Le speranze e le paure di una generazione attraverso la voce di Laleh, una studentessa di Genetica all’Università di Teheran, intervistata (in anonimato) una mattina molto presto su Facetime
La globalizzazione ha assottigliato le differenze nel mondo. Vale soprattutto per le nuove generazioni e, ancora di più, per chi è cresciuto nelle grandi città. I giovani si assomigliano un po’ tutti: stessi tagli di capelli, vestiti e stili; comuni aspirazioni, sogni e desideri. Laleh ha 21 anni, vive a Teheran e studia genetica all’Università. Nell’intimità della sua camera, da cui risponde alla videochiamata, non indossa l’hijab. Fino a poco tempo fa, casa sua era l’unico luogo in cui poteva non indossarlo. Oggi, dopo mesi di proteste, i capelli rimangono liberi e sciolti pure in pubblico. È una delle grandi, fragili vittorie che i manifestanti sono riusciti ad ottenere. Come gran parte delle ragazze che frequentano l’università, ha partecipato alle proteste per la morte di Masha Amini, uccisa dalla polizia morale il 16 settembre 2022, dopo essere stata detenuta per non aver indossato correttamente il velo. Sono state le proteste più grandi che la Repubblica Islamica e gli Ayatollah abbiano mai dovuto affrontare da quando sono saliti al potere nel 1979. Così potenti e coinvolgenti da diventare più simili a una rivoluzione, sfidando le fondamenta ideologiche del regime. I cambiamenti più evidenti si vedono nelle grandi città come Teheran, da cui arrivano video di centri commerciali, strade, bazar e stazioni dove le ragazze a indossare il velo sono la minoranza. I cambiamenti più grandi, però, non si vedono con gli occhi, si sentono e sono anche difficili da spiegare a chi non è sul posto. Le proteste sono riuscite a superare la frammentazione della società iraniana: i due sessi hanno scoperto di essere più vicini di quello che pensavano e le ragazze hanno preso coraggio. Le proteste per la morte di Amini sono sì delle donne, ma anche di tutti gli uomini che ambiscono a vivere liberi dai dogmi della Repubblica Islamica. Le nuove generazioni, figlie di un mondo globalizzato e secolarizzato, rivendicano un Iran laico, al passo con i tempi.
Come procede attualmente la situazione?
In questo momento non sta succedendo granchè all’interno del Paese. Due mesi fa, le persone inondavano le strade, si scontravano con la polizia, rischiando la vita. Da quel periodo sono successe molte cose. Molti sono stati arrestati, altri condannati a morte e giustiziati. Le esecuzioni hanno spaventato le persone e molti di loro hanno smesso di scendere in strada. Ci sono, però, dei giorni specifici in cui ci si organizza per scendere in strada a protestare. Anche se negli ultimi due mesi c’è stato poco movimento, le forze di polizia sono ovunque. Nella mia Università a Teheran, che è stata un luogo centrale delle proteste, ora ci sono sempre tantissimi poliziotti, sempre pronti a picchiare e uccidere.
Che cosa è rimasto delle proteste?
Non so se ha senso per le ragazze di altri Paesi ma, prima di tutto questo, la maggior parte di noi ragazze non si sentiva sicura con i ragazzi o gli uomini estranei. Quando uscivamo da sole ci sentivamo a disagio, ma dopo le proteste ci si sente al sicuro. È come se le persone fossero diventate vicine l’una all’altra dopo quei momenti. Vedo un ragazzo per strada e so che è dalla mia parte. Non avevo idea che i ragazzi del nostro Paese fossero così solidali con noi. Abbiamo sempre pensato che si trattasse solo di interessi sessuali, eccetera. Durante le proteste, ragazzi sconosciuti si buttavano davanti alle ragazze solo per salvarle, capisci? Non ci guadagnavano nulla. Rischiavano la vita per delle sconosciute.
Dopo le proteste, tu e le tue amiche indossate ancora l’hijab?
Indossare l’hijab era la normalità, anche se non ci piaceva. Non era l’hijab di cui spesso si parla, non dovevamo coprire tutti i nostri capelli, ma dovevamo indossarlo, altrimenti la polizia morale ti avrebbe fermato. Oggi non lo indossiamo più. Non lo portiamo nemmeno con noi quando usciamo. Quando due ragazze si incrociano per le strade, e non indossano l’hijab, ci si scambia un sorriso. Sì, c’è questo feeling.
Pensi che – non indossare più il velo – sia qualcosa che avete conquistato una volta per tutte?
