Berlin Syndrome era in concorso nella selezione Panorama dell’ultimo Festival di Berlino.
La giovane Claire è alla ricerca di se stessa nel viaggio della vita, in un’esperienza forte nella città che adesso rappresenta il fulcro della modernità. Berlin calling, Claire risponde. È una fotografa in erba, sta lavorando ad un libro fotografico sull’architettura della DDR. Una grande passione per il brutalismo di scuola sovietica che la unisce anche al sottoscritto. Lei, a differenza mia, è una bellissima ragazza e viene presto abbordata da un intrigante professore di inglese. Una persona a modo, sensibile, devoto, brillante. Peccato però che abbia tratti da serial killer psicotico e che non sia facilissimo accorgersene al primo sguardo. Dopo una giornata epica ed una nottata di passione, si ritrova a casa di lui. Chiusa dall’esterno, impossibilitata nel chiedere aiuto, in un grande appartamento di un palazzo disabitato, uno dei vecchi rimasugli della fu Germania Est sopravvissuta alla gentrificazione ed alla speculazione edilizia.
Berlin Syndrome non è un filmetto da sottovalutare. Ha la forza del thriller e soprattutto riesce ad essere sempre molto credibile, rimanendo ancorato al binario della veridizione. Poteva sfociare nel genere del b-movie ed invece mantiene sempre tratti di genialità, andando in profondo nell’inconscio umano e dei rapporti di coppia. Quelli bizzarri e spesso presenti in cronaca nera, dove uno dei partner prevarica sull’altro, dove la passione finisce in omicidio e in attacchi con l’acido. Con un regista meno brillante, sarebbe stato tutto molto più squallido, difficilmente saremmo usciti dal vortice del filmaccio. Invece le scelte dell’australiana Cate Shortland convincono fin da subito e rimangono di livello fino all’ottimo finale, in uno psycho-thriller sul tema della dominazione e del possesso che mi hanno ricordato subito il capolavoro di Stephen King, quel Misery non deve morire che vorrei rileggere presto sotto l’ombrellone.
Il successo di questa pellicola risiede ovviamente nelle interpretazioni dei due attori, principali e quasi unici: Teresa Palmer (la moglie del protagonista in Hacksaw Ridge) e Max Riemelt (Wolfgang Bogdanow in Sense8). Nei loro volti cogliamo un disagio, intuiamo qualcosa di strano del rapporto tra i due in un crescendo d’intensità. Ricalcando la famosa Sindrome di Stoccolma, Berlin Syndrome ci lascia stupefatti e riflessivi sulle mille sfumature di amore tossico presenti nella vita reale. Si può restare in prigionia chiusi in casa e legati al letto, ma se a Natale ti fanno i regali allora sì che è vero amore.
Un film interessante e non scontato.
@brillabbestia
La giovane Claire è alla ricerca di se stessa nel viaggio della vita, in un’esperienza forte nella città che adesso rappresenta il fulcro della modernità. Berlin calling, Claire risponde. È una fotografa in erba, sta lavorando ad un libro fotografico sull’architettura della DDR. Una grande passione per il brutalismo di scuola sovietica che la unisce anche al sottoscritto. Lei, a differenza mia, è una bellissima ragazza e viene presto abbordata da un intrigante professore di inglese. Una persona a modo, sensibile, devoto, brillante. Peccato però che abbia tratti da serial killer psicotico e che non sia facilissimo accorgersene al primo sguardo. Dopo una giornata epica ed una nottata di passione, si ritrova a casa di lui. Chiusa dall’esterno, impossibilitata nel chiedere aiuto, in un grande appartamento di un palazzo disabitato, uno dei vecchi rimasugli della fu Germania Est sopravvissuta alla gentrificazione ed alla speculazione edilizia.