Uno scintillante candelabro a otto braccia e un poderoso volume dalla copertina scura. Poco più di un anno fa, nel dicembre 2013, Benjamin Netanyahu presentava questi due doni a Jorge Bergoglio, incontrandolo per la prima volta in Vaticano. Il primo, simbolo di Hanukkah, la festa ebraica delle luci, non stupì nessuno. Sulle 1384 pagine di “The Origins of the Inquisition in Fifteenth Century Spain”, firmate dal padre di Netanyahu, lo storico dall’impronta di falco Ben Zion, scomparso nel 2012 all’età di 102 anni, hanno discusso in molti. Voleva forse Bibi inviare un messaggio tra le righe al pontefice, ricordandogli il ruolo della Chiesa nella persecuzione del popolo ebraico? E se sì, era opportuno?

Al di là del dibattito, è leggendo tra le righe di quell’episodio che si può partire per comprendere chi sia davvero l’unico riuscito nell’impresa di eguagliare il padre della patria David Ben Gurion nel numero di mandati come primo ministro dello Stato di Israele (tre, in attesa delle elezioni del prossimo 17 marzo, che potrebbero proiettare Netanyahu verso il quarto): la famiglia e il senso della storia, prima ancora della politica e delle teorie economiche.
“Ovunque io vada a Gerusalemme, quando chiedo di Netanyahu, tutti mi rispondono la stessa cosa: ‘Per capire Bibi, devi capire suo padre” scriveva David Remnick in un lungo ritratto dell’allora quarantottenne primo ministro israeliano apparso sul New Yorker nel maggio 1998. All’epoca Netanyahu era impegnato nel suo primo mandato come premier, dopo aver battuto a sorpresa il laburista Shimon Peres nelle elezioni convocate dopo l’assassinio di Yitzhak Rabin.
“Benzion incombe su suo figlio non meno di quanto Joseph Kennedy incombesse sul suo clan. La sua visione è alla radice della percezione di Bibi del mondo come qualcosa di minaccioso” sottolineava Remnick, proponendo il parallelo tra lo storico dell’Inquisizione, campione del revisionismo sionista, la corrente più di destra del movimento di aspirazione a una patria ebraica, e il padre del trentacinquesimo presidente americano. Senza dimenticare un’altra figura fondamentale della vita di Benjamin, quella del fratello Yonatan ucciso guidando l’operazione all’aeroporto ugandese di Entebbe nel 1976 per salvare decine di ostaggi tenuti prigionieri dai terroristi, che lasciò un vuoto incolmabile nella vita dell’affezionatissimo futuro premier.

Non solo fare la storia di Israele, ma soprattutto difenderla, identificare, combattere e prevenire qualsiasi minaccia, ha rappresentato la priorità di Netanyahu, come dimostrano anche i suoi frequenti riferimenti alla Shoah, atti a lanciare un’ammonizione al mondo e al suo stesso popolo. “Sembra che in Europa, sul cui suolo milioni di ebrei sono stati massacrati, in troppi non abbiano imparato nulla dalla Shoah” ha per esempio dichiarato commentando la recente sentenza della Corte di giustizia UE che ha cancellato l’inserimento di Hamas nella lista delle organizzazioni terroriste.
Negli ultimi anni tuttavia, la denuncia più pressante in questa prospettiva è stata quella contro l’Iran, che con la sua corsa al nucleare condita dalle minacce di cancellare Israele dalle carte geografiche, è stata più volte paragonata alla Germania nazista (famoso tra tutti rimane il discorso pronunciato nel settembre 2012 all’assemblea generale dell’Onu, quando Bibi scelse di accompagnare le sue parole con il disegno di una bomba stilizzata e una linea rossa a segnare il punto di non ritorno).

Il dossier Iran rappresenta anche uno dei temi di contrasto con l’amministrazione Obama.
La storia delle incomprensioni tra Bibi e Barack è lunga, e se ne trova traccia lungo tutto il loro parallelo percorso politico al vertice.
“Per Obama, Netanyahu è un conservatore amante dei sigari tipo XIX secolo, costantemente impegnato a minare le sue politiche di pace e progresso. Per Netanyahu, Obama è ideologicamente un extraterrestre, atterrato per caso nell’impero romano del XXI secolo e intento a neutralizzare il suo potere” ha scritto lo scorso novembre Ari Shavit, autorevole editorialista del quotidiano liberal Haaretz.

