ministro Abdalla Hamdok e la moglie, così come i Ministri dell’Industria, Ibrahim al Sheikh, e dell’Informazione, Hamza Baloul; oltre a diversi funzionari governativi ed esponenti dei movimenti della società civile. Dopo il putsch, i militari hanno sospeso la Costituzione, dichiarato lo stato d’emergenza, bloccato Internet e chiuso l’aeroporto di Khartoum.
Le forze di sicurezza hanno anche usato gas lacrimogeni e proiettili di gomma (e anche veri) per reprimere le manifestazioni organizzate dai movimenti sudanesi pro-democrazia, che sabato scorso hanno visto decine di migliaia di persone scendere in piazza in diverse zone di Khartoum e nella città gemella Omdurman, nonché nella città di Nyala.
Le imponenti proteste per chiedere il ripristino del Governo civile si sono ripetute in tutto il Paese, da El-Obeid ad Atbara e Port Sudan, nonostante la campagna di arresti e la chiusura delle reti di telefonia mobile.
I gruppi pro-democrazia rifiutano la possibilità di riconoscere o negoziare con un Governo militare, chiedendo invece il rilascio di tutti i leader civili, compreso il Primo Ministro Abdalla Hamdok, che ora è agli arresti domiciliari.
Le marce dei manifestanti rappresentano la sfida più seria alla presa del potere da parte dei militari, che per disperdere i cortei finora hanno provocato almeno 11 morti e oltre 170 feriti. Un tributo di sangue che ha suscitato un coro di reazioni di condanna da parte della comunità internazionale e di Amnesty International, che ha invitato i generali sudanesi a indagare sulle uccisioni di manifestanti e a perseguire le persone coinvolte.
Le manifestazioni sono arrivate quando il generale al-Burhan ha annunciato che per ricoprire l’incarico di Primo Ministro avrebbe nominato un tecnico per governare al fianco dei generali. Burhan ha insistito sul fatto che l’acquisizione del potere da parte dell’esercito “non è un colpo di Stato”, ma un’iniziativa presa al solo scopo di “modificare il corso della transizione sudanese”.
Le proteste sono state legittimate dal segretario di Stato americano, Antony Blinken, che attraverso un tweet ha avvertito le forze di sicurezza del Sudan di rispettare i diritti umani, aggiungendo che qualsiasi violenza contro manifestanti pacifici è “inaccettabile” e che gli Stati Uniti continuano a sostenere il popolo del Sudan nella sua lotta nonviolenta per la democrazia.
Facendo eco a Blinken, l’inviato speciale britannico per il Sudan e il Sud Sudan, Robert Fairweather, con un tweet ha esortato le forze di sicurezza del Sudan a “rispettare la libertà e il diritto di espressione” per i manifestanti, sottolineando che “la protesta pacifica è un diritto democratico fondamentale e i servizi di sicurezza e i loro leader si assumeranno la responsabilità di qualsiasi violenza nei confronti dei manifestanti”.
Nel frattempo, la comunità internazionale continua a riconoscere come legittimo il Governo del deposto Primo Ministro, Abdalla Hamdok, mentre gli Stati Uniti e la Banca mondiale hanno tagliato gli aiuti esteri indispensabili per il Paese in gravissima difficoltà economica.
I militari non sembrano però tenere in considerazione tutto questo e continuano a reprimere duramente le proteste aprendo il fuoco contro la folla, abbattendo le barricate di pneumatici e pietre che bloccavano le strade e ponendo in stato di fermo migliaia di persone.
Il colpo di mano dell’esercito è arrivato dopo settimane di crescenti tensioni tra i leader militari e civili. Nonostante gli sforzi di dialogo e di apparente conciliazione tra civili e militari, questi ultimi avevano sempre cercato di mantenere le redini del potere, lasciando spazio solo a concessioni puramente simboliche.
Le forze armate hanno sempre percepito come una minaccia il tentativo di affrancamento e supremazia da parte delle componenti civili del Consiglio sovrano di transizione, che avrebbe avuto un ulteriore rafforzamento attraverso la legittimazione derivante dalle elezioni previste per il 2023.
