Il terrorismo secondo Nesher, il regista che scosse la coscienza d’Israele
Torna nelle sale israeliane "Rage and Glory", capolavoro che spaccò il Paese istillando il dubbio che “un uomo che combatte per la libertà non è un terrorista”. Discussione oggi più accesa che mai, dice il regista, che in questa intervista spiega perché “la storia è tutto, è l’arma più potente"
Torna nelle sale israeliane “Rage and Glory”, capolavoro che spaccò il Paese istillando il dubbio che “un uomo che combatte per la libertà non è un terrorista”. Discussione oggi più accesa che mai, dice il regista, che in questa intervista spiega perché “la storia è tutto, è l’arma più potente”
In queste settimane il pubblico israeliano sta riscoprendo una delle più controverse pellicole della filmografia nazionale, Rage and Glory, film del 1984 di Avi Nesher, oggetto di un restauro digitale voluto dalla Cinematheque di Gerusalemme e dall’Israel Film Archive.
Nesher, uno dei registi più famosi di Israele, ha debuttato nel 1978, a 24 anni, con Ha Lahaka (The Band), una commedia musicale di grande successo, ambientata nel 1968, sulla storia di un coro dell’esercito israeliano. Il suo secondo film, Dizengoff 99, uscito l’anno dopo il primo, è diventato subito un cult tra la popolazione giovane di Tel Aviv. Dopo alcune altre pellicole e una parentesi hollywoodiana, Nesher scrive, dirige e produce Rage and Glory, un film complesso che racconta la storia del gruppo sionista clandestino Lehi, anche noto come Banda Stern, i cui membri hanno combattuto contro il Mandato britannico in Palestina negli anni ’40. Acclamato dalla critica all’estero come un capolavoro, in Israele fu contestato su molti fronti.
Nella sede dei DB Music Studios, Avi Nesher sta lavorando in questi giorni alla post-produzione di The Other Story, secondo film di una trilogia dedicata al tema del passato, nelle sale israeliane in autunno, e si appresta a scrivere il terzo, The Monkey House.
Rage and Glory è stato il suo primo film impegnato, dopo i primi lavori più leggeri…
«Non erano esattamente “leggeri”, anzi, erano molto sovversivi, a modo loro. Il primo film, Ha Lahaka, lancia ai giovani il messaggio di non sottostare a tutto quello che i comandanti dell’esercito ordinano loro. Ma dal momento che queste pellicole non toccavano questioni di importanza storica, sono passate più inosservate. Rage and Glory invece affronta il tema del terrorismo, una questione molto sensibile. Consideri che per molti anni in Israele la proiezione de La Battaglia di Algeri, grande film di Gillo Pontecorvo, è stata proibita. Dopo l’11 settembre, al Lincoln Center, ci fu una retrospettiva dei dieci migliori film politici della storia del cinema. Rage and Glory era tra questi e fu proiettato proprio dopo La Battaglia di Algeri.»
In un’intervista ha dichiarato che in Israele il passato è sempre un argomento sensibile, perché c’è un passato ebraico e uno israeliano che non sempre coincidono…
«Trovo il passato molto interessante, specialmente in un Paese come Israele. Abbiamo un detto da queste parti: se non si custodisce il passato, il presente sarà poco chiaro e il futuro inesistente. Israele è stato fondato su un’idea, è un pensiero molto originale. Paesi come gli Stati Uniti, l’Australia o la Nuova Zelanda sono nati dall’immigrazione, da una ragione pratica. Israele nasce da un’idea, come un film. E come un film, in qualche modo diventa reale. Quando uno Stato nasce da un’idea, tutta la questione del suo passato diventa molto complessa. Qual è il passato di un’idea? Se qualcuno arriva in America dall’Irlanda o dall’Italia, si conosce la sua storia. Ma se qualcuno continua qualcosa iniziato duemila anni fa, allora è mitologia, non è nemmeno più storia. Io ho un grande interesse per la mitologia e ho una teoria: che la storia sia meno importante, per un Paese, della mitologia. In America c’è il mito del Wild West. Gli americani vedono sé stessi come personaggi del cinema, si percepiscono come persone dirette verso Ovest, dove “Going West” è una metafora. Israele si fonda sull’ideale sionista e come tale è una rivoluzione. Lo Stato d’Israele, ancora oggi, è molto rivoluzionario e trotskista. È una rivoluzione permanente.