Bibi l’America la conosce molto bene. Lì ha frequentato il liceo, e poi il prestigioso MIT (titoli in architettura e in business), dopo aver trascorso cinque anni in Israele servendo in un’unità di élite dell’esercito. Proprio negli Stati Uniti furono i suoi primi incarichi pubblici, funzionario dell’ambasciata di Israele a Washington prima e ambasciatore presso l’Onu poi, prima di essere candidato alla Knesset nel 1988 nelle file del Likud, il partito di centro-destra fondato nel 1973 da Menachem Begin.
Come Ministro delle Finanze, incarico che ricoprì nel governo di Ariel Sharon, prima di rassegnare le dimissioni nel 2005 in segno di protesta contro il ritiro unilaterale da Gaza, Netanyahu si dedicò soprattutto a rendere Israele un mercato più aperto, ottenendo alcuni successi ma anche, secondo i suoi critici, compromettendo il sistema di welfare e favorendo così la crescita delle diseguaglianze, oggi una delle questioni più sentite nel dibattito del paese.
Ma non sono gli affari interni il terreno su cui Netanyahu ama misurarsi: il suo cuore e la sua narrativa politica ed elettorale rimangono focalizzati sulla difesa.
A parte la già citata questione iraniana, per anni Bibi si è opposto al principio di “terra in cambio di pace” e alla soluzione “due Stati per due popoli”, sostenendo inoltre l’espansione degli insediamenti israeliani nei Territori palestinesi, pur con delle eccezioni, come l’accordo che nel 1997 firmò con Yasser Arafat per la restituzione dell’80% del controllo di Hebron all’Autorità nazionale palestinese.

La svolta arrivò poi nel 2009, quando il primo ministro dichiarò il proprio appoggio alla nascita di uno Stato palestinese smilitarizzato accanto a Israele, Stato ebraico con Gerusalemme capitale unica e indivisibile.
Molteplici le letture date alla sua nuova posizione: per alcuni un cambiamento genuino, svuotato di contenuto per la determinazione palestinese a porre pre-condizioni alla propria disponibilità a sedersi al tavolo dei negoziati; per altri una mossa di facciata, volta a offrire un contentino alla comunità internazionale, ma priva di concretezza a cause delle tante azioni in direzione opposta, tra cui l’aiuto agli insediamenti, ma anche la ripetuta richiesta che l’Autorità palestinese riconosca Israele come Stato ebraico.
È stata proprio la discussione di una proposta di legge per ribadire il carattere ebraico di Israele (già menzionato nella Dichiarazione d’Indipendenza, che funge anche da Costituzione) una delle principali cause del dissolvimento del governo nelle ultime settimane, data la netta opposizione dei partiti centristi della maggioranza, Yesh Atid e Hatnua.
“King Bibi”. Così nella primavera 2012, il Time aveva definito il premier israeliano nella sua storia di copertina, incoronandolo sovrano della politica del paese quando riuscì a scongiurare il rischio di elezioni anticipate. Poco più di due anni più tardi la stella di Bibi appare offuscata, assediata dalla sinistra del ticket laburista Isaac Herzog-Tzipi Livni, dal centro di Yesh Atid, dalla destra del partito nazional-religioso Habayt Hayehudì, e del nuovo Kulanu dell’ex stella del Likud Moshe Kalon, dalle contrapposizioni interne allo stesso Likud.

Gli israeliani poi non sembrano mostrare una grande comprensione per il premier che li porta nuovamente alle urne dopo 20 mesi e la gestione della crisi con Gaza la scorsa estate ha lasciato scontenti in molti, che hanno cominciato a dubitare che sia davvero lui l’uomo giusto per garantire la sicurezza di Israele. Tuttavia i sondaggi indicano che è ancora Bibi l’uomo da battere. Inoltre, anche nei momenti di crisi profonda, Netanyahu ha sempre saputo tirare fuori le risorse per andare avanti. La pagina di storia di Israele che Bibi auspica di firmare potrebbe essere insomma ancora tutta da scrivere.
@RossTercatin
Uno scintillante candelabro a otto braccia e un poderoso volume dalla copertina scura. Poco più di un anno fa, nel dicembre 2013, Benjamin Netanyahu presentava questi due doni a Jorge Bergoglio, incontrandolo per la prima volta in Vaticano. Il primo, simbolo di Hanukkah, la festa ebraica delle luci, non stupì nessuno. Sulle 1384 pagine di “The Origins of the Inquisition in Fifteenth Century Spain”, firmate dal padre di Netanyahu, lo storico dall’impronta di falco Ben Zion, scomparso nel 2012 all’età di 102 anni, hanno discusso in molti. Voleva forse Bibi inviare un messaggio tra le righe al pontefice, ricordandogli il ruolo della Chiesa nella persecuzione del popolo ebraico? E se sì, era opportuno?