La stessa decisione di esautorare al-Bashir nell’aprile di due anni fa va interpretata nell’ottica di offrire al popolo sudanese un capro espiatorio e salvaguardare l’immagine delle forze armate, che hanno supportato il golpe del 2019 e messo in atto quello dello scorso 25 ottobre, pur essendo parte integrante del sistema di potere che per trenta anni ha controllato il Sudan.
Per questo, le recenti iniziative del Comitato istituito per recuperare fondi pubblici dai lealisti di al-Bashir e le recenti mosse per consegnare al-Bashir alla Corte penale internazionale dell’Aja sono stati visti come una caccia alle streghe dai militari e dai molti funzionari pubblici rimasti fedeli al dittatore.
Inoltre, non vi è alcuna indicazione che l’esercito abbia mai pianificato di cedere effettivamente il potere a leader civili, come dimostrato dal modo in cui fin dall’inizio i militari hanno negoziato il processo di transizione, alimentando le tensioni con l’avvicinarsi della scadenza per cedere il controllo del Consiglio sovrano di transizione ai civili.
La leadership civile non è tuttavia esente da colpe. A causa di problemi sistemici profondamente radicati e della lenta realizzazione di un adeguato sostegno internazionale, la situazione economica non è migliorata velocemente, mentre diversi leader della società civile sono stati risucchiati in inutili e controproducenti lotte di potere.
La contiguità tra il vecchio regime e l’attuale leadership militare si manifesta anche nei ruoli di spicco che alcuni alti ufficiali dell’era al-Bashir ancora continuano ad avere nel Paese. Fra tutti emerge la figura del vice Presidente del deposto Consiglio sovrano di transizione, Mohamed Hamdan Dagalo “Hemeti”, potente generale sudanese del clan dei Mahariya, a capo delle Forze di supporto rapido (RSF). Un’unità mercenaria, assoldata dal Governo di Khartoum, che durante la guerra in Darfur si rese responsabile di inaudite violenze e crimini di guerra contro gli appartenenti alle etnie non arabe Fur, Maasalit e Zaghawa.
Nel confuso clima post-golpe in Sudan, Hemeti emerge come l’eminenza grigia del sistema di potere sudanese, che ha avuto un ruolo primario nella caduta del Consiglio sovrano di transizione e continua a tessere le trame della giunta golpista guidata dal generale al-Burhan.
Al momento attuale, risulta difficile prevedere quali potrebbero essere gli sviluppi della crisi sudanese, che vede le forze armate controllare la situazione nella capitale Khartoum e nei centri urbani principali. Mentre una parte del popolo e della società civile sudanesi si è dichiarata pronta a ripristinare il Consiglio sovrano di transizione, anche con forme di mobilitazione violenta.
Una contrapposizione che potrebbe sfociare in un’ulteriore radicalizzazione del confronto tra le parti e determinare un conflitto interno su larga scala, con tutte le drammatiche conseguenze che ne deriverebbero.
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In Sudan si sta profilando una nuova minaccia alla sicurezza del Paese, dove nelle ultime settimane sono state neutralizzate cellule terroristiche legate allo Stato islamico. L’ultima in ordine di tempo è stata sgominata con l’operazione condotta lo scorso 4 ottobre dalle forze di sicurezza locali, che si sono scontrate con un gruppo di sospetti terroristi nel quartiere di Jabra, nel periferico quadrante sud della capitale Khartoum.
Alcuni testimoni hanno riferito all’agenzia di stampa Reuters di aver visto gli agenti ingaggiare un conflitto a fuoco con un gruppo di uomini armati all’interno di un edificio residenziale. L’agenzia di stampa del Governo sudanese SUNA ha indicato i militanti come membri di una cellula terroristica, rendendo noto che quattro criminali e un ufficiale delle forze di sicurezza sono rimasti uccisi nello scontro.