Quando guardo al passato per ambientarci un film, in realtà sto esplorando il presente. Soprattutto in Israele, con l’Olocausto ancora così presente, così parte del nostro Dna. Mia madre è una sopravvissuta all’Olocausto e per i miei figli è un tema ancora molto attuale. Bisogna affrontarlo anche perché i politici israeliani ne abusano. In Israele, quando dici la parola Olocausto sei autorizzato a fare tutto quello che vuoi. È molto interessante per me definire la mitologia israeliana. Fin dal mio primo film ho sempre provato a decostruire il mito per capire come abbia influito sulla nascita del sistema delle convinzioni israeliane.»
Quale legame c’è tra la storia di Rage and Glory e la Guerra del Libano, contemporanea all’uscita del film?
«Penso di aver scritto Rage and Glory proprio a causa del Libano. Per me quella guerra è stata un errore enorme. Non sono un pacifista, ho combattuto, ero un ufficiale dell’esercito e capisco che i nemici facciano parte della vita e che a volte devi combatterli, ma con saggezza. Quella fu una guerra incredibilmente incauta. Molte persone della mia generazione non la volevano. Ora, non credo che i film politici debbano significare esattamente quello che dicono. In quel caso ti rivolgeresti a un pubblico che la pensa esattamente come te.
Il cinema è intrattenimento, non affronta i problemi direttamente e deve parlare alla popolazione intera.
Ho pensato che la Banda Stern fosse incredibilmente interessante prima di tutto perché penso che ne avrei fatto parte se avessi vissuto in quegli anni e poi perché i membri erano sia di destra sia di sinistra. In Israele l’Haganah rappresentava la sinistra e l’Irgun la destra. La Banda Stern era fondamentalmente anarchica. Il Lehi combatteva contro gli inglesi considerandoli in parte responsabili dell’Olocausto perché non consentivano ai rifugiati ebrei di arrivare in Israele [Palestina]. Attraverso la loro storia ho esplorato la nozione di terrorista rispetto a combattente per la libertà, una questione molto rilevante se calata nell’attualità della guerra del Libano.
Naturalmente potresti – e dovresti – controbattere che paragonare la Banda Stern all’Organizzazione per la Liberazione della Palestina non è pertinente perché i primi non andavano a uccidere bambini di proposito. Tuttavia, resta il fatto che un uomo che combatte per la libertà non è un terrorista. Per me la storia è tutto, è l’arma più potente che ci sia. Se conosci la tua storia – gli inglesi consideravano i membri della Banda Stern come terroristi mentre noi li vedevamo come combattenti per la pace – allora puoi pensare alla storia dei palestinesi in modo diverso: puoi non rispettare il modo in cui combattono ma devi considerare come la storia è raccontata nei circoli palestinesi. Per la narrativa palestinese queste persone sono combattenti per la libertà, noi naturalmente li consideriamo terroristi.
Così torniamo agli inglesi che vedevano noi come terroristi. È molto pericoloso, ed è cattiva letteratura, quando si divide il mondo in buoni e cattivi. La letteratura dovrebbe essere complessa e non definitiva perché la vita stessa non è definitiva. Rage and Glory cerca di dire questo: il mondo non è bianco o nero e certamente non si dovrebbe andare in guerra con questa convinzione. Certo, bisogna combattere i terroristi. E capisco chi si oppone alla presenza Usa in Afghanistan o all’invasione americana in Iraq ma non per una ragione ideologica, bensì per motivi pratici, perché non è questo il modo di agire. Altrimenti in definitiva vincono loro, i combattenti per la pace/terroristi.»
