
Se Trump dovesse andare avanti con la riduzione dei National monument, in particolare Bears ears, la Casa bianca si troverà a dover gestire oltra alla protesta popolare anche quella, più gravosa, dell’industria dell’outdoor.
WASHINGTON – Dopo mesi di incertezza, è in arrivo una nuova grana per il presidente statunitense Donald Trump. È quella legata a Bears ears, il più simbolico National monument dello Stato dello Utah. Secondo le indiscrezioni rivelate da Washington post e Wall street journal, il suo territorio sarà ridotto del 90 per cento. Insieme a Bears ears, anche altri sette monumenti nazionali vedranno una sorte analoga. E la protesta popolare, unita a quelle delle società di outdoor, rischia di arrivare ancora una volta a Washington.
Per capire al meglio cosa è successo intorno a quello che gli americani considerano uno dei paradisi dell’arrampicata e delle attività ricreative all’aperto, bisogna tornare indietro di qualche mese. Per la precisione, al 28 dicembre scorso, quando il predecessore di Trump, Barack Obama, decise – a sorpresa – di nominare National monument l’area di Bears ears. Felici le popolazioni native che da trent’anni combattevano per quello status, dai Navajo Nation, Hopi, Ute Mountain Ute, Ute Indian Tribe of the Uintah, Ouray Reservation e Pueblo of Zuni. Meno contento The Donald, che a inizio gennaio, prima del suo insediamento alla Casa bianca, aveva proposto di revisionare tutti i National monument creati dal 1996 a oggi. E vale la pena ricordare la differenza fra un parco nazionale e un monumento nazionale. Il primo è istituito dal Congresso, e dato in gestione al National park service (Nps). Il secondo è creato direttamente dal presidente, e può essere gestito dal Nps, così come dallo United States Forest Service, dallo United States Fish and Wildlife Service o dal Bureau of Land Management.
Al fine di fare uno sgarbo a Obama, si dice negli ambienti diplomatici, Trump voleva la revisione dei monumenti nazionali. E allora ha chiesto al segretario dell’Interno, l’ex Navy SEAL Ryan Zinke, di avviare il processo. Immediate furono le proteste dell’American alpine club (Aac, l’equivalente del Club alpino italiano) e dell’Access fund, che si occupa della preservazione e della conservazione delle aree naturali dedicate al mondo dell’arrampicata statunitense. Analoga la reazione dell’Outdoor industry association, che al suo interno ha i rappresentanti di marchi come Patagonia, North Face, Mountain Hardwear e Black Diamond, solo per citare i più celebri. Addirittura, l’industria dell’outdoor aveva previsto di boicottare l’annuale fiera di Salt Lake City, in Utah, come extrema ratio. Eppure, tutte le minacce e le proteste sono servite a nulla.
E si arriva ai giorni nostri, infatti. Washington Post e Wall street journal, così come il Salt Lake tribune, hanno pubblicato un documento riservato attribuibile al dipartimento dell’Interno, quello di Zinke, e inviato alla Casa bianca. In esso sono contenuti i dettagli sulle revisioni previste. Sette i siti scelti: Bears ears, Grand staircase-escalante, Cascade-Siskiyou (Oregon), Gold butte (Nevada), Katahdin (Maine), Organ Mountains-Desert Peaks e Rio Grande Del Norte, entrambi in New Mexico. In media, la riduzione prevista sarà compresa fra l’80 e il 90% del territorio esistente. E ciò significa che ci saranno intere aree – attualmente preservate – che potranno essere oggetto di trivellazioni, ma anche della costruzione di infrastrutture stradali e della creazione di allevamenti intensivi di pesci per il consumo umano. Il problema non è solo sostanziale, ma anche simbolico.
L’idea dei National monument arriva dal 1906, quando Theodore Roosevelt decise di istituire l’Antiquities Act, in modo da conservare le terre dei nativi americani dall’invasione dei coloni europei alla ricerca di oro, petrolio e risorse naturali. E Roosevelt aveva concepito l’Antiquities Act come la norma perfetta: la principale motivazione per la nascita di un monumento nazionale era (ed è) un «interesse scientifico» rilevante. Un interesse che può essere naturalistico, o geologico, o biologico.
Se Trump andasse fino in fondo non solo tradirebbe le intenzioni di Roosevelt, ma anche tutti gli studi scientifici e le osservazioni della NASA riguardo alla capacità energetica delle aree sottoposte alla revisione di Zinke. Sì, perché dietro alla storia di Bears ears non c’è solo la voglia di Trump di fare un dispetto a Obama, ma c’è anche il desiderio di non perdere la sua base elettorale. Dopo aver promesso a più riprese in campagna elettorale il ritorno allo sfruttamento del carbone e degli altri combustibili fossili, ogni idea si è arenata. Primo, perché le miniere esistenti sono esaurite nel circa il 75% dei casi, secondo l’analisi della US Energy information administration. Secondo, perché le aree ancora utilizzabili si trovano dentro i National monument, quindi tecnicamente inutilizzabili. A meno che, come nel caso di Bears ears, si decida cancellare la tutela della zona di Indian creek, ricca di risorse.
Quello che è certo è che, se fossero confermate le indiscrezioni, Trump si troverà la Casa bianca invasa dai climber e dagli ambientalisti. Lo hanno già fatto in maggio, e sono disposti a farlo ancora. E non va dimenticato che, considerato che il mercato di riferimento vale circa 890 miliardi di dollari (2016, Oia), la potenza di fuoco dell’industria dell’outdoor negli USA è tale da poter organizzare proteste su larga scala, in diversi ambiti, compreso uno sciopero fiscale. Il cielo è grigio sopra Bears ears, ma nemmeno sopra la Casa bianca splende il sole.
@FGoria
Se Trump dovesse andare avanti con la riduzione dei National monument, in particolare Bears ears, la Casa bianca si troverà a dover gestire oltra alla protesta popolare anche quella, più gravosa, dell’industria dell’outdoor.