Il raid delle forze antiterrorismo ha interessato due siti, dove sono stati arrestati quattro sospetti militanti, mentre il giorno prima erano stati catturati altri otto estremisti stranieri a Omdurman, città gemella della capitale Khartoum.
Pochi giorni prima, il 28 settembre, nel quartiere di Al-Azhari, sempre nella parte meridionale di Khartoum, due ufficiali e tre sottoufficiali del Servizio generale d’intelligence del Sudan (GIS) sono stati uccisi in un raid contro una cellula collegata allo Stato islamico. Nel corso dell’operazione, avvenuta nella notte, le forze di sicurezza hanno arrestato 11 terroristi stranieri di diverse nazionalità, mentre quattro sono riusciti a fuggire e sono ricercati attivamente in tutto il territorio sudanese.
Interessante notare, che per la prima volta le autorità locali hanno annunciato l’arresto di militanti dell’Isis nel Paese, tuttavia non hanno fornito molti dettagli sulle affiliazioni degli arrestati e sui piani che avevano per compiere attentati terroristici.
Il giorno dopo l’attacco del 28 settembre, un gruppo jihadista che si autodefinisce Movimento per la predicazione e il combattimento ha affermato di aver ucciso i cinque agenti del GIS. Nella dichiarazione pubblicata su Facebook, il gruppo ha rivendicato anche la responsabilità del fallito attentato per eliminare il Primo Ministro Abdalla Hamdok, compiuto il 9 marzo dello scorso anno.
Finora, le indagini non avevano consentito di risalire ai colpevoli del tentativo di assassinare Hamdok. Il gruppo ha anche negato di avere legami con l’Isis, sottolineando che “i trucchi mediatici a buon mercato utilizzati dalle autorità sudanesi non gli impediranno di compiere nuovi attacchi”.
Nei fatti, la formazione estremista che si è scontrata con le forze di sicurezza sudanesi era numerosa, ben armata, ben organizzata e costituiva certamente un serio pericolo all’interno della capitale. La minaccia della presenza di gruppi terroristici in Sudan è rimasta sempre latente, tanto che nel 2019, il Dipartimento di Stato americano aveva avvertito che l’Isis si era diffuso in Sudan, dopo aver perso le sue aree di controllo in Siria e Iraq.
Tuttavia, il Ministro degli Affari religiosi Nasreddine Mufreh, aveva negato la presenza dell’Isis nel Paese africano, ma aveva confermato l’esistenza di molti estremisti coperti dal precedente regime di Omar al-Bashir.
Sempre nel 2019 le autorità sudanesi hanno annunciato l’arresto di sei membri dell’organizzazione terroristica nigeriana Boko Haram, mentre nel giugno 2020, il Ministero dell’Interno ha comunicato l’arresto di nove appartenenti ad al-Qaeda di diverse nazionalità, che stavano pianificando di compiere attentati nei Paesi del Golfo. In precedenza, le autorità sudanesi avevano fermato altri estremisti legati alla Fratellanza Musulmana.
Il Sudan durante il regime di Omar al-Bashir è stato considerato per anni un incubatore di gruppi islamisti. Tanto che il 12 agosto 1993 era stato incluso dal Dipartimento di Stato americano nella lista nera di Paesi che sostengono il terrorismo, per aver concesso ospitalità a Osama bin Laden.
Inoltre, nel 1997, l’amministrazione Clinton aveva imposto sanzioni economiche contro Khartoum, che introducevano un embargo sul commercio, il congelamento di tutti i beni gel governo e limitavano la capacità delle banche sudanesi di lavorare con partner stranieri.
Dette sanzioni sono state sospese nell’ottobre 2017 dall’amministrazione Trump, ma il Sudan continuava a rimanere nella lista degli Stati sponsor del terrorismo. Finalmente, lo scorso 14 dicembre, il Governo di transizione del Sudan è riuscito a conseguire la rimozione dalla black list. Poi, a seguito di questa decisione, il 21 dicembre il Congresso americano ha deliberato a favore del ripristino dell’immunità legale di Khartoum.