Sì, sento che è qualcosa che è stato conquistato, ma non si può dire se rimarrà così, perché non sai mai cosa possono fare [gli Ayatollah]. In questo momento non stanno facendo nulla perché sono spaventati da tutto ciò che sta accadendo e da tutta l’attenzione internazionale. Ma se tutto finisse senza cambiamenti concreti, allora è probabile che si vendichino sulle persone. Personalmente non voglio più indossare l’hijab. Non voglio indossarlo e non lo indosso, ma se un giorno le forze di polizia mi dovessero forzare, sarei costretta a farlo per proteggermi.
Che effetto ha avuto la repressione sul morale dei manifestanti?
Quando le proteste hanno iniziato a diventare sempre di meno, a causa della repressione e delle esecuzioni, si è diffusa una grande paura che le cose potessero tornare alla vecchia normalità. La gente si arrabbiava con tutti quelli che avevano ripreso a postare [su Instagram] la vita normale. Dopo un po’ si è arrivati alla conclusione che, in fondo, era giusto così. Era necessario tornare a vivere, a vedere i propri amici e divertirsi per guarire dai profondi traumi che la repressione ci ha provocato. Altrimenti finiresti per ammazzarti. Mi ricordo che durante il periodo delle esecuzioni, piangevo per 10 minuti, continuavo a studiare per gli esami del semestre e poi piangevo di nuovo per altri 10 minuti. Quando andavo a dare gli esami, sentivo che qualcuno era stato giustiziato alle 5 del mattino. Le persone si stanno riprendendo dai traumi subiti. Stanno vivendo la loro vita normalmente ma, nel profondo, sognano ancora tutti di cambiare le cose. Ecco perché spero che le proteste possano riprendere.
Dopo le esecuzioni, il governo ha rilasciato diversi manifestanti arrestati durante le proteste. Come mai?
Gira voce che, prima di essere rilasciati, gli venga imposto di firmare una sorta di contratto. In questo modo diventano spie del governo, oppure, promettono che si comporteranno normalmente una volta usciti, come se durante la loro prigionia fosse andato tutto bene. Ti racconto la storia di questa ragazza, viveva a Rasht, siamo state migliori amiche per circa 2 anni, poi si è trasferita e ci siamo perse di vista. La sua storia è diventata famosa con i social e il passaparola: è stata arrestata durante le proteste ed è rimasta in prigione per circa 80 giorni. Un giorno, mentre era in prigione, è stata trasferita in ospedale. Le forze di polizia non permettevano a nessuno di avvicinarla e hanno vietato alle infermiere di parlare di quello che le era successo. I genitori della ragazza, che non avevano sue notizie dal giorno dell’arresto, hanno saputo che era ricoverata in ospedale e sono corsi a cercarla. Quando hanno chiesto dove fosse la loro figlia, le autorità hanno risposto che non era là. Alcuni giorni dopo è stata riportata in prigione, senza che nessuno potesse vederla. Il motivo del suo ricovero, però, si è venuto a sapere: un’infermiera ha rivelato, anonimamente, che aveva delle ferite sul corpo ed era stata stuprata. Quando è stata rilasciata, ha iniziato subito a comportarsi come se nulla fosse. Postava le foto della sua vita di tutti i giorni, i suoi trucchi, le serate con gli amici e tutto il resto. Era tutto troppo strano. Come puoi comportarti così normalmente dopo essere stata in prigione per 80 giorni ed essere stata violentata? Le persone sanno che, probabilmente, lei è tra quelli a cui è stato fatto firmare uno di quei contratti, per cui vieni rilasciato e in cambio prometti di comportarti normalmente, come se fosse andato tutto bene. Questo è quello che [gli Ayatollah] stanno facendo: giustiziano le persone oppure le forzano a comportarsi come se non fosse accaduto nulla.
Anche andare in prigione fa tanta paura, immagino. Ci vuole davvero tanto coraggio per scendere in strada a lottare per i propri diritti.
La gente preferirebbe morire spesso piuttosto che andare in prigione. L’ho sentito dire molto spesso dalle persone che conosco che ci sono state. Conosco questo ragazzo, un bodybuilder, è stato arrestato solo per aver postato una storia Instagram. Un mese prima aveva partecipato a una gara di bodybuilding. Era muscoloso, in splendida forma. Dopo solo un mese di carcere era magrissimo, irriconoscibile. Lo hanno picchiato tantissimo, senza nessuna ragione e, nel mentre, ridevano di lui. Molte persone e miei amici sono stati arrestati e picchiati. Prima di vederli protestare, non mi sarei mai aspettata che potessero farlo. Erano persone normali che non avrebbero mai litigato con nessuno e, invece, li ho visti rischiare la loro vita, tirare fuori un coraggio che non pensavo avessero. Credo che certe situazioni ti costringano a farlo, non hai scelta. Lo fai e basta.
