Le aquile albanesi sbattute in faccia a Vucic. La patria croata difesa da un serbo. Il “tradimento” di Djokovic. Così a Belgrado jugonostalgici e nazionalisti si sono scontrati nella coppa che ha portato la Croazia (quasi) sul tetto del mondo
Belgrado – Il Mondiale russo è finito, la superiorità tecnica francese ha prevalso sullo spirito di squadra della Croazia, che ha comunque raggiunto il suo più alto traguardo, dopo quel terzo posto del 1998. Oltre che per l’alta qualità di gioco, questo campionato del mondo verrà ricordato per le tante strumentalizzazioni politiche che solo un mondiale nella Russia di Putin poteva lasciar immaginare alla sua vigilia.
Gruppo E, dove osano le aquile
«Sarei particolarmente felice per una vittoria contro la Svizzera», aveva dichiarato il presidente della repubblica serbo Aleksandar Vucic poco prima del Mondiale, per la cui vittoria finale aveva promesso un premio da parte dello Stato di dieci milioni di euro. Molti sostenitori degli “orlovi” (le aquile, come vengono chiamati i calciatori della Serbia) erano stati esaltati dal riferimento implicito ad una vittoria contro la nazionale elvetica, per cui giocano diversi giocatori di origine albanese e kosovara. Ma alla fine, il 22 giugno, a vincere saranno le aquile albanesi riprodotte con un gesto delle mani dopo i gol di Granit Xhaka e Xherdan Shaqiri, i cui genitori lasciarono il Kosovo tra il ’91 e il ’92 minacciati dagli eventi che di lì a poco avrebbero portato alla dissoluzione della Jugoslavia.
E se per molti il gesto ha rappresentato una rivincita sull’oppressione della Serbia di Milosevic, non è stata dello stesso avviso la Fifa, che l’ha interpretato come una provocazione d’impronta nazionalista sanzionando i due giocatori con un’ammenda di 10mila franchi svizzeri. Ma si tratta di un’amara consolazione per la nazionale serba che, dopo la sconfitta per 2-0 contro il Brasile, farà ritorno a Belgrado, aprendo la questione su chi i serbi avrebbero tifato da lì alla fine.
Amati e odiati vicini
“Che al vicino muoia la mucca!” è uno dei più famosi detti popolari nei Balcani – espressione con cui si misura il proprio benessere in relazione a quello altrui. È in parte il principio che ha diviso in due la società serba dopo l’eliminazione al primo turno e il passaggio agli ottavi dei croati: tifare o gufare la Croazia?
Come sempre, la Serbia si è spaccata in due, mostrando entrambi i suoi volti: quello nazionalista, che nei croati e la sua nazionale non vede nient’altro che “ustascia” (i fascisti croati della seconda guerra mondiale); e quello che si oppone a questa generalizzazione ed esprime invece un sentimento quasi “jugonostalgico”, di simpatia verso i vicini in quel microcosmo che Tim Judah definì “Jugosfera”.
Se a prendere posizione poi è uno come Novak Djokovic, che ha reso grande la Serbia nel mondo dello sport, la faccenda si complica: un suo tweet a diretto sostegno dei “vatreni” (i focosi, come vengono chiamati i calciatori della Croazia) ha aumentato le divergenze. Vladimir Djukanovic, parlamentare del partito di governo, ci è andato giù pesante, definendo il campione serbo “idiota e psicopatico”.
Ma il teatro migliore di questa polarizzazione l’ha offerto il quarto di finale: Russia-Croazia. All’odio per gli “ustascia”, i nazionalisti serbi hanno aggiunto la propria russofilia, che ha più motivazioni politiche che altro. Eppure, se la Croazia è arrivata a giocarsi i quarti il merito, con buona pace dei nazionalisti di Zagabria e Belgrado, è di un serbo di Croazia. Danijel Subasic, il portiere che ha parato ben 3 rigori alla Danimarca, è figlio di un matrimonio misto: padre serbo e madre croata. «Per tutto il nostro Paese festeggiavano quelli del partito Hdz [il partito nazionalista al governo, ndt], quelli di destra, gli ustascia, le suore e le prostitute […] tutti hanno urlato di gioia nel momento in cui, a fianco agli oltre cinquecentomila difensori della patria registrati, la patria croata l’ha difesa un serbo», scriveva Ante Tomic, nell’ editoriale per il quotidiano croato Jutarnji list intitolato “Ecco perché il nazionalismo è una stronzata”.
E se il presidente serbo ha ribadito che in quella gara avrebbe tifato Russia altre cento volte, sui social c’è chi ha seguito l’esempio del tennista serbo, schierandosi apertamente con la Croazia. Per onor della cronaca, va anche detto che un’ora prima della finale tra Francia e Croazia, il redivivo Nole ha conquistato il suo quarto trofeo a Wimbledon, facendo di fatto scomparire i linciaggi mediatici di cui era stato vittima nei giorni precedenti, confermando quindi l’attitudine opportunista dei nazionalisti.
“Se la Jugoslavia fosse ancora unita…”
È una delle riflessioni, o meglio ucronie, più in voga in occasione di europei e Mondiali di calcio: se croati, bosniaci, serbi e montenegrini giocassero insieme sarebbero “il Brasile d’Europa”. Ma agli opposti nazionalismi questo non importa e ci è mancato poco perché a Zagabria potessero permettersi di dire “non ci serve la Jugoslavia per essere i più forti del mondo”.
Quel che conta, all’indomani del Mondiale, è che il calcio ancora una volta si è mostrato veicolo di messaggi politici e politicizzati o a difesa dell’interesse nazionale: come se le squadre nazionali fossero un braccio dello Stato che rappresentano, come se i suoi giocatori rappresentassero le classi sociali di un Paese e non, invece, una ristretta cerchia di fortunati che vive nelle più ricche città europee.
Difficile dire se rivedremo mai giocare insieme i popoli dei Balcani, ma ancor più difficile sembra pensare lo sport da queste parti senza mescolarvi inutili rivendicazioni di carattere nazionale.
@Gio_Fruscione
Le aquile albanesi sbattute in faccia a Vucic. La patria croata difesa da un serbo. Il “tradimento” di Djokovic. Così a Belgrado jugonostalgici e nazionalisti si sono scontrati nella coppa che ha portato la Croazia (quasi) sul tetto del mondo