Nell’occasione dell’uscita della versione restaurata di Rage and Glory, in queste settimane, la discussione si è riaccesa?
«È più rilevante che mai. Mi ha sorpreso vedere tanti giovani tra il pubblico. Di solito alle proiezioni di film restaurati vanno persone che li hanno visti in passato e tornano per rivederli. Invece più della metà del pubblico non aveva mai visto il film, erano giovani e giovanissimi. Per questa generazione è molto facile capire la dualità “terrorista/combattente per la libertà”. Quando uscì il film, proprio perché c’era la guerra del Libano, qualunque cosa tu potessi dire era considerata antipatriottica. Oggi Israele è cresciuto rispetto al giovane Stato che era. In mezzo ci sono stati gli accordi di Oslo, Yitzhak Rabin ha stretto la mano a Yasir Arafat, abbiamo provato a raggiungere un accordo con Abu Mazen e Hamas è il nemico numero uno mentre l’Olp forse non lo è più…
Per questa generazione è più facile comprende che nessuno è solo buono o solo cattivo, che c’è un conflitto che non ha una soluzione morale. Non importa chi ha ragione ma chi è intelligente. È un modo completamente diverso di guardare alle cose. Negli anni ’80 gli israeliani pensavano di essere assolutamente dalla parte del giusto e che l’altro schieramento fosse assolutamente dalla parte del torto. Film come Rage and Glory hanno il merito di aver iniziato un nuovo modo di pensare. Non è un caso che tutte le critiche, adesso, parlino di un grande capolavoro, del miglior film israeliano di tutti i tempi. Improvvisamente tutti lo amano.»
Il messaggio è più chiaro oggi di allora?
«Molto più chiaro. O meglio, il messaggio è sempre lo stesso ma credo che le persone siano più aperte per coglierne la sottigliezza. Negli anni ’80 nessuno voleva capire.»
In Israele. Perché all’estero…
«All’estero il film è stato subito adorato. Specialmente in America, dove è diventato una vera hit. Perché era considerato esclusivamente come film, come un bellissimo film. In Israele è stato accolto come un messaggio politico sgradevole che insinuava che noi non fossimo necessariamente dalla parte della ragione. È interessante vedere come la prospettiva sia cambiata.»
Come ha potuto l’attore protagonista, Juliano Mer-Khamis, un vero e convinto comunista, recitare così bene la parte di Eddy il Macellaio, il più spietato della Banda Stern?
«Juliano era un giovane uomo molto interessante. Sua madre era una comunista israeliana, antisionista. Suo padre era un arabo-israeliano di religione cristiana, tra i leader del Partito comunista negli anni sessanta. Juliano ha servito nell’esercito come paracadutista. Quando l’ho visto sul palco per la prima volta aveva appena terminato la scuola di recitazione ed era incredibile, bellissimo, un bravissimo attore, perfetto per la parte e lo invitai all’audizione. Il giorno dopo ricevetti la telefonata del responsabile della scuola per attori che mi pregava, per amore dei miei film, di mettermi al riparo da Juliano.
Durante una replica dello spettacolo aveva insultato i colleghi per non essere abbastanza concentrati, aveva preso un’ascia e aveva distrutto la scenografia. Fu lì che capii che mi piaceva, che volevo lui e che sarebbe stato perfetto. E infatti è stato un attore appassionato, ha compreso fino in fondo quello che stavo cercando. Era intelligente e molto più sofisticato dei suoi genitori. C’è un vecchio detto: se a diciotto anni non sei un comunista, non hai cuore e se a ottant’anni non sei un capitalista, non hai cervello. Juliano era da qualche parte lì in mezzo. Coglieva la complessità della vita, della danza di un individuo che compie una scelta in un momento specifico. Ma il film dice chiaramente, proprio per tramite del suo personaggio, che non dobbiamo fare tutti lo stesso percorso. Non c’è qualcosa che bisogna fare, ciascuno sceglie per sé. Juliano riuscì a calarsi completamente nell’interpretazione e fu così devoto a questo film – che lo rese una grande star – tanto che non poté più raggiungere questo livello di adesione con nessun altro personaggio.»