Pensi che i social media abbiano supportato le proteste?
Penso che tutto quello che è successo è stato possibile anche grazie ai social. Appena si è sparsa la voce della morte di Masha Amini, ricordo che eravamo su Twitter 24 ore su 24, 7 giorni su 7, e postavamo hashtags su hashtags. Anche i familiari più grandi, che non sapevano nemmeno cosa fosse Twitter, hanno iniziato a usarlo per far sapere al mondo cosa stava accadendo. È così che si è sparsa la voce. Prima ci sarebbero stati solo i notiziari. Se non ci fossero stati i social media, non avremmo potuto fare nulla, perché il governo ci ha chiuso i battenti. Oggi stanno cercando in tutti i modi di chiuderci internet e questo dimostra quanto siano spaventati dal fatto che usiamo i social per raccontare la situazione al mondo. Per accedere a Instagram, Twitter o qualsiasi altra cosa, bisogna avere una VPN (Rete virtuale privata). Prima si trovavano facilmente e gratuitamente, ora nessuna di quelle gratuite funziona più. Si devono comprare da una sorta di spacciatori, spacciatori di VPN. Credo che molte persone ci abbiano fatto un business. I social media sono come l’ossigeno per le persone in questo momento, quindi tutti sono disposti a pagare per averli.
I social, insieme a internet, hanno reso i giovani del mondo molto più interconnessi. Ci assomigliamo un po’ tutti. Seppur con sfumature diverse, una ragazza/o in Iran ha gli stessi sogni e le stesse ambizioni di un ragazzo italiano. Fanno tutti parte di un mondo globalizzato e più secolarizzato. A riguardo, che ruolo ha oggi la religione nella vita delle nuove generazioni iraniane?
Quello che dico non vale per tutti, ma la maggior parte dei giovani non segue e non crede nei valori della religione. È come se fossimo nati e fossimo stati costretti a essere musulmani, costretti a memorizzare il Corano, a indossare l’hijab. Siamo stati costretti a studiare qualcosa in cui non crediamo nemmeno, come ci dicono loro [gli Ayatollah]. Anche se non ci crediamo dobbiamo studiarlo per forza per superare gli esami. Anche ora che studio all’Università ho dovuto dare un esame legato all’Islam.
Nel complesso, com’è avere 21 in Iran dopo le proteste?
Direi che oggi c’è speranza, siamo molto più fiduciosi. Prima delle proteste, tutti noi pensavamo di lasciare il Paese e la nostra famiglia un giorno. I nostri genitori non sono così flessibili da andarsene. Hanno un lavoro, hanno delle cose da fare qui, quindi non se ne vanno. Lasciano che siano i loro figli a farlo. Non è così facile, perché sanno che una volta andati via non vorranno più tornare. In questo momento, però, ho la speranza di poter costruire qualcosa qui nel mio Paese.
Quanta miopia in uno stato che non valorizza i propri giovani, anzi li ammazza. I ragazzi e le ragazze, come Laleh, sono il capitale umano su cui si fonda il futuro dell’Iran e che il regime sta soffocando. Gli effetti economici del conflitto in Ucraina, uniti al rafforzamento delle sanzioni statunitensi imposte da Trump nel 2018, hanno eroso il potere d’acquisto del riyāl e le riserve di valuta estera, facendo decollare l’inflazione e aggravando una crisi economica che va avanti da 10 anni. Per molte famiglie è diventato difficile persino reperire lo yogurt, uno degli alimenti fondamentali della dieta iraniana. La classe media non esiste quasi più. Si sta creando un mix pericoloso per il potere degli Ayatollah: quando l’ideologia perde il suo appeal sulla popolazione, la performance economica può essere un buon sostituto per mantenere la stabilità e la pace sociale; se non vi è ideologia e neanche benessere economico iniziano a venir meno le basi del consenso. Il sovrapporsi della crisi sociale alla crisi economica sta creando i presupposti affinché gli iraniani prendano coscienza che uniti possono rovesciare la Repubblica Islamica, come successe con l’ultimo scià di Persia.
Il nome della ragazza è stato modificato per garantire la sua sicurezza.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di aprile/giugno di eastwest
Puoi acquistare la rivista sul sito o abbonarti
Le speranze e le paure di una generazione attraverso la voce di Laleh, una studentessa di Genetica all’Università di Teheran, intervistata (in anonimato) una mattina molto presto su Facetime