Nei Balcani il coronavirus sta rafforzando gli uomini forti al comando di Paesi fragili, esposti alle interferenze esterne. Si fa sempre più difficile il cammino verso l’Europa
Una manifestazione contro le misure di lockdown del Governo di fronte al Parlamento di Belgrado, Serbia, 9 luglio 2020. REUTERS/Marko Djurica
Nei Balcani il coronavirus sta rafforzando gli uomini forti al comando di Paesi fragili, esposti alle interferenze esterne. Si fa sempre più difficile il cammino verso l’Europa
Una manifestazione contro le misure di lockdown del Governo di fronte al Parlamento di Belgrado, Serbia, 9 luglio 2020. REUTERS/Marko Djurica
Nei Balcani occidentali la pandemia scatenata dalla diffusione del coronavirus non ha prodotto molte novità, bensì peggiorato i numerosi deficit (politici, istituzionali ed economici) che caratterizzano questi Stati candidati a entrare in Unione europea (Serbia, Montenegro, BosniaErzegovina, Macedonia del Nord, Kosovo e Albania). Le reazioni fornite dai Governi hanno infatti ribadito molte delle criticità che affliggono la regione.
Il primo dato emerso è la scarsa capacità di coordinamento, collaborazione e condivisione di informazioni, sia a livello interstatale che infra-statale. Tolte iniziative estemporanee, i sei Stati hanno reagito in maniera disarmonica, perseguendo strategie diverse e spesso ondivaghe. Alcuni hanno imposto forme dure di chiusura, altri solo per alcune aree o città, altri ancora non le hanno imposte. Poiché il processo di adesione all’Ue prevedrebbe un incremento della cooperazione infra-regionale, i segnali sono poco incoraggianti.
Se il grado di solidarietà inter-statale è stato minimo, quello infra-statale non è stato molto più alto. In quasi nessuno dei sei Paesi si è notato un dialogo costruttivo tra Governi e opposizioni, che in alcuni casi (Albania e Serbia) hanno continuato il boicottaggio del Parlamento iniziato prima del coronavirus. Come di norma nella regione, le identità politiche seguono i confini dei diversi gruppi nazionali. Nemmeno l’attuale crisi sanitaria ha sopito le storiche divergenze che intercorrono tra le comunità nazionali che convivono nello stesso Stato.
L’esempio più significativo è arrivato dalla Bosnia Erzegovina, dove le due entità regionali − la Republika Srpska, a maggioranza serba, e la Federazione croato-musulmana − hanno adottato strategie di contenimento diverse, comportandosi come se fossero due Stati differenti. Contestato è stato anche l’atteggiamento del Governo kosovaro verso la minoranza serba, localizzata perlopiù nel nord del Paese. Il Ministero della Salute ha diffuso le informazioni relative alle restrizioni imposte per contenere la diffusione del virus solo in albanese, lingua della maggioranza, e non in serbo, accentuando il senso di emarginazione di queste comunità, già più orientate verso Belgrado che verso Pristina.
Le ingerenze straniere
Il secondo elemento è la permeabilità alle ingerenze straniere. Anche qui non si tratta di alcunché di inedito, da secoli la penisola balcanica è campo di battaglia tra potenze diverse. L’emergenza ha però reso manifesti alcuni trend, in primis l’incapacità di Bruxelles di tramutare la propria sostanziosa presenza economica in soft power. In termini finanziari, l’Ue − sia come istituzione che come 27 Paesi membri − è l’attore che più ha sostenuto questi Stati nello sforzo di fronteggiare l’emergenza. Dopo aver già lanciato un pacchetto da 410 milioni di euro in assistenza bilaterale (38 ad hoc per l’acquisto di materiale sanitario) solo per i Balcani occidentali, Bruxelles ha stanziato altri 3 miliardi per aiutare i Paesi dell’allargamento e del vicinato. Di questi, 180 milioni sono andati all’Albania, 250 alla Bosnia-Erzegovina, 100 al Kosovo, 60 al Montenegro e 160 alla Macedonia del Nord.
Significativamente, la Serbia non ne ha fatto richiesta. Da inizio pandemia Belgrado continua invece a lodare il sostegno fornito da Pechino. Speciale risalto è stato dato all’arrivo di un team di medici cinesi, accolti dal Presidente Aleksandar Vučić direttamente all’aeroporto. Nell’occasione, il leader serbo ha addirittura baciato la bandiera del Dragone a favor di telecamera. Per giorni la capitale serba è inoltre stata tappezzata di manifesti con “Grazie, compagno Xi”. La Serbia, che negli ultimi anni ha attratto molti investimenti cinesi nel campo delle infrastrutture è solo l’esempio più lampante di come Pechino stia tentando di trasformare la pandemia in un’occasione per accrescere la propria influenza in Stati facilmente penetrabili.
Tuttavia, il caso più discusso di ingerenza esterna si è avuto in Kosovo, dove le pressioni degli Usa hanno portato alla caduta del Governo di Albin Kurti in piena emergenza sanitaria. Al momento, sono in corso le trattative per formare una nuova maggioranza, più aperta al compromesso con la Serbia, come richiesto da Washington.