Il professor Ahmed Sabah Al-Khair, un esperto sudanese di estremismo violento, ritiene che la situazione di instabilità in alcuni degli Stati limitrofi del Sudan – come Libia, Ciad e la regione del Sinai in Egitto – rende probabile che gruppi estremisti possano infiltrarsi nel Paese.
Sebbene all’interno del Sudan non hanno mai avuto luogo attentati terroristici su larga scala, ad eccezione di alcuni eventi minori. Come l’uccisione, il primo gennaio 2008, da parte dell’estremista Abdul Ra’uf Abu Zaid Muhammad Hamza del diplomatico americano John Granville e del suo autista. E nel gennaio 2014, l’accoltellamento del console generale russo e di sua moglie per mano di un fanatico centrafricano.
Gli ultimi fatti indicano che, specialmente dopo la caduta del regime di Bashir, per Khartoum il terrorismo costituisce una sfida prioritaria per la futura sicurezza del Paese, che può essere affrontata anche accelerando l’introduzione di una legge ad hoc. Nel varare la quale sarebbe estremamente importante che siano garantiti il rispetto degli standard dei diritti umani e dello stato di diritto.
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Lo scorso 10 giugno, il Presidente francese Emmanuel Macron ha indetto una conferenza stampa per annunciare la necessità di dare corso a un graduale ritiro dell’operazione antiterrorismo Barkhane, che dal primo agosto 2014 ha integrato l’operazione Serval in Mali e l’operazione Épervier (presente in Ciad dal 1986).
Un mese dopo l’annuncio, in occasione del vertice del G5 Sahel, il capo dell’Eliseo ha ufficializzato il ritiro della missione attiva nella parte occidentale del Sahel, sotto il mandato di fornire assistenza e supporto alle forze armate del Mali in stretto coordinamento con i Paesi del G5 Sahel (Ciad, Niger, Mali, Burkina Faso e Mauritania) e con la missione multidimensionale integrata delle Nazioni Unite in Mali (MINUSMA).
Nello specifico, Macron ha chiarito i contorni del disimpegno dei suoi soldati dalla regione saheliana, spiegando che tra la fine del 2021 e l’inizio del 2022 chiuderanno le basi di Kidal, Tessalit e Timbuctu, nel nord del Mali. Mentre il contingente francese, che ora conta 5.100 uomini dispiegati tra Mali, Niger e Ciad, dovrebbe essere ridotto del 40%, diminuendo l’impegno della Francia a circa 2.500 unità.
Questi effettivi verranno concentrati nella cosiddetta zona dei tre confini di Mali, Niger e Burkina Faso per cercare di fermare l’espansione dei gruppi jihadisti verso il golfo di Guinea. La Barkhane è l’operazione di contrasto al terrorismo che ha ottenuto i risultati più significativi rispetto alle altre missioni attive nel Sahel. Tra il 2015 e il 2019 ha eliminato quasi 700 jihadisti e significativamente ridotto le capacità offensive dello Stato islamico nel grande Sahara (ISGS), che costituisce l’obiettivo prioritario delle operazioni antiterrorismo nella regione.
Nel giugno 2020, la Barkhane ha tolto definitivamente di scena uno dei terroristi più ricercati del mondo: l’emiro di al-Qaeda nel Maghreb islamico (AQMI), Abdelmalek Droukdel, alias Abu Mussab Abdelwadud. E due mesi e mezzo dopo ha annunciato l’uccisione di Abdel Hakim al-Sahrawi, considerato il numero due dell’ISGS. I militari francesi hanno anche eliminato altri due jihadisti di spicco: Abu Hassan al-Ansari e Yahia Abu al-Hammam, due dei cinque leader della coalizione qaedista Jama’ah Nusrah al-Islam wal-Muslimin (JNIM, Gruppo per il sostegno all’Islam e ai musulmani).