Come sarà il film che sta per scrivere, il terzo della trilogia?
«The Monkey House si svolge nel passato e parla di come il passato ci abbatta o ci elevi ma non possa essere ignorato. È la fantastica storia vera di uno scrittore israeliano, molto popolare negli anni ’60, che negli anni ’70 inizia già a scomparire dagli scaffali. Quando il muro di Berlino viene abbattuto – lui è un comunista come tutti i kibbutznikim in Israele all’epoca – e il suo kibbutz smette di essere comunista, inizia a temere che nell’arco di tempo di trent’anni nessuno saprà più il significato della parola “comunista”, come se l’Unione Sovietica non fosse mai esistita. E si convince che l’unica cosa che resterà nella vita sarà l’arte. Tutti conosciamo i versi di Shakespeare, le commedie di Moliere, i film di Fellini… Lui desidera fortemente l’immortalità ma come scrittore non ha avuto abbastanza successo. Così decide che qualcuno dovrebbe scrivere la sua grande biografia ma nessuno si dimostra disponibile. Decide allora di assumere una giovane donna perché reciti il ruolo della sua biografa. Ma la giovane donna non sa nulla di letteratura e lui, come una sorta di Pigmalione, deve insegnarle tutto in modo che lei possa fingere di essere una laureata arrivata dal Canada per scrivere la sua biografia. Un regista televisivo italiano arriva in Israele per fare un documentario su come i romanzieri israeliani e palestinesi raccontano la stessa storia in un modo completamente opposto, incontra la finta biografa per caso, se ne innamora e si ritrova coinvolto nella vicenda dei due.
Il mese prossimo andrò in Italia dove spero di trovare un co-produttore. Amo l’Italia perché mia moglie è nata a Milano e mi ci sento a casa. La mentalità italiana e israeliana sono simili. Sono certo che se il cinema italiano, con la sua grande tradizione, incontrasse il cinema israeliano, così vivace in questo momento, succederebbe qualcosa d’interessante. Quando si mettono insieme il vecchio e il nuovo, è probabile che venga fuori qualcosa di buono.»
In ottobre invece uscirà in Israele The Other Story…
«Sì, siamo in post produzione proprio adesso. Anche questo film è basato su una storia vera ed è ambientato nel presente. Il tema è il grande caos che c’è adesso in Israele tra religiosi e secolari. Questo era un Paese socialista e il socialismo è un po’ come una religione. Quando il socialismo è morto, ha lasciato un vuoto. E sappiamo bene che in natura il vuoto non esiste. Improvvisamente nello Stato liberale e laico si è materializzata una presenza forte della religione. La cosa interessante è che sono i giovani che diventano più religiosi e c’è una lotta tremenda tra generazioni, tra figli, ortodossi e di destra, e genitori, laici e liberali.
Il film racconta la storia di uno psicologo la cui figlia diventa ortodossa e sta per sposare l’uomo sbagliato. Lui e la moglie cercano di mandare per aria il matrimonio con ogni mezzo, perché non possono accettare l’idea che i loro nipoti li considereranno come il diavolo e non parleranno mai con loro. Insomma, un dramma familiare sotto forma di commedia. Sono certo che solleverà molte polemiche in Israele, quando uscirà nelle sale.»
Torna nelle sale israeliane “Rage and Glory”, capolavoro che spaccò il Paese istillando il dubbio che “un uomo che combatte per la libertà non è un terrorista”. Discussione oggi più accesa che mai, dice il regista, che in questa intervista spiega perché “la storia è tutto, è l’arma più potente”
In queste settimane il pubblico israeliano sta riscoprendo una delle più controverse pellicole della filmografia nazionale, Rage and Glory, film del 1984 di Avi Nesher, oggetto di un restauro digitale voluto dalla Cinematheque di Gerusalemme e dall’Israel Film Archive.
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