Gli uomini forti
Il terzo dato è il rafforzamento degli uomini forti della regione − soprattutto, l’albanese Edi Rama, il serbo Aleksandar Vučić e il montenegrino Milo Đukanović. La loro gestione dell’emergenza ha palesato nuovamente la scarsa democraticità dei sistemi politici balcanici, con le opposizioni pressoché emarginate, pesanti interferenze sulla libertà di stampa (certificate dal Consiglio d’Europa) e un marcato protagonismo dei politici al potere. La trasparenza è stata sacrificata sull’altare di uno sbandierato pragmatismo. Dinamiche affini a quelle esperite da altri Paesi, ma che nella situazione già deteriorata in cui versano le istituzioni balcaniche rischiano di avere effetti duraturi.
Alcuni provvedimenti varati dai Governi della regione sono stati improntati al più smaccato populismo, come il bonus di 100 euro garantito a ogni cittadino serbo (a prescindere dal reddito), in un anno in cui peraltro si terranno le elezioni presidenziali (previste per fine aprile ma rimandate). È stato il premier albanese Rama a distinguersi per una serie di proposte demagogiche, come l’introduzione di pene fino a 15 anni per soggetti ritenuti colpevoli di diffondere il contagio violando la restrizione di rimanere a casa e di multe pari a cinque volte il canone d’affitto per i locatari che continuassero a esigerne il pagamento. Scemata la pandemia, ci si ritroverà con gli uomini forti ancora più forti e uno Stato di diritto ancora più debole. Ovvero, un altro passo indietro notevole nel processo di adesione.
Le strutture economiche e la Chiesa ortodossa
Alla fragilità delle istituzioni si accompagna, quarto punto, quella delle strutture economiche. L’Fmi ha previsto per quest’anno un calo drastico del Pil di tutti gli Stati della regione, cui dovrebbe però seguire un’impennata nel 2021: per la Serbia -3% (+7.6 nel 2021), per la Macedonia del Nord -4% (+7.5%), -5% per Bosnia (+3.5% nel 2021), Kosovo (+7.5 nel 2021), Montenegro (+6.5 nel 2021) e Albania (+8% nel 2021). Specie per gli ultimi due influisce moltissimo la dipendenza dal turismo.
I Balcani occidentali hanno una popolazione sempre più anziana, trend che non viene però compensato da flussi di migrazione in entrata, come nella maggioranza degli Stati Ue. Poiché per tutti i Paesi − tranne il Kosovo − i visti per l’Ue sono liberalizzati, i giovani più formati emigrano per cercare fortuna in Stati più ricchi. Il coronavirus accelererà verosimilmente questo esodo, una volta che si riapriranno le frontiere.
Quinto elemento, la Chiesa ortodossa, notoriamente filorussa e ostile all’integrazione europea, si è confermata un potere molto influente. Gli ortodossi sono la maggioranza in Serbia, Montenegro, Macedonia del Nord e costituiscono una minoranza numerosa in Bosnia Erzegovina. Consci che molti elettori sono influenzati dai pope, le autorità politiche hanno dovuto tenere in considerazione le istanze del clero. Questo non ha impedito di attuare provvedimenti restrittivi decisivi, ma ne ha diminuito l’osservanza. In tutta la regione si sono tenute messe illegali e in Serbia sono stati segnalati casi in cui i pope hanno servito l’ostia a tutti i fedeli, senza alcuna precauzione. In Macedonia del Nord, le chiese sono addirittura rimaste aperte per la Pasqua.
Un caso a sé è il Montenegro, dove il patriarca della locale Chiesa ortodossa ha pubblicamente dichiarato: “Crediamo ai dottori, ma non siamo ingenui. Le autorità stanno piegando quest’epidemia ai loro scopi ideologici e politici”. I mesi precedenti allo scoppio della pandemia erano già stati segnati da proteste popolari contro la cosiddetta “legge sulla libertà religiosa”, ritenuta particolarmente lesiva per gli interessi degli ortodossi e della folta minoranza serba.
Tutti questi elementi suggeriscono che sembra legittimo aspettarsi di scoprire, quando sarà passata l’emergenza, che il Covid-19 avrà rischiato di frenare la corsa dei Balcani occidentali verso l’Europa.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di giugno/luglio di eastwest.
Nei Balcani occidentali la pandemia scatenata dalla diffusione del coronavirus non ha prodotto molte novità, bensì peggiorato i numerosi deficit (politici, istituzionali ed economici) che caratterizzano questi Stati candidati a entrare in Unione europea (Serbia, Montenegro, BosniaErzegovina, Macedonia del Nord, Kosovo e Albania). Le reazioni fornite dai Governi hanno infatti ribadito molte delle criticità che affliggono la regione.
Il primo dato emerso è la scarsa capacità di coordinamento, collaborazione e condivisione di informazioni, sia a livello interstatale che infra-statale. Tolte iniziative estemporanee, i sei Stati hanno reagito in maniera disarmonica, perseguendo strategie diverse e spesso ondivaghe. Alcuni hanno imposto forme dure di chiusura, altri solo per alcune aree o città, altri ancora non le hanno imposte. Poiché il processo di adesione all’Ue prevedrebbe un incremento della cooperazione infra-regionale, i segnali sono poco incoraggianti.
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