Tuttavia, i successi militari ottenuti dall’operazione a guida francese e l’azione delle altre truppe europee finora non sono riusciti a fermare l’insorgenza dei gruppi estremisti, che stanno effettuando attacchi sempre più frequenti e sofisticati contro i villaggi e le basi dei locali eserciti in Mali, Niger e Burkina Faso. Come confermato sul sito di Radio France International dal Capo di stato maggiore dell’esercito francese, il generale François Lecointre, secondo cui “il terrorismo islamico continua a diffondersi, a stabilire basi locali, a raggiungere una popolazione sempre più ampia, mentre le perdite subite dall’esercito e le uccisioni di civili dovute agli attacchi jihadisti sono ancora troppo elevate”.
Nel frattempo, il Sahel rimane una regione povera costretta a confrontarsi da più di otto anni con l’insorgenza di vari gruppi jihadisti, che dalla metà del 2016 hanno prodotto l’escalation più drammatica della violenza in Africa, come provano i dati pubblicati alla fine di luglio dal Centro di studi strategici sull’Africa (ACSS) con sede a Washington. Dati che indicano come negli ultimi dodici mesi, l’attività militante islamista nel Sahel è aumentata del 33%, con la maggior parte degli attacchi operati dal JNIM, in particolare dal Fronte di Liberazione del Macina, uno dei quattro gruppi qaedisti confluiti nel cartello di al-Qaeda nel Sahel.
Tutto questo ha sicuramente influito sulla decisione di Macron di ritirare i militari della Barkhane, insieme al fatto che, dopo otto anni di impegno sul campo e 55 vittime francesi, Parigi si è stancata di interpretare in assolo il ruolo di gendarme nel Sahel. Sulla scelta del presidente francese hanno pesato anche i due recenti colpi di Stato in Mali, nonostante tutti gli sforzi fatti dalla Barkhane per stabilizzare il Paese africano.
Ciononostante, Macron è perfettamente conscio che non potrà ritirarsi completamente dalla regione, la cui pronunciata instabilità potrebbe contaminare altri Stati africani. Per questo, se da un lato le truppe dell’operazione Barkhane entro il 2023 verranno ridotte della metà, i 500 commando delle forze speciali francesi della Task Force Sabre operativi nella regione, continueranno a dare la caccia ai terroristi.
La Francia inoltre continuerà a guidare il nuovo contingente interforze europeo Takuba (nella locale lingua tuareg “spada”), che lo scorso 2 aprile è diventato operativo in coordinamento con altre missioni internazionali, in particolare la MINUSMA, la missione delle Nazioni Unite di stabilizzazione del Mali, e l’U.S. Africom, il comando delle forze armate statunitensi per il continente africano.
La nuova Task Force sembra dunque lo strumento ideato da Macron per coinvolgere l’Europa nel Sahel, dove nonostante l’importante impiego di mezzi e il sacrificio in termini di vite umane, le forze francesi non sono riuscite a mantenere la stabilità del territorio. Tuttavia, nonostante si fossero inizialmente dichiarati favorevoli all’iniziativa d’oltralpe, non tutti gli undici Stati europei firmatari della dichiarazione di adesione hanno inviato unità operative sul terreno, mentre uno di essi, la Germania, ha rifiutato ben due volte la richiesta francese.
Il primo Paese a fornire un contributo concreto alla Task Force europea è stata l’Estonia, già da tempo impegnata in Mali al fianco della Francia nell’ambito dell’operazione Barkhane. Il contributo di Tallin allo sforzo francese consta di 95 unità, la metà delle quali appartengono a reparti di forze speciali. Altro Stato che non ha esitato a prendere parte alle operazioni della Takuba è la Repubblica Ceca, che ha schierato 60 effettivi, seguita dalla Svezia, che lo scorso febbraio ha inviato 150 operatori delle forze speciali, in aggiunta a tre elicotteri UH-60 e a un aereo da trasporto C-130J.
Agli assetti messi a disposizione da questi tre Paesi occorre aggiungere alcune unità di staff inviate da Portogallo, Belgio e Olanda. Nei prossimi mesi, secondo quanto riferito dal ministro della Difesa francese Florence Parly, Parigi attende l’arrivo di forze speciali da parte di Grecia, Ungheria, Ucraina e Danimarca. Finora, però, solo quest’ultima ha confermato la sua partecipazione, specificando che un contingente danese composto da circa 100 uomini, dovrebbe giungere in Mali a inizio 2022.
Alla missione europea interforze ha aderito anche l’Italia, che inizialmente non figurava tra gli 11 paesi firmatari della dichiarazione di sostegno. La partecipazione dei nostri soldati alla Takuba (200 unità, 20 mezzi terrestri e 8 mezzi aerei) è stata decisa in occasione del vertice bilaterale con la Francia, tenutosi a Napoli il 27 febbraio 2020, durante il quale, a seguito di una richiesta esplicita da parte di Macron, l’Italia ha annunciato la sua adesione.
La Takuba rappresenta un impegno piuttosto gravoso per i Paesi coinvolti, dato che riguarda le forze speciali dei rispettivi eserciti e prevede anche il loro coinvolgimento nelle operazioni militari sul campo. Mentre sta smobilitando l’operazione Barkhane, Macron quindi si troverà nella scomoda posizione di dover convincere gli alleati europei a proseguire e magari rafforzare la Takuba. E dovrà persuadere della bontà delle sue decisioni anche i Paesi del G5 Sahel, compresi i nuovi leader in Mali e Ciad, ai quali sta chiedendo di riformare il proprio Stato e cedere il potere a un governo civile e democratico.
Richieste difficili da veicolare mentre la Francia sta preparando il suo ritiro da un’area dove, secondo l’autorevole centro di analisi geopolitica Critical Threats, con base a Washington, potrebbe sorgere un nuovo proto-stato sul modello di quello che il defunto califfo Abu Bakr al-Baghdadi istituì in Siria e in Iraq.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di settembre/ottobre di eastwest.
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La crisi nella regione etiope del Tigrè continua a deteriorarsi mentre continuano i combattimenti tra le truppe governative, appoggiate dai miliziani della vicina Eritrea, e il Fronte di liberazione popolare del Tigrè (TPLF). Dopo oltre undici mesi di violenze sono morte migliaia di persone, almeno due milioni sono fuggite dalle loro abitazioni e più di cinque milioni di persone, equivalenti al 90% della popolazione, hanno urgente bisogno di assistenza, soprattutto di aiuti alimentari (tasso di malnutrizione superiore al 22%). Purtroppo, le organizzazioni umanitarie impegnate sul campo, non sono in grado di raggiungere questa moltitudine umana.
Uno scenario a dir poco inquietante, che ha indotto il sottosegretario generale delle Nazioni Unite per gli Affari umanitari, Martin Griffiths, ad affermare che “la crisi nella regione dell’Etiopia rappresenta una macchia sulla nostra coscienza”.
In un’intervista rilasciata all’Associated Press, il capo delle azioni umanitarie dell’Onu ha spiegato che “molti abitanti del Tigrè sono costretti ad alimentarsi con radici, fiori e piante invece di aver assicurato un pasto normale”. Un’emergenza che secondo Griffiths richiama alla mente la tremenda carestia che negli anni ottanta uccise oltre un milione di persone in Etiopia.
Per questo ha chiesto al Governo etiope di condurre il Paese lontano dall’“abisso in cui sta precipitando” e lo ha accusato di aver messo in atto un blocco, che limita di fatto al 10% la distribuzione degli aiuti e dei medicinali destinati alla popolazione del Tigrè.
In risposta, il Governo sta accusando l’organismo internazionale di “ingerenza” nei suoi affari interni e ha ordinato l’espulsione di sette alti funzionari delle Nazioni Unite. Tra questi c’è il responsabile nazionale del Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (UNICEF), il capo dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA) e un alto funzionario dell’Ufficio dell’Alto Commissario per i diritti umani (OHCHR), che stava conducendo un’indagine congiunta con la Commissione per i diritti umani nominata dal Parlamento etiope sulle denunce di uccisioni di massa, stupri di gruppo e altri abusi perpetrati nel Tigrè.
Lo scorso 13 settembre, a Ginevra, l’Alto commissario Onu per i diritti umani Michelle Bachelet, aveva rivelato che per ragioni di sicurezza gli esperti non hanno potuto visitare il Tigrè orientale e centrale. Quindi la commissione congiunta non si è recata ad Axum, Idaga Hamus, Adigrat, Mahbere Dego, Debre Abbay e diversi altri centri dove, stando alle organizzazioni umanitarie e alle testimonianze raccolte dai media internazionali, sono stati commessi i crimini di guerra peggiori dalle forze etiopi ed eritree. Nel frattempo, la pubblicazione del rapporto sul Tigrè è stata posticipata al primo novembre, ma il lavoro si preannuncia largamente incompleto.
In precedenza, le autorità etiopi avevano accusato gli operatori umanitari di favorire e persino di armare le forze del Tigrè, sebbene non abbiano mai fornito prove a sostegno delle loro accuse.
L’ostilità del Governo di Abiy Ahmed nei confronti delle agenzie umanitarie presenti in Etiopia è andata crescendo di pari passo con le denunce contenute nei loro report sulla severità della crisi nel Tigrè. Senza dimenticare, che dall’inizio delle ostilità sono stati uccisi almeno una dozzina di operatori umanitari, tre dei quali lo scorso giugno, appartenenti a Medici senza frontiere (Msf). Il grave accaduto ha costretto la nota Ong a ritirarsi da alcune aree della regione.
In quest’ottica, la decisione di espellere i funzionari del Palazzo di vetro risponde alla necessità di silenziare il loro dissenso nei confronti delle scelte politiche di Addis Abeba, riguardo la gestione della crisi.
Sebbene la guerra nel Tigrè adesso rappresenti la più evidente fonte di violazioni dei diritti umani in Etiopia, non è purtroppo l’unica. Altre zone del Paese africano, in particolare le regioni dell’Oromia occidentale, dell’Amhara e del Benishangul-Gumuz, le aree lungo i confini delle regioni Oromia-Somalo e Afar-Somalo, e l’Etiopia meridionale, sono interessate da violenti conflitti e abusi sulle popolazioni locali.
È infine importante ricordare che Addis Abeba è al centro degli affari e della diplomazia dell’Africa. Proprio nella capitale etiope hanno sede gli uffici di molti enti di coordinamento e degli organismi umanitari e decisionali pan-africani.
Una guerra di lunga durata in Etiopia, oltre a influenzare negativamente le capacità di risposta strategica dell’intero continente, screditerà anche l’iniziativa “Silencing the Guns” (Mettiamo a tacere le armi), lanciata dall’Unione africana per porre fine a tutte le guerre, i conflitti civili, la violenza di genere, i conflitti violenti e prevenire i genocidi nel continente entro il 2020.
Quando, all’inizio dello scorso novembre, il Primo Ministro Abiy Ahmed diede inizio alle operazioni militari aveva promesso un rapido conflitto per ripristinare il controllo del Governo centrale, dopo gli attacchi ai campi dell’esercito federale da parte del TPLF.
Poi, il 28 novembre il premier etiope, annunciò l’ingresso dell’esercito federale nella capitale dello stato settentrionale, Macallè, tuttavia, alla fine di giugno, i ribelli che sostengono il TPLF hanno ripreso la città e gran parte della regione, costringendo le truppe governative a ritirarsi. Le forze tigrine si sono poi spinte nelle regioni limitrofe di Afar e Amhara, costringendo centinaia di migliaia di persone ad abbandonare le proprie case.
In un simile contesto, l’Unione africana, le Nazioni Unite e le potenze internazionali dovrebbero aumentare i loro sforzi per portare Abiy al tavolo dei negoziati. Perché se non sarà possibile avviare un dialogo costruttivo tra le parti, le conseguenze per l’Etiopia e l’intera Africa potrebbero essere assai gravi.
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